sabato 28 febbraio 2009

CULTURA E SPETTACOLO UNA MANO DAI RICCHI, Il Tempo del 28 febbraio

Il problema non è unicamente romano anche se due “fatti” relativi alla capitale hanno scatenato l’attenzione nazionale (ed estera): a) il Teatro dell’Opera è in difficoltà perché sulla stagione 2009, indicata come quella della “svolta”, si staglia la minaccia di un forte disavanzo (tra i 5 e gli 11 milioni di euro) a ragione della riduzione dello stanziamento del Fondo unico per lo spettacolo (Fus); b) gli 80 teatri di prosa della città sono in affanno poiché oltre alla riduzione dei contributi, la recessione colpisce gli spettatori (una contrazione del 4% dei ricavi da biglietteria nel gennaio-settembre 2008, rispetto allo stesso periodo del 2007). Tre delle 13 fondazioni lirico-sinfoniche del Paese sono commissariate (ed altre due ne sono sull’orlo). Compagnie di prosa grandi e piccole piangono alla lettura dei dati di botteghino e di “impegni” per contributi pubblici (erogati dopo diversi mesi dallo stanziamento).
Come disse Piero Bargellini (allora Sindaco di Firenze) con il fango sino alle ginocchia negli Uffizi, durante l’alluvione del 1966, “la situazione è tanto grave che non c’è tempo per piagnistei”. L’assessore alla Cultura del Comune di Roma, Umberto Croppi, dichiara che è necessario dare “più spazio ai privati per gestire il sistema”. Numerose le esperienze positive all’estero. In Francia, il “patronage” è tale che festival come quelli di Avignone e Aix en Provence- sono finanziati al 30% da sponsor privati. In Gran Bretagna, interessante il sistema degli “angels”, a supporto di attività di teatro di prosa sperimentale o di autori (ed attori) giovani; “angeli” incoraggiati da detrazioni tributarie. Negli Usa ed in Canada, la prassi è il “matching grant”: contributi pubblici “equivalenti” all’apporto privato (mentre in Italia, spesso il pubblico si fa da parte se si avvicina il privato – come avvenuto per la sinfonica sponsorizzata dalla Fondazione Roma).
Il Ministro dei Beni Culturali Sandro Bondi invita una maggiore partecipazione privata allo sforzo per cultura e spettacolo (indagini econometriche provato che rende in termini di crescita): tra le prime misure adottate da quando è al Collegio Romano, ha istituito una commissione tecnica per riesaminare i nodi delle agevolazioni tributarie alle attività culturali. Quelle in vigore (varate quando il centro-sinistra aveva maggioranza e Governo), da un canto, sono macchinose e, dall’altro, ipotizzano (dato che prevedono una detrazione non superiore al 19% dell’imposta sul reddito) che siano le fasce basse le più propense ad elargizioni liberali. Individui e famiglie con un’aliquota marginale del 19% sono quelli che hanno maggiori difficoltà a mettere insieme il pranzo con la cena; analogamente, imprese ai livelli più bassi di utili non hanno spazi per elargizioni e difficoltà ad ottenere i fidi necessari per la loro operatività. La commissione tecnica ha concluso da alcune settimane il proprio lavoro proponendo sgravi in linea con le direttive europee. Azione a livello politico sarebbe un segnale utile e tempestivo.

TUTTE LE RAGIONI DEL NUCLEARE, FFwebnagazine del 28 febbraio

L’intesa Italia-Francia in materia di cooperazione per lo sviluppo del nucleare a fini civile non può non risvegliare ricordi ad un economista che ha dedicato parte importante della propria vita professionale su temi attinenti alle fonti d’energia. Ho cominciato ad operare in questo campo quando ero giovane, al centro studi Cespetrol (negli Anni 60) sia in Banca Mondiale (negli Anni 70) sia più di recente in vari incarichi per la pubblica amministrazione italiana. Alla fine degli Anni 60, appena entrato in Banca Mondiale, nell’ambito dello studio sulla convenienza di utilizzare energia nucleare nei Paesi in via di sviluppo; l’analisi costi efficacia effettuata con la metodica dell’epoca diedi risultati piuttosto incerti ed il possibile supporto dell’istituzione a progetti elettronucleari venne in pratica abbandonato.
Negli Anni 80, all’allora Ministero del Bilancio e della Programmazione Economica, a dover coordinare il lavoro di una commissione per decidere il ri-finanziamento di due progetti sperimentali, il Pec ed il Cirene. Non solo le stime dei costi erano aumentate di vari multipli (rispetto a quelle iniziali) ma la tecnologia era ormai obsoleta; i proponenti (all’epoca l’Enea) aveva come unico argomento quello di completare i progetti per cederli al Ministero degli Affari Esteri (Mae) che avrebbe potuto utilizzarli per l’addestramento di personale di Paesi in via di sviluppo a valere sui fondi della cooperazione. Ovviamente, non se fece nulla.
Interessante ed ancora attuale l’analisi per la riconversione della centrale termonucleare di Montalto di Castro anche come esempio di analisi costi benefici relativamente a investimenti o politiche in cui l’elemento rischio è di grande rilievo e la tecnica del “valore di rovesciamento” rappresenta un’utile scorciatoia operativa.
Alla fine degli Anni 80, i risultati di un referendum, tenuto dopo l’incidente all’impianto termonucleare a Chernobyl in Ucrina, venne interpretato come un esito chiarissimo di un’analisi costi benefici politica in materia di sviluppo dell’energia nucleare a fini produttivi: un forte e netto “no”. Le implicazioni erano semplici per impianti piccoli ed obsoleti (quali quello di Borgo Sabotino) – da dismettere – o per impianti in progettazione (quali il secondo lotto della centrale di Trino vercellese), ma complicate per impianti in costruzione (quale quello di Montalto di Castro) dove per di più era già stato effettuato un forte investimento che altrimenti non avrebbe avuto utilizzazione economica. Il Parlamento diede mandato al Ministro dell’Industria di studiare “la fattibilità tecnica e la utilità economica” della conversione dell’impianto (Ministero dell’Industria, 1988).
Un’apposita commissione (di cui facevano parte anche esperti di nome e livello internazionale- la presiedeva il Prof. Spaventa ora alla guida del Monte dei Paschi di Siena e ne faceva parte il Prof. Draghi oggi Governatore della Banca d’Italia) decise di fare ricorso all’analisi costi benefici per affrontare il problema. Era un’impostazione corretta in quanto si trattava di progetto “marginale” (nel senso che la sua realizzazione o meno non incideva sulla struttura di produzione del Paese) e si cercava una risposta dicotomica: accettazione o rigetto dell’operazione. La commissione, però, non affrontò mai quale analisi condurre, se dal punto di vista della collettività (a prezzi “economici” e nell’ambito di una funzione di benessere sociale anch’essa “economica”) o dal punto di vista dell’ente produttore (l’Enel) e dei consumatori. Ammesso che il referendum aveva dato una risposta all’analisi dei costi e dei benefici “politici”, si sarebbe dovuto optare per un’analisi finanziaria od economica oppure meglio ancora per ambedue. Sotto il profilo dell’analisi economica, poi, si sarebbe dovuto affrontare il problema del valore economico da dare al bene pubblico “sicurezza” (nel senso di “assenza di rischio”) ed al bene meritorio o sociale “innovazione”. Il primo, in particolare, nel caso di una centrale nucleare ha una caratteristica peculiare: la probabilità di un incidente è molto bassa, ma in caso di incidente i danni a cose e persone sono vastissimi. Sotto il profilo dell’analisi economica, la commissione avrebbe dovuto anche chiedersi quale numerario (e quale sistema di prezzi ombra) adottare. La commissione produsse un documento in cui si faceva, essenzialmente, un’analisi costi benefici dal punto di vista dell’ente produttore (l’Enel, che aveva comunque fornito i dati tecnici) e delle eventuali sovvenzioni dall’erario all’ente – quindi qualcosa di intermedio tra analisi “finanziaria” ed una ”fiscale”. L’assunto implicito di base era che la convenienza, o meno, all’ente produttore ed all’erario era rappresentativa anche della convenienza, o meno, alla società. Questo è assunto rudimentale e riduce la funzione di benessere sociale ad una esprimente gli obiettivi dell’Enel.
Nel documento si raffrontava il completamento dell’impianto nucleare con una centrale a gas ed una policombustibile, quantizzando i costi relativi sia di investimento sia di esercizio, per ciascuna soluzione, nell’ipotesi di una produzione equivalente di energia. Sotto questo profilo, si seguiva una prassi standard di metdo e tecnica di analisi sin dagli Anni 60 per l’analisi di progetti di produzione di energia elettrica e di altri servizi di pubblica utilità (van der Tak 1966, Saunders, Warford e Wellenius, 1983, Commissariat au Plan 1986). Depurato da alcuni errori contabili (ad esempio, i costi per il contenzioso e gli interessi sul capitale vengono considerati costi “economici”), il confronto concludeva che l’alternativa nucleare era quella più “conveniente” sia per l’ente sia per l’erario, ossia la pubblica amministrazione ed ergo, nel documento della commissione, per la collettività (Ministero dell’Industria, 1988).
Un centro studi economici privato, invitato informalmente dal Ministro del Tesoro dell’epoca a verificare il lavoro della commissione, ne corresse gli errori contabili ed ordinò le alternative in base al Saggio interno di rendimento (Sir): 18,5% per il nucleare, 10% per il gas ed 11% per il policombustibile (Leon e Tenenbaum, 1988 a e b). Anche se il problema di fondo consisteva nel raffronto non di progetti differenti ma di alternative tecniche per raggiungere il medesimo obiettivo progettuale (ossia la produzione annua di una determinata quantità di energia elettrica), l’analisi avrebbe dovuto ordinare le alternative non in base al Sir ma in base al Valore attuale netto (Van) per ragioni note a chiunque abbia dimestichezza con la metodologia, e la teoria ad essa sottostastante . Inoltre né l’analisi della commissione né quella del centro studi affrontavano i quesiti di fondo: come valutare il bene pubblico “sicurezza” (assenza di rischio) ed il bene meritorio o sociale “innovazione”.
Questi errori vennero colti da Francesco Forte che, per avere rivestito ruoli pubblici e in politica economica e in particolare nel settore dell’energia, aveva peso nel dibattito; affidò la sintesi delle sue analisi al più diffuso quotidiano italiano (Forte, 1988) . Il suo lavoro affrontava correttamente la valutazione in quanto problema di minimizzazione dei costi complessivi e proponeva, per quantizzare il bene pubblico “sicurezza”, l’utilizzazione, ai fini dell’analisi, di stime di costi aggiuntivi (all’alternativa nucleare) quali derivati da un recente rapporto sulla sicurezza nucleare all’Agenzia Internazionale per l’Energia Atomica (Aiea) al Governo italiano. Su questa base, concludeva che il policombustibile sarebbe stata l’alternativa tecnica che avrebbe minimizzato i costi totali all’ente ed all’erario e fornito , al tempo stesso, un livello di sicurezza adeguato alla collettiva. Le alternative venivano correttamente raffrontate sulla base del Van non del Sir ; il Sir veniva computato utilizzato il saggio (8%) allora utilizzato per la valutazione dei progetti d’investimento pubblico presentati al Fondo Investimenti ed Occupazione (Fio).
In un’analisi parallela, anch’essa pubblicato in forma riassuntiva (Pennisi, 1988), seguì la stessa strada di Forte con alcune caratteristiche aggiuntive. Sotto il profilo della stima dei benefici e dei costi economici, raffrontavo i costi per il bene pubblico “sicurezza” quali derivanti dal rapporto Aiea con le tecniche allora in vigore negli Usa (Spranger, 1987) e giungevo alla conclusione che le stime quantitative sarebbero state approssimativamente le stesse (per la due alternative, nucleare e policombustibile) in termini di costo pro-capite nell’area potenzialmente a rischio, pur molto basso. Tentai anche di affrontare il tema della quantizzazione del bene meritorio-sociale “innovazione”, concludendo che a tale voce si doveva dare un valore nullo in quanto la tecnologia termonucleare utilizzata per l’impianto di Montalto era già superata da quella adottata per impianti in costruzione in Svezia e Svizzera. La stima del Van veniva rielaborata utilizzando un saggio di attualizzazione al 5%, considerato meglio rappresentativo del saggio di interesse sui consumi (Pennisi, 1989; Vatter, 2008); in tal modo, si rendeva l’intera analisi compatibile con l’obiettivo di crescita dei consumi e soprattutto con un sistema di prezzi di riferimento che, nel vincolo dei dati e del tempo disponibile, aveva i consumi come numerario implicito. I risultati confermavano che il policombustibile appariva come l’alternativa tecnica preferibile se la “sicurezza” veniva stimata seguendo le procedure Aiea-Usa e considerando nullo il valore dell’innovazione. Al saggio di attualizzazione del 5%, il test di accettazione o rigetto avrebbe dato risultati rovesciati (ossia favorevoli all’alternativa nucleare) se non si fosse aggiunto il costo delle ulteriori misure di “sicurezza” e, come richiesto dall’ente produttore, si fosse invece inclusa una valorizzazione positiva per l’innovazione, considerando l’impianto come “presidio” per l’innovazione nel settore.
Quali implicazioni per le politiche energetiche del XXI secolo? Il metodo risulta valido anche oggi come strumento per valutare le scelte in materia di politiche e progetti, specialmente se arricchito con le nuove tecniche di analisi per affrontare irreversibilità e incertezza (Pennisi, Scandizzo 2003; Chirinko, Shaller 2008; Vatter, 2008). Dato il progresso tecnologico in materia di “sicurezza” è altamente probabile che oggi i risultati siano “rovesciati”, rispetto a 21 anni fa, a favore del nucleare.

Riferimenti


Commissariat au Plan (1986) Evaluer les politiques publiques , Parigi
Chrinko R., Shaller H. (2008) “The Irreversibility Premium” CESifo Working Paper n. 2265
Forte F. (1988) “La verità su Montalto di Castro” in “Corriere della Sera” 18 marzo
Leon P. e Tenenbaum M. (1988 a) “Montalto: conti per chiudere il cerchio” in “Politica ed economia” marzo
Leon e P. Tenenbaum M. (1988b) “Politica e numeri divisi dall’atomo” in “Il Sole-24 Ore” 30 marzo
Ministero dell’Industria (1988) “Relazione della Commissione Ministeriale sulla possibilità tecnica e sulla convenienza economica della conversione della centrale nucleare di Montalto di Castro” Roma
Pennisi G. (1988) “I conti di Moltalto” in “Mondoperaio” maggio
Pennisi G. (1989), “Economic Appraisal of Environment-related Project. Many Certainties and a Few Uncertainties” in “ Economia delle Scelte Pubbliche – Journal of Public Finance and Public Choice”
Pennisi G., Scandizzo P.L. (2003) “Valutare l’incertezza” Giappichelli 2003
Saunders R. , Wardorf J. E Wellenius B. (1983) “Telecomunication and economic development” The Johns Hopkins University Press, Baltimora
Spranger M. B. (1987) “De minimis rirsk concepts in the Us nuclear regulation commission: as low as reasonably achievable“ in “Project Appraisal” December
Van der Tak H. (1966) “The economic choice between hydroelectric power and thermal power development” The Johns Hopkins University Press, Baltimore
Vatter M. (2008) “Social Discounting with Diminishing Returns on Investment”, in “Economic Insight”

NUCLEARE, MERCATI, CREDITO:L'ITALIA ALZI LA VOCE, Libero 28 febbraio

Domani primo marzo 2009, i Capi di Stato e di Governo dell’Unione Europea (Ue) si sono dati appuntamento a colazione nel piuttosto anonimo palazzone Justus Lipsius (un filologo ed umanista fiammingo del XVI secolo) per ciò che, in sostanza, è una seduta straordinaria del Consiglio Europeo. La sessione è stata preceduta, domenica, 22 febbraio, da una colazione di lavoro analoga, ma a Berlino, tra i quattro “grandi” dell’Ue. L’obiettivo di questi incontri ravvicinati consiste nel forgiare una posizione comune per l’appuntamento del G20 il 2 aprile a Londra. Tra la colazione a Berlino del 22 febbraio e quella a Bruxelles del primo marzo, il Presidente degli Stati Uniti Barack Obama ha presentato al Congresso Usa il “messaggio sullo Stato dell’Unione”, discorso annuale che equivalente alla esposizione del programma d’indirizzo politico dell’Esecutivo al Legislativo. Ha, quindi, scoperto alcune delle carte della posizione Usa al G20: la recessione sarà lunga (probabilmente tre anni, pur se, con un colpo d’ala, se ne potrebbe uscire già nell’ultimo scorcio 2010), il mondo economico sarà differente (come avvenne dopo il Grande Panico del 1873 quando la recessione terminò dopo cinque anni e senza interventi di rilievo da parte della mano pubblica).
Cosa si diranno i Capi di Stato e di Governo dell’Ue durante la colazione a Justus Lipsius? E’ soprattutto cosa può portare l’Italia al tavolo del lunch? E’ probabile che prevalgano i temi di breve periodo- ossia i tempi ed i modi per uscire del tunnel. Le previsioni econometriche non sono incoraggianti; secondo indiscrezioni che corrono nei corridoi di Bruxelles, il pil dell’area dell’euro subirebbe una contrazione del 2,1 nel 2009 e dell’1,8% nel 2010; il tasso di disoccupazione passerebbe dall’8% circa al dicembre 2007 al 10% al dicembre 2010. Ci sarebbe una forte mortalità di piccole e medie imprese e in alcuni settori maturi (metalmeccanica, chimica, editoria), le grandi aziende dovrebbero fare ricorso, per salvarsi, a Pantalone.
In questo quadro generale, è critica la definizione della politica economica tanto a livello macro quanto dei principali comparti. Sul piano della politica monetaria, la Banca centrale europea (Bce) sosterrà che sta facendo tutti il possibile: i tassi d’interesse sono rasoterra, l’offerta di moneta è abbondante, i finanziamenti non arrivano a imprese e famiglie perché gli intermediari finanziari non si fidano gli uni degli altri. Sul piano della politica di bilancio, ormai il patto di crescita e di stabilità, con i suoi indicatori e vincoli, è, se non messo in soffitta, quanto meno sospeso sino a quando ci sarà luce chiara e trasparente alla fine del tunnel della crisi. Sul piano della politica dei prezzi e dei redditi (la “concertazione” nelle sue varie guise e fogge), nessuno (a parte qualche sindacalista nostalgico) ritiene che essa possa essere uno strumento di grande utilità. Sul piano della crescita, infine, dopo essere stata messa da parte la “strategia di Lisbona” n.1 (che nel marzo 2000 aveva promesso di fare diventare l’Ue l’area più dinamica del mondo entro il 2010 ormai alle porte), nessuno parla più del Lisbona n. 2 (più agile e più flessibile – nei modi e nei tempi- ma anch’esso ormai appartenente al passato).
Ci sono comunque nodi immediati da risolvere; e l’Italia può dare un contributo. In primo luogo, domenica 22 febbraio i quattro “grandi” hanno delineato una strategia diretta a giungere a nuove regole internazionali per i movimenti di capitale e la valutazione di titoli strutturati (potenzialmente “tossici”) ed un potenziamento delle risorse e dei compiti del Fondo monetario. Ciò è, tra l’altro in linea con un’analisi del Fondo medesimo sulla qualità della regolazione e della vigilanza su scala globale (IMF Working Paper n. 08/190). La Commissione Europea starebbe, invece, per varare una direttiva che prevede la nazionalizzazione della banche più in difficoltà e negli Usa, dopo il tracollo dei titoli azionari di Citigroup e di Bank of America il Tesoro starebbe pensando di entrare alla grande nel capitale dei due istituti. Su Libero Mercato del 24 febbraio ho indicato le condizioni, davvero estreme, che potrebbero comportare una nazionalizzazione temporanea (piena comunque di rischi) e spezzato una lancia a favore di un miglioramento della regolazione (e vigilanza) internazionale. Inoltre, i conti degli istituti vanno esaminati con cura prima di parlare di nazionalizzazione (totale o parziale). Lo sottolinea anche un lavoro di Max Hellwig del Max Planck Institute , ancora inedito ma che, tra un paio di settimane, sarà nella collana dell’istituto in tedesco ed in inglese (MPI Collective Googs Preprint, N. 2008/43). Per Citigroup e Bank of America si può indicare un menu vasto di soluzioni prima di ipotizzare l’ingresso di Pantalone nel loro capitale. Molto più complicata (e, territorialmente, molto più vicina a noi) la situazione delle banche di molti Stati neo-conunitari (entrati nell’Ue nel 2004 e nel 2007). E’ un panorama a macchia di leopardo – lo tratteggia efficacemente uno studio ancora in corso del Center for European Policy Studies . Sono stati già varati piani di salvataggio per le banche ungheresi e lituane; altre sono in fila. L’Italia (che ha numerose interazioni finanziarie con l’Europa centrale ed orientale) deve fare sentire la propria voce e cominciare a mettere in dubbio l’efficacia di una strategia europea che ha caricato (forse eccessivamente) di questi compiti la Banca Europea per gli Investimenti (Bei) e la Banca Europea per la Ricostruzione e lo Sviluppo (Bers). In questo campo, una regolazione Ue (od una semplificazione del groviglio di regolazioni nazionali) potrebbe essere utile; e l’Italia avrebbe, senza dubbio, qualcosa da dire.
Altro campo in cui l’Italia ha qualcosa da dire e da offrire sono le misure che stiamo prendendo per utilizzare la Pa non come una mano morta ma come uno strumento di crescita. A riguardo, varrebbe la pena aggiornare il P.I.C.O. (Programma per l’Innovazione, la Comepitività, lo Sviluppo e l’Occupazione) predisposto, sotto la guida tecnica di Paolo Savona, alla fine del 2005 (ricevette, in Italia, meno attenzione di quanto meritasse a ragione dell’avvicinarsi delle elezioni, ma nell’Ue venne considerato il miglior documento nazionale su questi temi) ; il Business Plan preparato dal Ministro Brunetta rappresenta un’ottima base da cui prendere avvio.
Infine, il nucleare: dopo l’intesa con la Francia, possiamo vantarci di esserci messi sul percorso di una riduzione dei costi di produzione compatibile con la sicurezza e con l’ambiente.
Un ultimo punto: alla colazione aleggerà lo spettro di “una nuova Bretton Woods”. Qualche barracuda-esperto fornisca a Berlusconi ed a Tremonti il Nber Working Paper No w14731 in cui Micheal P. Doodley (University of Virginia), David Folkerts-Landau (Deutsche Bank) e Peter M. Garber (Brown University) spiegano perché, tutto sommato, la lex mercatoria di Bretton Woods è ancora alla base del sistema monetario internazionale.

MORTO STRAUSS, NOI LO ABBIAMO SEPOLTO, Il Domenicale 28 febbraio

In Italia passano quasi inosservati i 60 dalla morte di Richard Strauss, la cui vita (1864-1949) coincise con il trionfo dell’industrializzazione e dei movimenti d’unità nazionale in Germania ed in Italia e con il declino della democrazia in Europa, oltre che con due guerre mondiali. Dopo che il Teatro Lirico di Cagliari ha sostituito il “Der Rosenkavalier” (programmato per fine 2009) con una meno dispendiosa “Bohème”, unicamente il Teatro Carlo Felice di Genova mette in scena un’opera – “Ariadne au Naxos”. L’Accademia di Santa Cecilia ha appena eseguito la “Sinfonia delle Alpi”, al Lingotto l’Orchestra Nazionale Rai ha in programmi vari concerti, tra cui un’esecuzione del grandioso “Morte e Trasfigurazione”. Non mancano altre iniziative per ricordare chi aveva “Hofbusenschangle”- “sempre in seno imperiale” poiché l’Imperatore tedesco, pur amandone la musica, lo considerava “una serpe in seno” per il carattere “indecente” di alcune sue opere. Lo erano? Forse sì, se lette con gli occhiali bigotti della Corte Guglielmina. Strauss, uomo di rara avvenenza e d’enorme successo, corteggiatissimo dalle belle donne di tutto il Vecchio Continente, era credente e fedele: il matrimonio è centrale in tutte le sue opere (“Die Frau ohne Schatten” è un’apoteosi dell’amore coniugale coronato dalla procreazione di figli) e scrisse e compose una deliziosa commedia in musica autobiografica (“Intermezzo”) sulla gelosia della moglie di un direttore d’orchestra super-corteggiato ma leale alla sposa.
A Strauss ed al declino dell’Europa vecchia visto attraverso il “Der Rosenkavalier”, “Il Dom” ha dedicato un intervento l’8 novembre 2008 (Matteo, verifica; forse era il 15 nov).Prendendo spunto da “Ariadne” in scena a Genova sino al 28 febbraio e da due opere raramente rappresentate in Italia (“Die Ägyptische Helena” ed “Arabella”) colte a Berlino ed a Francoforte (nell’ambito dei due dei tanti festival organizzati in Germania per la ricorrenza) vediamo come Strauss lesse l’approssimarsi della fine della democrazia. La prima (di cui esistono due versioni rispettivamente del 1912 e del 1916) corrisponde al suicidio dell’Europa (la prima guerra mondiale); le altre due (rispettivamente del 1928 e del 1933) al tramonto della borghesia in Germania.
Coproduzione tra Teatro Carlo Felice di Genova, Teatro dell’Opera di Atene e Opera di Oviedo, l’”Arianna” genovese propone un cast di specialisti, tra i quali spiccano l’attore Franz Tscherne nel ruolo recitato del Maggiordomo, Vesselin Stoykov in quello del Maestro di Musica, Elena Belfiore in quello del Compositore, Warren Mok in quello di Bacco, Oksana Dyka in quello di Arianna, Elena Mosuc in quello di Zerbinetta. Sul podio, Juanjo Mena, rende la preziosità di una scrittura in cui l’orchestra è un raffinato giocattolo cameristico di 36 strumenti. Il regista Philippe Arlaud punta sul teatro totale, giocando su forme architettoniche curvilinee e sull’utilizzo di suggestive visualizzazioni. Nella versione del 1916 dell’opera, la satira alla borghesia, centrale all’edizione del 1912, passa in secondo piano. Il vero elemento fondante è la vittoria di Eros su Tanatos, capovolgendo l’assunto classico e romantico della vittoria del secondo sul primo. In “Ariadne” Eros, nel “Prologo” configge la “Dea Musica”, e nel resto dell’opera trascina la virtuosa Arianna tra le braccia di Bacco.
Nelle “settimane straussiane” della Duetches Oper Berlin si alternano sette titoli tra cui due nuovi allestimenti. “Die Ägyptische Helena” è una nuova produzione firmata da un regista italiano relativamente giovane (Marco Arturo Marelli) tra i più noti in Europa e negli Usa. Dopo la guerra di Troia, Menelao vuole passare a vie di fatto con Elena (che lo ha tradito con Paride - e non solo). La trova in Egitto, dove viene persuaso che a Troia era giunto un simulacro (oggi si direbbe un clone) della bella, la quale invece lo attendeva da dieci anni castamente. Dopo una travolgente notte d’amore, Elena riprende le vecchie abitudini; mentre Menelao sonnecchia, lo tradisce con un beduino. Nuova ira dello sposo, che viene convinto di avere fatto (lui) un sogno erotico; si riappacifica con la moglie alla vista della loro dodicenne figliola (concepita prima della guerra di Troia). Naturalmente, c’è più di un pizzico di Freud e molta ironia sul perbenismo borghese alla vigilia della Grande Depressione. Il dialogo è scintillante, la partitura lussureggiante. Marco Arturo Marelli trasporta la vicenda alla fine degli Anni Venti in una “maison de plaisir” al Cairo. Andrew Litton dà una lettura briosa della partitura. Robert Chalin (Menelao) è un tenorone eroico che prende in giro dei tenori wagneriani, tanto robusto (nel canto e nell’aspetto) quando credulone. La giovane Ricarda Merberth è una Elena sensuale e dal vasto registro vocale. Eccezionale Laura Aikin (di casa alla Scala ed al Maggio Fiorentino) per come è transitata da soprano di coloratura a soprano lirico puro con un fraseggio chiarissimo in un ruolo terrificante per durata e equilibrismi vocali. Ancora una volta, il significato: nel declino di una classe dirigente, pare restare solo la famiglia (od il suo simulacro).
“Arabella” è una commedia lirica con “il bazar sublime d’ogni possibile ed impossibile impegno vocale” (lo scrisse Fedele D’Amico) di uno Strauss quasi settantenne. Una famiglia sull'orlo della bancarotta che, nella Vienna sconfitta degli anni immediatamente successivi alla guerra austro-prussiana, gioca le ultime carte puntando su di un buon matrimonio della figlia Arabella. Per questa ragione la sorella piu' giovane, in attesa che un ricco cavaliere si presenti, e' costretta a vivere travestita da ragazzo. Nasce in questo modo un equivoco sul quale si fonda l’intreccio che si conclude con un lieto fine e con una musica del tutto innovativa: un organico ristretto, addio per sempre ai wagnerismi , nessuna concessione alla dodecafonia, una scrittura (scrive Mario Bortolotto) fatta di “schegge e tessere sonore” che “scorrono , riapparendo in momenti del tutto imprevedibili” in cui anche i ritmi di danza hanno una funzione importante.
L’allestimento di Francoforte (coprodotto con il Teatro Reale di Götegorg in Svezia) trasferisce la vicenda ai giorni d’oggi: la crisi è quella finanziaria, il mondo che sta sparendo è quello della finanza à go-go. Una scena unica con pareti mobili. Il bianco e nero è di rigore; si staglia sul resto il magnifico abito da sera azzurro della protagonista. Una regia efficace di Christof Loy. Una direzione musicale cesellata di Sebastiane Weigle. Un cast giovane con voci stupende; Anne Schwanewilms è un Arabella di grande avvenenza fisica e vasta estensione vocale, Robert Hayward (Mandryka) un vero baritono di agilità, Alfred Reiter e Helena Döse i genitori decaduti della protagonista e di sua sorella.

venerdì 27 febbraio 2009

“LUCIA” (QUASI) INTEGRALE E CONTROVERSA. Milano Finanza 27 febbraio

“Lucia di Lammermoor” di Gaetano Donizzetti è una delle opere più amate dal pubblico. L’edizione approdate al Regio di Parma da più di un lustroi. L’edizione, la cui “prima” è stata giovedì 19 settembre e le cui repliche si estendono sino al primo marzo (prima di riprendere a viaggiare), viene dal Teatro Lirico di Cagliari. “Lucia” rappresenta un anello di transizione essenziale dal melodramma di inizio Ottocento a quello verdiano. Da un lato, l’orchestra evoca l’atmosfera delle brume scozzesi in un notturno quasi infinito . Da un altro, le parti vocali richiedono grande maestria: vennero scritte per Gilbert-Louis Duprez, il tenore che ha inventato il “do di petto”, Fanny Persiano, un soprano, al tempo stesso, dalla vocalità leggera e dalla coloratura raffinatissima, e Domenico Coselli, baritono agilissimo. Nelle edizioni in circolazione (anche in quella recente di Roma) vengono operati tagli copiosi principalmente nei ruoli maschili e la vocalità della protagonista, inoltre, viene portata a soprano drammatico. I tagli hanno l’effetto di imperniare tutta l’opera su Lucia, dimenticando che si svolgono due azioni parallela: una tra i quattro uomini (Edgardo, Enrico, Arturo e Raimondo) e l’altra tra l’aspro mondo maschile (dove le fanciulle, pure le sorelle, sono oggetto di compravendita) e quello della fragile Lucia, tanto debole da diventare assassina e pazza non appena l’uomo a cui è stata venduta (Arturo) si abbassa i pantaloni per avere ciò che ha pagato. La “Lucia” di questa edizione (regia, scene e costumi di Denis Krief) è quasi integrale e si svolge in una Scozia atemporale e marina (i costumi sono di metà Novecento- forse il periodo della guerra di Spagna data la foggia delle uniformi).
Parte del loggione del Regio di Parma non ha apprezzato questo stacco da una tradizione che vuole “Lucia” non solamente opera “femminile” ma anche chiaramente incastrata in un Seicento di maniera. A mio avviso, la lettura di Krief legge correttamente il dramma a due livelli dell’opera e propone una messa in scena che può avvicinarlo al pubblico più giovane. Qualche protesta ha avuto anche la direzione serrata, quasi novecentesca, di Stefano Ranzani, maestro concertato più adatto al tardo ottocento ed al novecento che al melodramma donizettiano. La protagonista è una delle migliori belcantiste su piazza, Desirée Mancatore; si è meritata tutti gli applausi ricevuti. Ottimo Stefano Secco corso a sostituire un collega ammalato e a dare voce e corpo alla difficile parte di Edgardo. Di buon livello, Gabriele Viviani (Enrico), Carlo Cigni (Raimondo) e Francesco Marsiglia (Arturo).

LA CRISI FINANZIARIA MINACCIA L’UE PIU’ DI QUANTO POSSA PENSARE L'Occidentale 27 settembre

Quando, domenica primo marzo 2009, i Capi di Stato e di Governo dell’Unione Europea (Ue) si incontreranno a colazione nel piuttosto anonimo palazzone Justus Lipsius (un filologo ed umanista fiammingo del XVI secolo) per una seduta straordinaria del Consiglio Europeo, il loro obiettivo sarà quello di tentare di forgiare una posizione comune prima di presentarsi al resto del mondo alla riunione del G20 in programma il 2 aprile a Londra. I “quattro grandi” dell’Ue (Francia, Germania, Gran Bretagna, Italia) hanno svolto il loro compitino preparatorio con una colazione di lavoro la domenica precedente a Londra: ne è uscito un invito forte a chiaro a favore di una nuova regolazione internazionale- di cui sarebbe elemento servente una riforma del Fondo monetario, Banca mondiale, Financial Stability Forum ed un’altra mezza dozzina di organizzazioni internazionali. La posizione dei “quattro” è, senza alcun dubbio, utile poiché traccia una prospettiva ed indica una direttiva per i 27 – prospettiva e direttiva molto più chiare e molto più lineari da quelle che si deducono dal “Messaggio sullo Stato dell’Unione” presentato all’inizio della settimana dal Presidente degli Stati Uniti, Barack Obama, al Congresso. Data la sua posizione nella comunità internazione, l’Ue ha senza dubbio un dovere, prima ancora che un titolo, a presentare i lineamenti di un percorso per uscire dalla crisi. Specialmente se, in materia, gli Usa obamiani sono contradditori, e guardano più ai loro problemi interni che al resto del mondo.
La colazione di lavoro – ci auguriamo, per i 27 Capi di Stato e di Governo, che i cuochi vengano dal raffinatissimo “La Maison du Cigne”, da lustri il miglior ristorante di Bruxelles (e dell’Europa)- dovrebbe servire ai Capi di Stato e di Governo per riflettere su un tema poco dibattuto: la crisi finanziaria sta minacciando l’Ue in quanto Unione oltre che i singoli Stati, alcuni settori (quello dei servizi finanziari in primo luogo, ma anche il manifatturiero), l’economia reale in senso lato e l’occupazione.
La crisi è una mina per le istituzioni dell’Unione. Proprio mentre i “grandi” a Berlino delineavano una strategia di regolazione “mondialistica” (e si mostravano contrari a nazionalizzazioni bancarie, ed a “bad banks” sia nazionali sia multilaterali) dai cassetti della Commissione Europea bozze di direttive che invece prevedevano proprio nazionalizzazioni bancarie e “bad banks”. La Gran Bretagna, a Berlino, si è mostrata uniti agli altri “grandi”; a Londra, a Washington ed a Bruxelles, invece, sfoggia (ed a volte ostenta) posizioni “atlantiche” in tema di nazionalizzazioni e “bad banks”. Quindi, in seno al Consiglio Europeo neanche i quattro “grandi” sono uniti; e c’è chi fa due parti in commedia. Inoltre, all’Ecofin nessuno ha ripreso in mano il dossier dal “rapporto Lanfalussy” del dicembre 2007, che contiene suggerimenti operativi concreti per rimettere ordine nel groviglio di regolazione e vigilanza in materia di servizi finanziari tra i 27 Stati Ue; un percorso verso un riordino (se non è fattibile effettuare almeno i primi passi del riordino) è indispensabile per mostrare che l’Ue è in grado di parlare con una sola voce (o almeno all’unisono) al G20 oppure in altre sedi dove si tenta di tamponare e, se possibile, curare la crisi. Ove ciò non bastasse, l’architettura tratteggiata dai quattro “grandi” e la riforma di Fondo monetario, Banca mondiale e via discorrendo non sfiora il nodo che da dieci anni blocca analoghi piani di riassetto: in tali sedi, l’Ue avrà un seggio a titolo di Unione? Oppure Francia, Germania e Gran Bretagna conserveranno, in perpetuità, i loro seggi permanenti (da cui spesso emergono posizioni differenti) e l’Unione sarà una sorta di “fantasma dell’opera”? E l’Italia dovrà accontentarsi di uno strapuntino a mezzadria con Polonia, Grecia, Cipro, Malta e via discorrendo? In aggiunta, ci sono una varietà di problemi immediati che riguardano i Paesi neocomunitari , alcuni indebitatisi sino al collo con titoli spazzatura nell’euforia di correre dal piano al mercato. Alcuni (Ungheria) pensano di risolverli con un ingresso accelerato nell’unione monetaria: l’euro farebbe da corazza socializzando il debito con gli altri membri del club (ma questi ultimi sono d’accordo?). Altri (Lettonia) progettano di dichiarare fallimento (come l’Islanda)- una mossa che, bene o male, inficerebbe la credibilità dell’Unione tutta. Dato che la crisi (sia finanziaria sia economica) morde soprattutto in Europa centrale ed orientale – l’allargamento frettoloso tanto voluto da Romano Prodi - , per tamponarne questo o quello aspetto si sono caricate la Banca europea per gli investimenti (Bei) e la Banca europea per la ricostruzione e lo sviluppo (Bers) con una marea di compiti nuovi (che non paiono fare parte di un programma organico e senza che Bei e Bers abbiano le risorse, soprattutto, in personale per svolgerli); Bei e Bers rischiano di finanziare operazioni avventati con danni collaterali al loro prestigio che minacciano di durare a lungo.
Un invito ai convitati: tra un “homard” ed una “crème patissère” riflettete su questi temi.

FONDAZIONI LIRICHE : I FANTASMI DELL’OPERA, Il Velino 27 febbraio

Nel mondo della lirica italiana sembra si aggirino fantasmi: quattro dei maggiori teatri (Scala, Opera di Roma, Accademia di Santa Cecilia, Teatri del Maggio Musicale Fiorentino) hanno lasciato l’Anfols (l’associazione delle 14 fondazioni lirico sinfoniche), di cui è stato appena nominato Presidente Salvatore Tutino (musicista di rango, noto in Italia ed all’estero ma non con una grande fama di manager – dato che al Teatro Comunale di Bologna, di cui è Sovrintendente, gran parte del personale si è espresso,di recente, contro di lui. Tre delle 14 fondazioni (San Carlo di Napoli, Arena di Verona, Carlo Felice di Genova) sono commissariate; sembra stia scivolando verso il commissariamento anche il Comunale di Bologna. Da alcuni giorni si parla di commissariamento pure per il Teatro dell’Opera di Roma.
La vicenda del teatro della capitale è difficilmente comprensibile. Dopo anni di disavanzi ed aumento del debito, negli ultimi dieci anni, con la guida dell’attuale Sovrintendente, si è tornati non solo a pareggio ma anche ad attivi di bilancio, di cui hanno scritto pure quotidiani economico-finanziari come “Il Sole-24 Ore”, “Italia Oggi” e “Milano Finanza” (oltre che alcuni dei principali giornali stranieri). Il 2009 presenta un preventivo in disavanzo (non è chiaro se si tratti di 5 o di 10 milioni di euro) a ragione – come per le altre fondazioni liriche- delle riduzioni apportate al Fondo unico per lo spettacolo (Fus). Ad esempio, per tentare di fare fronte alla situazione, a Bologna sono stati appena eliminati due allestimenti ed il Maggio fiorentino realizzerà un programma quasi dimezzato rispetto a quanto annunciato. Per Roma, il 2009 sarebbe dovuta essere la stagione della svolta con un cartellone da fare invidia ai maggiori teatri europei. Difficile pensare che, cambiando cavallo e carrozza all’inizio dell’anno, la situazione possa migliorare; è verosimili che chiunque sia alla guida del teatro dovrà, come peraltro già effettuato da altre fondazioni liriche, aggiustamenti al programma annunciato, salvaguardando gli spettacoli di maggiore importanza e quelli in abbonamento. Indubbiamente, se ci dovrà essere un cambiamento, l’esperienza di chi ha gestito l’istituzione negli ultimi dieci anni (risanandola), sarà di grande aiuto ad un eventuale successore.
Non è questa la sede per approfondire le ragioni dei fantasmi che si aggirano sui teatri italiani d’opera, mentre non si agitano (almeno con la stessa virulenza) su quelli di altri Paesi. Le determinanti sono state studiate in sede scientifica. E’ triste che “la musa bizzarra ed altera” (così è stata chiamata l’opera lirica da uno studioso tedesco), nata in Italia come prodotto che ha portato la lingua italiana in tutto il mondo, stia languendo (e rischiando di morire) proprio nel nostro Paese.
Ci sono rimedi. Il Fus finanzia circa 400 soggetti. Soltanto nel settore musicale, oltre alle 14 fondazioni lirico-sinfoniche ed ai 28 “teatri di tradizione”, supporta 160 associazioni filarmoniche. In Francia i soggetti coinvolti sono meno della metà. In Germania, il sostegno è responsabilità dei Länder e dei Comuni che fanno a gara a chi ha i programmi migliori. In Austria un fondo analogo dedicato, però, solo ai 4 teatri d’opera di Vienna ed al Festival di Salisburgo ha una dotazione pari a quattro volte quella del Fus. Inoltre, il Fus potrebbe essere integrato dai residui passivi che, da lustri, si registrano in altre aree della gestione dei beni culturali ed ambientali, riallocando le risorse da chi rischia l’interruzione delle attività a chi ha invece poca capacità di spesa. Occorre, poi, premiare l’efficienza, non ripartire a pioggia o ancore peggio incoraggiare chi spende in modo poco accorto. Anche con le regole in vigore ci sono fondazioni che producono molto e bene e che sono sostanzialmente sane sotto il profilo finanziario, mentre altre fanno acqua. A Milano e Torino ci sono importanti soci privati. A Roma, il Comune sostiene molto il Teatro e i privati sono entrati a ragione dell’ampiezza e della qualità della produzione. Il Massimo di Palermo, nel 2002 aveva un disavanzo di 13 milioni d’euro ed uno stock di debito di 26 milioni d’euro; il debito è stato ripianato tramite un mutuo (da rimborsare su un periodo di 20 anni). Una politica artistica basata su co-produzioni con i maggiori teatri italiani ed esteri, e presentazione di “prime” assolute per l’Italia, nonché ferree economia di gestione e l’aumento di rappresentazioni e di presenze, ha riportato in utile netto i consuntivi degli ultimi tre esercizi.
La “premialità” per chi gestisce bene deve essere accompagnata da un cartellone nazionale con forti risparmi negli allestimenti e nei cachet degli artisti, evitando che ciascun teatro miri a mini-festival. Gli allestimenti (scene e costumi) incidono sul 5% della spesa ma gli artisti (cantanti direttori d’orchestra) accetterebbero “cachet” più bassi se (come avviene in gran parte del mondo) venissero scritturati non per 5 repliche di “Tosca” ma per 30 in vari teatri di una Penisola il cui pubblico (tranne pochi appassionati) non viaggia da un teatro ad un altro.
Per l’Italia, dove 400 anni fa è nato il teatro in musica, perdere la lirica vorrebbe dire rinunciare ad una parte importante del patrimonio nazionale. Guardando a più lungo raggio, le soluzioni possibili sono le seguenti:
Una revisione drastica della normativa sulle fondazione che comporti un ripensamento del loro status giuridico ed una riduzione del loro numero (eliminandone un paio o per eccessiva contiguità territoriale con altre o perché hanno masse artistiche- orchestra, coro- qualitativamente al di sotto della media di buoni teatri europei).
Imporre per legge una gestione delle fondazioni restanti basata sul binomio cooperazione-competitizione. Cooperazione vuole dire dare vita ad un cartellone nazionale con forti risparmi negli allestimenti e nei cachet degli artisti ed evitare che ciascuna fondazione miri a stagioni simili a mini-festival autoreferenziali. Competizione vuole dire premiare le fondazioni che, in base ai risultati di biglietteria e le valutazioni tecniche di una commissione internazionale, sappiano coniugare consuntivi in pareggio ed alta qualità.
Trasferire, nell’ambito del federalismo, alle Regioni “i teatri di tradizione”, i l”lirici sperimentali”, le “scuola d’opera” e simili. Gli eletti regionali decideranno se dare priorità al patrimonio lirico nazionale od alle fiere del carciofo gigante. Ed i loro elettori li giudicheranno.

martedì 24 febbraio 2009

“Arabella” ossia l’incanto dell’amore, Il Velino 24 febbraio

Roma, 24 feb (Velino) - Nel febbraio 1992, recensendo l’ultima messa in scena in Italia di “Arabella”, alla Scala nell’ambito di una tournée dell’Opera di Monaco, l’allora critico musicale del Corriere della Sera Duilio Courir parlò di “incanto dell’amore”. Un giudizio azzeccato, mentre ancora oggi c’è chi, a proposito di questa magnifica commedia lirica con “il bazar sublime di ogni possibile e impossibile impegno vocale” (come scrisse Fedele D’Amico), parla di “Sklerosenkavalier” se non di “Prostatenkavalier”. Non mancano alcune assonanze tra il “Rosenkavalier” del 1911 e “Arabella” che è del 1933. Richard Strauss era quasi settantenne quando, dopo un lungo periodo di gestazione e la morte del poeta-librettista-coautore Hugo von Hofmannsthal, la “commedia lirica in tre atti” andò in scena. Ciò non toglie che “Arabella” sia forse la commedia in musica più deliziosa del Novecento, indubbiamente quella che meglio tratteggia l’innamoramento di un quarantenne per una ventenne in un contesto storico di crisi politica ed economica (l’Austria battuta dalla Prussia nel 1866).

Per questo motivo e anche perché così raramente rappresentata in Italia, merita una citazione particolare nel vasto menu delle opere straussiane in programma all’Opera di Francoforte in occasione dei 60 anni dalla morte del compositore. La vicenda è a metà strada tra nostalgia e commedia dei sentimenti. La storia è quella di una famiglia sull'orlo della bancarotta che nella Vienna degli anni immediatamente successivi alla guerra austro-prussiana, periodo quindi di incertezza politica e di dissesti finanziari, gioca le ultime carte puntando su un buon matrimonio della figlia Arabella per salvare una situazione assai compromessa. Per questa ragione la sorella più giovane, in attesa che un ricco cavaliere si presenti per Arabella, è costretta a vivere travestita da ragazzo. Nasce in questo modo l'equivoco sul quale si fonda lo svolgimento degli accadimenti scenici.

Uno svolgimento da teatro leggero, trattato con grande eleganza dalla penna di Hofmannsthal, si conclude con il lieto fine. Il cavaliere è un maturo gentleman from overseas, ricco possidente terriero e industriale di quella Croazia allora considerata dai viennesi ai confini del malmesso impero. Arabella ha corteggiatori tra aristocratici più o meno spiantati (un tenore, un baritono e un basso) della capitale, ma con il croato Mandryka è amore a prima vista. Una passione turbata da una serie di equivoci sorti a causa del “giovanotto”, cioè la sorella di Arabella travestita, in casa e nella stanza da letto, nonché da una serata un po’ folle del quarantenne al night club. Ma si risolve tutto in maniera dolce. E con una musica del tutto nuova e innovativa per un settantenne come Strauss, senza dubbio in pieno vigore: un organico ristretto, privo definitivamente dei “wagnerismi” (a cominciare dai leitmotive), senza concessioni alla dodecafonia che allora cominciava a fare strada, con una scrittura, scrive acutamente Mario Bortolotto nel suo recente saggio su Strauss, fatta di “schegge e tessere sonore” che “scorrono, riapparendo in momenti del tutto imprevedibili”, in cui anche i ritmi di danza (valzer lento, polacca, valzer brillantissimo) hanno una funzione importante.

L’allestimento di Francoforte (coprodotto con il Teatro Reale di Göteborg in Svezia e che speriamo sia portato in Italia da qualche sovrintendente intelligente) trasferisce la vicenda ai giorni d’oggi: la crisi è quella economica, il mondo che sta sparendo è quello della finanza allegra. Una scena unica con pareti mobili che aprono e chiudono i vari ambienti. Il bianco e nero è di rigore. Si stacca e staglia sul resto il magnifico abito da sera azzurro della protagonista. Una regia efficace di Christof Loy. Una direzione musicale cesellata di Sebastian Weigle. Un cast giovane con voci stupende: Anne Schwanewilms è un Arabella di grande avvenenza fisica e vasta estensione vocale, Robert Hayward (Mandryka) un vero baritono di agilità, Alfred Reiter e Helena Döse i genitori decaduti della protagonista e di sua sorella.

Molto bravi tutti gli altri componenti, in gran misura della compagnia stabile dell’Opera di Francoforte. Teatro stracolmo a prezzi accessibili; molti giovani in sala; si replica sino a marzo, poi, dall’anno prossimo, va in repertorio con quattro-dieci repliche ogni anno sino a quando lo spettacolo piacerà al pubblico. Nel mondo della lirica italiana si usa criticare il “teatro di repertorio” accusandolo di scarsa qualità, dal momento che maestri concertatori e artisti devono passare da un’opera all’altra di autori e stili differenti. Questa “Arabella” è un’ulteriore smentita che una stagione con pochi titoli, con la pretesa di essere un mini-festival, non possa condurre a un successo finanziario e artistico.

Sessant'anni fa moriva il compositore tedesco Strauss , FFwebmagazine del 24 febbraio

In Italia passano quasi inosservati i 60 dalla morte di Richard Strauss. Mentre l´anno scorso, in quasi tutti i nostri maggiori teatri sono state rappresentate opere del compositore (uno dei maggiori autori del teatro in musica del Novecento), nel 2009 unicamente il Teatro Carlo Felice di Genova mette in scena un suo lavoro per la scena - Ariadne auf Naxos. Ha debuttato il 17 febbraio e le repliche proseguono sino al 28febbraio. Non mancano concerti celebrativi delle maggiori formazioni sinfoniche; ad esempio, all´Accademia di Santa Cecilia ha appena eseguito la Sinfonia delle Alpi ed al Lingotto l´Orchestra Nazionale Rai farà ascolatre in aprile Morte e Trasfigurazione. Tutti i principali teatri tedeschi, invece, hanno veri e propri festival straussiani che si estendono per l´intera stagione.

Strauss amava specialmente le voci femminili. I protagonisti delle sue opere sono spesso donne - le più note sono Salomé, Elektra, la Marescialla del Rosenkavalier. Ariadne è incentrata sul confronto tra Arianna che, abbandonata da Teseo, vuole suicidarsi e la teatrante Zerbinetta che, invece, la convince a trovarsi un altro amante. Pure due opere, raramente rappresentate in Italia (Die Ägyptische Helena e Arabella) ma di cui si possono apprezzare nuovi allestimenti a Berlino e Francoforte, sono imperniate su donne. E su donne molto novecentesche, nonostante la prima si svolga ai tempi omerici e la seconda subito dopo la sconfitta (nel 1866) degli austriaci da parte dei prussiani. Elena tradisce ripetutamente Menelao (prima, durante e dopo la guerra di Troia) ma, aiutata dalle amiche, lo convince ad essergli rimasta castamente fedele. La giovane Arabella rimette in senso le scassate finanze della famiglia innamorandosi di un ricco quarantenne croato e facendogli perdere la testa alla follia. Un tratto comune dei tre allestimenti è che l´intreccio è attualizzato: le peripezie di Arianna e di Arabella sono portate ai giorni nostri (in Arabella si respira la crisi finanziaria mondiale) e le vicende di Elena in una maison de plaisir nella Cairo nel 1930 o giù di lì. Coproduzione tra Teatro Carlo Felice di Genova, Teatro dell´Opera di Atene e Opera di Oviedo, nel cast di Arianna spiccano Elena Belfiore in quello del Compositore, Warren Mok in quello di Bacco, Oksana Dyka in quello di Arianna, Elena Mosuc in quello di Zerbinetta. Sul podio, Juanjo Mena, rende bene la preziosità di una scrittura in cui l´orchestra è un raffinato giocattolo cameristico di 36 strumenti.

Nella Helena alla Duetches Oper di Berlino, il regista Marco Arturo Marelli punta su di un pizzico di Freud e molta ironia sul perbenismo borghese. Andrew Litton dà una lettura briosa della partitura. Robert Chalin (Menelao) è un tenorone eroico che prende in giro i tenori wagneriani, tanto robusto quando credulone. La giovane Ricarda Merberth è una Elena sensuale e dal vasto registro vocale. Eccezionale Laura Aikin (di casa alla Scala ed al Maggio Fiorentino). Nell´allestimento di Arabella a Francoforte (coprodotto con il Teatro Reale di Göteborg in Svezia), il bianco e nero è di rigore; si staglia sul resto il magnifico abito da sera azzurro della protagonista. Regia efficace quella di Christof Loy, cesellata la direzione musicale di
Sebastiane Weigle. Un cast giovane; Anne Schwanewilms è un Arabella di grande avvenenza fisica e vasta estensione vocale, Robert Hayward (Mandryka) un vero baritono di agilità, Alfred Reiter e Helena Döse i genitori decaduti della protagonista.

SPORTELLI DI STATO, SI MA A TRE CONDIZIONI, Libero del 24 febbraio

SPORTELLI DI STATO, SI MA A TRE CONDIZIONI


I “vertici” non finiscono mai; si susseguono al ritmo di uno la settimana, dando l’impressione che i “grandi” siano un rissoso condominio alle prese con i lavori di manutenzione straordinaria dell’immobile. La metafora ha un fondo di verità: i vari “Gqualcosa” sanno che l’economia e la finanza mondiale sono in gravi difficoltà e che – eloquenti le stime del 20 febbraio da parte dei 20 maggiori istituti econometrici privati internazionali (neanche uno è italiano) – ci resteranno a lungo. Ma l’eccesso di vertici e supervertici, ormai relegati nelle pagine interne dei quotidiani ed in coda ai notiziari televisivi, danno al pubblico “at large” l’impressione che si sia alle prese con un gruppo di malcapitati che non sanno dove andare a parare.
Tanto più che di tanto in tanto escono, dalle loro concitate riunioni, informazioni curiose: come quella della possibile nazionalizzazione “en masse” delle banche. Chiunque abbia seguito anche un corso per principianti di teoria economica dell’informazione e dell’informazione sa che in questo modo si terrorizzano individui, famiglie ed imprese. Martin Weitzman e William Nordhaus – ossia due che se ne intendono – hanno formulato, a riguardo, il “dismal theorem” (ossia il “teorema della tristezza”) – chi ne vuole una sintesi legga il Cowles Foundation Discussion Paper N. 1686, disponibile gratis on line - in base al quali si diventa eccessivamente prudenti di fronte ad eventi che hanno poche probabilità di realizzarsi ma che, se si verificano, hanno conseguenze vastissime (per i portafogli di molti).
Gli sherpa dei “grandi” – a cui Paolo Savona ha dedicato un bel manualetto (“Il governo dell’economia mondiale- Dalle politiche nazionali alla geopolitica: un manuale per il G8” Marsilio, Formiche 2009)- dovrebbero, ogni mattina, con le loro preci, rileggere i lavori di Weitzman e Nordhaus per contenere il proliferare di “news” che, anche se ispirate alle migliori intenzioni, creano danni. Dato che nel ricco e variopinto convoglio di accompagnatori dei “grandi” tra maggiordomi, cuochi e barracuda-esperti ci sono anche economisti, questi ultimi dovrebbero portare all’attenzione dei loro “superiori” un lavoro appena prodotto dal Fondo monetario (e di cui nessuno pare essersi accorto): il Working Paper N. 08/224 (lo danno gratis a chi lo richiede) “Sistemic Banking Crises: a New Database”. E’ uno studio che copre il periodo 1970-2007 e fornisce dati dettagliati relativi a 42 episodi di crisi bancarie di vaste proporzioni (e dei loro nessi con crisi valutarie e crisi del debito estero).E’ l’analisi più completa al giorno d’oggi; non tratta il 2008, ma per gli ultimi 12 mesi siamo alla cronaca non all’analisi statistica ed economica. Il vostro “choniqueur” ne ricava la netta impressione che le nazionalizzazioni delle banche (quando non chieste per ragioni puramente politiche – ad esempio dalla sinistra nel primo Governo Mitterand, all’inizio degli Anni 80)- hanno funzionato solamente quando si sono verificate queste tre condizioni: a) operazioni rigorosamente “a termine”; b) in Paesi ad alto tasso di risparmio; c) in Paesi con una pubblica amministrazione all’avanguardia, molto efficiente e ben formata in economia e finanza. Sono le condizioni delle “nazionalizzazioni temporanee” realizzate in Svezia e Giappone per smaltire “insolvenze” accumulatesi a cavallo tra la fine degli Anni 80 e l’inizio degli Anni 90. Tali condizioni non esistono in gran parte dei Paesi Ocse, men che meno in Italia, dove , per mutuare il titolo da un libro della Banca mondiale, di alcuni anni fa, non solamente – come sottolinea l’Abi- non solo non esistono i presupposti minimi (in termini di conti economici e di stato patrimoniale degli istituti) per la nazionalizzazione ma c’è il fantasma dei “beaurocrats in business” (di rimettere i burocrati, spesso digiuni delle cognizioni di base di economia e finanza) nelle stanze dei bottoni degli istituti (con esiti che potrebbero essere disastrosi, come lo furono sino ad un quarto di secolo fa). Anche in Francia la situazione è migliore di quanto non sembri scorrendo velocemente i nostri giornali: si legga “L’exception bancarie” sul blog dell’economista e banchiere socialista Jean Peyrelevade “La refondation du capitalisme”.
Ciò non vuol dire che in alcuni Paesi – quelli dove le banche hanno più spesso utilizzato “veicoli speciali” per fare finanza derivata eludendo la vigilanza – l’intervento pubblico a sostegno di questo o quello istituto – un totale di 400 miliardi di dollari – sia stato tale da richiedere la presenza dello Stato nella loro gestione sino al risanamento: i casi principali si sono verificati in Gran Bretagna, Stati Uniti, Germania e Belgio (Paesi le cui banche avevano un tempo la fama di sapere coniugare innovazione con prudenza). Ciò ha una conseguenza importante per gli sherpa: un’eventuale “bad bank” multinazionale (se ne parla, se ne parla……) dovrebbe avere un perimetro limitato e chiaramente delimitabile. Tanto più che dall’ultimo numero di “Economic Affaire” con tono tra l’icastico e l’iconoclastico, Terry Arthur afferma (in “Banking on Socialism”) che sono già “socialisti” tutti i Paesi (tra cui l’Italia) la cui banca centrale è nazionalizzata. Aggiunge olio sul fuoco, sullo stesso numero di “Economic Affaire”, Philip Booth: non esistono, in finanza, imperfezioni e fallimenti del mercato, ne esistono (e tanti) degli uomini- sono questi da contenere, facendo funzionare bene il mercato.

lunedì 23 febbraio 2009

NASCE LA TEORIA ECONOMICA DEL GIORNALISMO E SPUNTA L’IDEA DI TRASFORMARE I GIORNALI IN FONDAZIONI PER SALVARLI, Il Foglio 24 febbraio

NASCE LA TEORIA ECONOMICA DEL GIORNALISMO E SPUNTA L’IDEA DI TRASFORMARE I GIORNALI IN FONDAZIONI PER SALVARLI
Giuseppe Pennisi
I guai del giornalismo su carta stampata (in un’epoca di pubblicità calante e di acuita concorrenza da altri media) non sono minori negli Usa che in Europa ed in Italia. Negli ultimi cinque anni, il margine operativo lordo di The Washington Post ha segnato una flessione del 25% e quello del New York Times (che ha acceso un’ipoteca sulla propria sede) del 50%. Il Chicago Tribune, il Los Angeles Times ed altre sei testate un tempo importanti hanno dichiarato fallimento. Sono state effettuate riduzione drastiche d’organico e chiusi gran parte degli uffici di corrispondenza, soprattutto all’estero. In questo quadro, David Swensen, direttore della finanza alla Università di Yale, e Michael Schmidt, docente di finanza aziendale, hanno formulato una proposta non banale: dato che la carta stampata è essenziale alla democrazia (ne è il vero e proprio sale, secondo quanto scritto da Thomas Jefferson nel lontano 1787) trasformiamo la natura economica dell’editoria – da un settore industriale diretto all’utile d’impresa ad un comparto come le fondazioni non-profit (analogo alle università private , negli Usa ed altrove) il cui stock di capitale sia una dotazione, fornita da filantropi (agevolati da esenzioni tributarie) e le cui finalità siano quelle di fornire informazioni ed analisi (se si vuole pure di tendenza) ma svincolate dalle esigenze di breve periodo di rispondere a questa od a quella lobby, od a questo o a quel partito politico, per pubblicità, per acquisti d’abbonamenti all’ingrosso e per altre facilitazioni. Si tratterebbe di fondazioni svincolate solo in parte dal mercato: così come le università fanno pagare rette (direttamente proporzionali alla loro qualità e reputazione), i giornali andrebbero in edicola e farebbero a gara per il sempre più ridotto mercato pubblicitario. Potrebbero avere sovvenzioni pubbliche dirette a combattere “il morbo di Baumol” (vedi “Il Foglio” del 13 ottobre 2008). In giornali di proprietà di fondazioni non profit , i giornalisti guadagnerebbero in autonomia ed autorevolezza; come per le università, la pubblicità, i lettori e le sovvenzioni correrebbero verso chi è più autorevole. La proposta include un minimo di conti: per un’impresa come The York Times (che costa 200 milioni di dollari l’anno), la fondazione dovrebbe avere una dotazione di 5 miliardi di dollari, cifra elevata ma raggiungibile se raffrontata con le dotazioni delle grandi università.
La proposta potrebbe curare alcune disfunzioni contenutistiche. Ad esempio uno studio recente del Massachussetts Institute of Technology (Nber Working Paper N. w14598) analizza come negli ultimi dieci anni, 35 scandali politici Usa sono stati trattati dalla stampa: quella locale è violentemente di parte, mentre quella nazionale tende ad essere maggiormente oggettiva pur se i quotidiani di orientamento democratica danno maggior rilievo a scandali in cui sono coinvolti politici repubblicani e viceversa. Uno studio, ancora in versione provvisoria, dell’Università di Gottingen (CESifo Working Paper n. 2493) mostra che il fenomeno è generalizzato: l’analisi empirica quantizza come la stampa incide sulla spesa pubblica soprattutto a livello locale – e quindi sulle probabilità di ri-elezione.
E’ dalla Vecchia Europa che viene l’idea che potrebbe rendere vincente la proposta di Swensen e Schmidt. La lanciano, in uno degli ultimi numeri della rivista scientifica tedesca “Kyklos”, Susanne Fenger e Stephan Russ-Mohl (che non citano e non sembrano avere contezza del lavoro di Swensen e Schmidt). L’idea è di costruire una teoria economia del giornalismo, analoga alla teoria economica della democrazia, della politica, delle religioni, dell’arte e via discorrendo: mettendo gli strumenti più recenti della disciplina economica a servizio della professione, si possono curare una serie di malanni (quali l’influenza delle relazioni pubbliche sui media, la vera o presunta leggerezza- oppure l’eccesso- nel trattamento delle informazioni, il giornalismo “da rincorsa”, il giornalismo da “consigliere del principe”) che non hanno giovato al settore e sono anche causa di perdita di lettori e di pubblicità. Sussanne Fenger e Stephan Russ-Mohl tratteggiano quelle che potrebbero essere le basi di una teoria economica del giornalismo da cui scaturirebbero non tanto pandette di regole deontologiche quanto quelle prassi d’effettiva indipendenza, ed autorevolezza, che darebbero corpo alla proposta di Swensen e Schimdt sulle fondazioni.

E’ LA CLASSE MEDIA LA VERA VITTIMA DELLA CRISI MA NON SOLO IN OCCIDENTE , L'Occidentale 24 febbraio

Ogni crisi ha le sue vittime. Della crisi finanziaria ed economica in corso dalla metà del 2007 la prima vittima apparente, in ordine temporale, è stato il variegato mondo di banchieri (ai piani più alti) e di promotori finanziari (a quelli più bassi) colpiti dall’esplosione della “bolla” subprime. Quasi tutti, in un primo momento, hanno perso i premi di produzione. Molti, in un secondo, hanno perso anche il posto. In parallelo, crescevano, soprattutto negli Stati Uniti, altre vittime, per così dire, “immediate” della crisi: coloro che si erano illusi di comprare case (i cui valori sarebbero cresciuti senza cessa) grazie a facilitazioni finanziarie che si sono rivelate veri e propri bidoni; l’ascesa delle valorizzazioni dell’immobiliare si è, dapprima, fermata e, poi, trasformata in una rapida discesa, con molte case nuove di zecca che finivano all’asta pubblica. Successivamente, le vittime della crisi sono parse essere le banche, finite in un gioco più grande di loro: dopo avere creato una vasta gamma di strumenti (mirati a eludere regolazione e, soprattutto, vigilanza) si sono trovate come l’apprendista stregone di Paul Dukas (ancora più noto per la versione cinematografica datane da Wal Disney in uno degli episodi di “Fantasia”); a forza di tentare di essere più furbi del vicino, costrette a non fidarsi le une della altre ed a non avere alcuna certezza sulla consistenza dei loro portafogli, delle loro attività finanziarie ed anche dei loro stessi stock di capitale.
Adesso un dotto paper di Martin Ravallion della Banca Mondiale (World Bank Policy Research Working Paper N. 4816 , disponibile sul sito dell’istituto oppure richiedendolo a mravallion@worldbank.org ) pone l’accento sul fatto che la vera vittima di questa crisi è quella che possiamo definire la classe media dei Paesi in via di sviluppo. Il lavoro statistico di Ravallion definisce “classe media occidentale” dei Paesi emergenti coloro che non sarebbero classificati “poveri” se si seguissero gli standard degli Stati Uniti (in termini di reddito e quel che più conta livello e tipologia di consumi). Sempre secondo i calcoli di Ravallion (ampiamente utilizzati, ma con una certa disinvoltura, in un lungo servizio del settimanale britannico “The Economist”), nel 1990-2002, 80 milioni di uomini e donne dei Paesi in via di sviluppo sono entrati a fare parte della “classe media (di tipo) occidentale” ; un altro 1,2 miliardi di persone tuttavia (quattro quinti in Asia e metà in Cina) sono usciti dalla povertà estrema e diventati elementi della “classe media del Terzo Mondo” che vivono in standard in Europa e negli Usa considerati molto bassi ma che riescono, per la prima volta in millenni, a mettere insieme il pranzo con la cena. Sono un gruppo – dice Ravallion – molto “vulnerabile” dato una persona su 6 nei Paesi in via di sviluppo sopravvive con un reddito tra 2 e 3 dollari Usa al giorno. Al più piccolo fruscio, rischiano di tornare alla povertà estrema.
E’ questa nuova “classe media”, tra l’altro, che è stata il motore dell’export e degli investimenti dall’Europa e dagli Usa verso lande lontane, specialmente, in Oriente (sino a due decenni fa del tutto ignote alle piccole e medie imprese del Vecchio Continente e del Nord America). Secondo Daron Acemoglu del Massachussetts Institute of Technology, la retrocessione di coloro che hanno pensato di essere la nuova “classe media” mette a repentaglio il progresso verso regimi democratici, anche se tentennante, avvertitosi in questi ultimi anni in alcune regioni (dell’Asia ma non solo). Si sa molto poco ad esempio delle tensioni socio-politiche innescate in Cina dalla chiusura (negli ultimi sei mesi) di 20 milioni di posti di lavoro nell’industria manifatturiera e (secondo le notizie che appaiono sulla stampa internazionale) costretti a migrare verso campagne lasciate dai loro padri (ove non dai loro nonni) – dove non c’è occupazione produttiva per chi ha fatto il metallurgico od il chimico anche in quanto la rivoluzione tecnologica ha comportato un aumento delle rese agricole.
E’ un problema unicamente dei Paesi in via di sviluppo e della loro nuova “classe media”? Non ci sono – che io sappia – analisi analoghe a quelle di Ravallion per i Paesi Ocse; ne comparirà probabilmente una nel prossimo “Employment Outlook”, che verrà diramato in giugno. Tuttavia, l’aumento della disoccupazione colpisce principalmente la “classe media” dei Paesi ad alto reddito medio. Nella Penisola, stime della Banca d’Italia stimano in a 2,4 milioni i lavoratori particolarmente “a rischio” in quanto con confratti a termine (di vario tipo e natura) in una fase di domanda calante di beni e servizi e, quindi, di contrazione della produzione e dell’impiego. Acemoglu (lo abbiamo visto) vede nella retrocessione della “classe media” dei Paesi in via di sviluppo una minaccia nel cammino verso la democrazia. Una minaccia analoga nei Paesi Ocse – tanto più che, come sappiamo, la Grande Depressione degli Anni Trenta sfociò, in alcuni Paesi, in totalitarismi. Lascio la risposta ai politologi. Credo, però, che nel mondo occidentale ormai le tradizioni democratiche hanno radici profonde e non saranno messe in pericolo (soprattutto se sapremo ristrutturare i nostri sistemi di welfare). Più complesso formulare ipotesi per i Paesi dell’Europa centrale ed orientale (tra cui alcuni ora appartenenti all’Ue) in transizione dal piano al mercato ed il cui percorso da regimi comunisti alla democrazia non è ancora compiuto, oppure è stato terminato solo di recente.

sabato 21 febbraio 2009

VIAGGIO NELLA SPERANZA .PER LA MUSICA Il Domenicale 21 febbraio


Chi ricorda “Notte e Nebbia”, un documentario di 32 minuti con cui nel lontano 1955 l’allora giovane Alain Resnais aprì la “nouvelle vague” del cinema francese? Era per i nove decimi in bianco e nero, costruito su materiali d’archivio ed imperniato su tre date: 1933 (avvento del nazismo), 1942 (inizio del sistematico genocidio degli ebrei), 1945 (chiusura dell’ultimo lager). Per circa un decimo a colori girato in Polonia durante la preparazione del film. Statiche le immagini in bianco e nero. Inquadrature dinamiche quelle a colori. L'alternanza di bianco e nero e di colore, ed il differente uso della macchina da presa, contrapponeva passato e presente; mentre le immagini si facevano più drammatiche, la musica di commento diventava più dolce. Renais- aveva mutuato il titolo da una parola d’ordine Nacht und Nebel (appunto: notte e nebbia), che avrebbe dovuto significare come della Shoa non sarebbe dovuta restare traccia.

Il breve film di Renais mi è tornato più volte in mente nel corso della tournée dell’Orchestra Sinfonica-Fondazione Roma (Os.Fr) in Germania e Polonia. Non solamente perché la tournée ha comportato un concerto a Cracovia e una visita (da parte di tutta l’orchestra) ai campi di sconcertamento di Auschwitz e di Birkenau. Ma anche in senso metaforico: la musica colta italiana sta per essere avvolta da un manto di notte e nebbia che può essere rotto facendo leva su orchestre giovani e private, avvezze a lavorare non nel mercato dei sempre più esigui contributi pubblici ma in quello, molto più vasto, in cui l’apporto delle pubbliche amministrazioni è ingrediente di un disegno che fa leva sul mecenatismo, sulla biglietteria, sul confronto internazionale.

L’Os.Fr, da molti snobbata quando circa sette anni fa è nata a conclusione di un corso di formazione per giovani orchestrali, il 4 febbraio scorso, alla Philarmonie di Berlino (forse la più autorevole sala di concerti nel mondo, certamente la più prestigiosa in Europa) è stata invitata tra le prime formazioni di una serie di concerti per i 20anni dalla caduta del muro. Francesco La Vecchia ha diretto un concerto ispirato all’amicizia tra Germania ed Italia: nella prima parte, oltre alla notissima sinfonia de “I Vespri Siciliani” di Giuseppe Verdi, tre lavori di Giuseppe Martucci (colore orientale, notturno, tarantella), compositore su cui si è voluto calare una fitta coltre d’oblio; nella seconda parte il poema sinfonico di Richard Strauss (di cui ricorrono 60 anni dalla morte) “Aus Italien”(“All’ Italia). La sala, circa 1800 posti, era gremita. C’è stata una vera e propria “standing ovation”: tutti in piedi come in uno stadio (usanza niente affatto tedesca) a domandare bis. Quindi, l’Os-Fr ha eseguito pure l’”intermezzo” di “Cavalleria Rusticana” di Pietro Mascagni e la parte finale della sinfonia del “Guglielmo Tell” di Giacchino Rossini. I lavori di Martucci e di Strauss sono poemi sinfonici nello stile degli ultimi anni del XIX secolo; quelli di Verdi e Rossini sono inni alla libertà particolarmente adatti alla ricorrenza.

Quando è iniziata l’avventura dell’orchestra, pensare di fare nascere una formazione sinfonica privata con un gruppo di giovani appena usciti dai conservatori, era considerato poco credibile. Pure perché “i ragazzi” ed il loro animatore, Francesco La Vecchia non andavano con il cappello in mano dalle pubbliche amministrazioni ma speravano di farcela con il contributo di privati e con gli incassi. Il progetto era di portare altri giovani ad ascoltare la “musica colta” con una politica di bassi prezzi, coniugando il repertorio più popolare, del Settecento e dell’Ottocento con la sinfonica del Novecento, e con qualche spruzzo di contemporaneità.

La Fondazione Roma è il mecenate che ha creduto nel progetto: stanzia quasi 5 milioni d’euro l’anno( a titolo di raffronto il bilancio dell’Accademia di Santa Cecilia supera i 25 milioni d’euro l’anno, di cui due terzi da enti pubblici). Ora l’Os.Fr ha una stagione da novembre a giugno all’auditorium di Via della Conciliazione (1200 posti) a Roma: vi suona le domeniche pomeriggio alle 17,30 ed i lunedì sera alle 20,30. La sala strabocca di giovani (ed anche d’anziani) a ragione della politica di prezzi: per 30 concerti, l’abbonamento è € 280 (poco più di un posto in platea o palco per una sola serata alla Scala), ma per gli studenti è € 90 e per chi ha più di 65 anni € 160. Per i singoli concerti, il biglietto è € 18, quello ridotto € 10. La vera carica innovativa è nei programmi che combinano Nono con Schubert, Stravinskij con Bruckner, Casella con Brahms, Ciacovskil con Malipiero, Liszt con Shostakovich, Mahler con Dukas eseguiti da una formazione stabile di 90 strumentisti di cui due terzi circa hanno meno di 30 anni d’età. Una ventata d’aria nuova che mancava nella capitale da quando è stata chiusa la sezione romana dell’orchestra sinfonica della Rai. Una ventata che ha innescato competizione in un comparto spesso refrattario tanto alla concorrenza quanto alla cooperazione tra istituzioni. I costi di produzione sono tenuti bassi da un organico amministrativo all’osso. L’autorevolezza si è imposta a ragione della consacrazione internazionale. Da un canto direttori stranieri di livello (come Gunter Neuhold, Lior Shamdal, Amos Talmon) hanno spesso guidato l’Os-Fr. Da un altro, orchestre straniere importanti come i Berliner Sinfoniker sono state ospiti dell’Os-Fr. Da un altro ancora, l’orchestra è stata invitata ripetutamente ad esibirsi all’estero.

Il successo di Berlino si è ripetuto a Cracovia la sera del 6 febbraio. Il concerto è stato aperto dal “Carnevale Romano” di Hector Berlioz con il quale il compositore francese (che aveva studiato a Roma) intese salvare, nel 1844, almeno parte dell’opera “Benvenuto Cellini” che non trovava teatri disposti a rappresentarla. Dopo i tre brevi ma affascinanti poemi sinfonici di Martucci e la sinfonia de “I Vespri Siciliani” di Verdi, è stato suonato il grandioso, e difficilissimo, poema sinfonico “I Pini di Roma” d’Ottorino Respighi. Il lavoro di Respighi, relativamente poco noto a Cracovia, è quello che forse più ha colpito il pubblico polacco. E’ una partitura molto complessa, che richiede un organico molto vasto (e strumentisti in grado d’essere ciascuno un solista). Respighi prende l’avvio dai giochi di bambini a Villa Borghese, per poi evocare i pini che coprono con la loro ombra le catacombe e quelli al vento del Gianicolo e per finire con una marcia solenne di consoli, aristocratici e soldati della Roma antica filtrata attraverso i sentimenti di chi, nel 1924, passeggia sulla Via Appia. L’esecuzione ha scosso un pubblico avveduto: a Cracovia c’è un’intesa vita musicale: un teatro d’opera di repertorio (la cui architettura ricorda il Palais Garnier di Parigi) ed una sala di concerti in stile neoclassico (costruita all’inizio del XX secolo e restaurata ne 1980) a pochi passi dal Palazzo Arcivescovile dove ha vissuto per decenni Karol Wojtila.

Terza e ultima tappa Ludwigshaven, un centro industriale ai confini tra la Renania-Palatinato ed il Baden-Wuttemberg. Sede di una delle più antiche industrie chimiche, la BASF, ha un auditorium, costruito all’inizio del secolo scorso; in stile neoclassico, per mille spettatori. In passato, vi hanno diretto, tra gli altri, Richard Strass e Bruno Walter. Ora è al centro di un consorzio o associazione di sale da concerto (a Linburghof, Heidelberg, Mannhein, Landau, Speier, Bensheim) che offre una vasta gamma di musica (non solo sinfonica, ma anche cameristica, recital, lirica in versione da concerto ed anche operette e jazz) per soddisfare i gusti di varie categorie. Emergono due considerazioni: a) la collaborazione tra pubblico e privato; e b) la cooperazione-competizione che s’innesca tra le varie componenti del consorzio. La stagione comporta una cinquantina di concerti; è stata aperta da Gustav Dudamel ed eseguita dalla Sinfonica Venezuelana. La Mahler Chamber Orchestra è stata scelta come “orchestra di beneficenza” (i proventi dei concerti vanno in attività caritatevoli). L’Os.Fr è l’”orchestra ospite” della stagione (che si estende sino a fine maggio). Il programma presentato dall’Os.Fr a Ludwisghafen, è leggermente differente da quelli offerti a Berlino e Cracovia: include il raramente eseguito “Concerto gregoriano per violino ed orchestra” di Ottorino Respighi. Solista uno dei violinisti più apprezzati a livello internazionale, il russo Serghej Krylov – ascoltato tra l’altro all’auditorium Paganini di Parma. Il pubblico è stato entusiasta: ovazioni e richieste di bis sia a Krylov che a La Vecchia.

Dalla cronaca di un viaggio appassionante con circa 100 giovani entusiasti ed il loro direttore, tiriamo le somme in termini di politica culturale, riprendendo da quel riferimento alla notte ed alla nebbia in cui sembrano stare la arti dal vivo in generale e la musica in particolare. Striscioni di protesta sulla ormai imminente “morte della cultura” si leggono in quasi tutti i teatri. Tre delle 14 fondazioni lirico-sinfoniche sono commissariate, altre due sul punto di esserlo. Franco Zeffirelli ha proposto di chiudere i teatri per un anno. La notte non potrebbe essere più scura e la nebbia più fitta. L’esperienza ed il successo dalla Os.Fr mostrano che c’è uno sprazzo di luce da cui emergono indicazioni precise:

a) una maggiore collaborazione tra pubblico e privato. Il Ministro Bondi sta lavorando ad una revisione della normativa sugli sgravi fiscali per le donazioni alle attività culturali. Occorre pensare ad un sistema di “matching grants”: il contributo pubblico affianca quello privato in misura ad esso equivalente. I Festival di Aix-en-Provence e Glyndebourne si finanziano, ad esempio, per un terzo grazie al mecenatismo, per un terzo grazie al supporto pubblico, e per un terzo grazie alla biglietteria, le tournée e la vendita di spettacoli.

b) una più intensa cooperazione tra istituzioni al fine d’effettuare sinergie e proporre una gamma più vasta di offerta agli spettatori.

c) un incoraggiamento speciale per le orchestre giovani e per quelle che si dirigono ad un pubblico giovane.

d) prendere esempio infine da Piero Bargellini, sindaco di Firenze, quando nel novembre 1966, agli Uffizi con il fango sino alle ginocchia disse a voce alta: “Non è tempo di piagnistei”.

Con i piagnistei, la nebbia diventa più fitta.

venerdì 20 febbraio 2009

A QUALCUNO PIACE "LUCIA" SENZA TAGLI

“Lucia di Lammermoor” di Gaetano Donizzetti è una delle opere più amate dal pubblico ed è. una delle più rappresentate non solo dai principali teatri lirici ma anche da compagnie a volte improvvisate. Non approdava al Regio di Parma da più di un lustroi. L’edizione, la cui “prima” è stata giovedì 19 settembre e le cui repliche si estendono sino al primo marzo, viene dal Teatro Lirico di Cagliari – interessante, ed utile, cooperazione tra teatri in periodi di vacche non magre ma magrissime.

Tratta da uno dei romanzi storico- romantici dello scozzese Walter Scott, di cui La Pléiade ha appena pubblicato la collezione integrale (anche se in Italia è noto solo per le edizioni holliwoodiane e televisive di “Ivanohe”), “Lucia” rappresenta un anello di transizione essenziale dal melodramma di inizio Ottocento a quello verdiano. Da un lato, l’orchestra evoca l’atmosfera delle brume scozzesi in un notturno quasi infinito (al pari di quanto avviene nel capolavoro di Rossini ispirato ad un altro lavoro di Scott, “La donna del lago”). Da un altro, le parti vocali richiedono grande maestria: vennero scritte per Gilbert-Louis Duprez, il tenore che ha inventato il “do di petto”, Fanny Persiano, un soprano, al tempo stesso, dalla vocalità leggera e dalla coloratura raffinatissima, e Domenico Coselli, baritono agilissimo.

Portare “Lucia” sui palcoscenici “grandi” rappresenta una sfida per una ragione specifica connessa alla “tradizione” italiana. Nelle edizioni in circolazione dalla seconda metà dell’Ottocento vengono operati tagli copiosi (quasi un terzo della partitura), principalmente nei ruoli maschili; la vocalità della protagonista, inoltre, viene portata a soprano drammatico. I tagli hanno l’effetto di imperniare tutta l’opera su Lucia, dimenticando che si svolgono due azioni parallela: una tra i quattro uomini (Edgardo, Enrico, Arturo e Raimondo) e l’altra tra l’aspro mondo maschile (dove le fanciulle, pure le sorelle, sono oggetto di compravendita) e quello della fragile Lucia, tanto debole da diventare assassina e pazza non appena l’uomo a cui è stata venduta (Arturo) si abbassa i pantaloni per avere ciò che ha pagato. La “Lucia” tagliata della “tradizione” è un romanzetto romantico, invece del doppio dramma parallelo. Il vostro “chroniqueur” non è tra coloro che ritengono essenziale il rigore filologico (spesso impossibile in quanto mancano le voci o gli strumenti) ma tra una “Lucia” di “tradizione” ed una più vicina ad un’edizione quale pensata dall’autore preferisce la seconda. La “Lucia” in scena a Parma è quasi integrale. Vale la pena ricordare che circa dieci anni fa, Zubin Metha e Graham Vick portarono una “Lucia” quasi integrale al Maggio Musicale Fiorentino ed al Grand Théatre di Ginevra. Operazione coraggiosa che a Firenze, però, non venne approvata dal pubblico. La “Lucia” “di Vick”, vista anche al Teatro dell’Opera di Roma, era imperniata sul chiarore di luna. A Parma, la regia, le scene, i costumi e le luci di Denis Krief, invece, ci portano in un Scozia atemporale e marina (i costumi sono di metà Novecento- forse il periodo della guerra di Spagna data la foggia delle uniformi) .” Il mare è nell’opera – spiega il regista-;. bastava saperlo vedere. Si poteva già rintracciarlo nella fonte romanzesca di Walter Scott e perfino nelle indicazioni dello scenario e del libretto. Ma è il melodramma di Cammarano e Donizetti a evocare l’oceano, non appena si incontrano i due protagonisti. “Lucia di Lammermoor” racconta la passione fra un uomo in perenne fuga e una donna che sente l’irresistibile richiamo verso questa ombra. Nello spettacolo il mare è una proiezione. Incombe perché è la linea su cui Cammarano e Donizetti disegnano l’orizzonte del loro melodramma. L’orizzonte marino è l’orizzonte romantico per eccellenza, la linea frastagliata su cui disegnare infiniti approdi per l’immaginario ottocentesco. Qual è il destino di Lucia? Trovare la forza di ribellarsi, di compiere un gesto di libertà. Emblematico è quanto accade durante il drammatico confronto con il fratello, che le impone un matrimonio che lei non vuole. Con una sintesi straordinaria gli autori hanno la forza e il candore di farle dire: Sappiamo bene quanto Donizetti abbia approfondito la psicologia dei personaggi femminili e questa domanda così accorata avvalora la tesi”.

Parte del notorio loggione di Parma non ha apprezzato questo stacco da una tradizione che vuole “Lucia” non solamente opera “femminile” ma anche chiaramente incastrata in un Seicento di maniera. A mio avviso, la lettura di Krief legge correttamente il dramma a due livelli dell’opera e propone una messa in scena che può avvicinarlo al pubblico più giovane. Qualche protesta ha avuto anche la direzione serrata, quasi novecentesca, di Stefano Ranzani. La protagonista è una delle migliori belcantiste su piazza, Desirée Mancatore. Ottimo Stefano Secco corso a sostituire un collega ammalato e a dare voce e corpo alla difficile parte di Edgardo. Di buon livello, Gabriele Viviani (Enrico), Carlo Cigni (Raimondo) e Francesco Marsiglia (Arturo).

SBAGLIA CHI ATTENTE L’AIUTO MASSICCIO DEI FONDI SOVRANI DEI PAESI EMERGENTI, Il Velino 20 febbraio


E’ trascorsa poco più di una settimana dall’annuncio che i fondi libici hanno acquistato un’ulteriore quota di partecipazione all’interno del gruppo bancario italiano Unicredit- in particolare, la Central Bank of Lybia ha aumento la propria partecipazione in Unicredit, in occasione della ricapitalizzazione del gruppo bancario di 3 miliardi, sottoscrivendo cashes per 250 milioni di euro, circa la metà dell'importo rimasto scoperto dopo la rinuncia della Fondazione Cariverona. La banca libica ha così aumentato la sua partecipazione del 4,9% al 7%, divenendo il più grande azionista individuale del Gruppo italiano. La notizia dell’aumento di capitale della Libia in Unicredit, ha fatto subito il giro dei media europei, alcuni dei quali hanno rilanciato le rispettive ripercussioni all’interno dei mercati finanziari locali, dove il gruppo italiano detiene una porzione rilevante del mercato interno. Libero Mercato ne ha trattato ampiamente. “Il Corriere della Sera” ha addirittura parlato di nuova “mappa del potere”.

Torniamo sul tema per due ragioni. Da un lato, l’operazione non è un caso isolato (il fondo di Abu Dhabi ha da tempo il 2.04% del capitale azionario di Mediaset, ma non si sogna certo di scalare l’azienda); anzi, potrebbero verificarsi, in un futuro non troppo lontano, ingressi analoghi di fondi sovrani stranieri in imprese italiane oggi in serie difficoltà (a causa della crisi finanziaria ed economia internazionale) ma non prive di “fondamentali” robusti. Da un altro, quello dei fondi sovrani (specialmente di Paesi emergenti, quanto meno nel mercato finanziario globale) è argomento che alimenta punti di vista, ed emozioni, molto forti (animando polemiche) e, quindi, merita di essere affrontato con un certo distacco e con dati solidi.

I fondi sovrani sono, da un canto, il risultato di situazioni particolari (quelle, ad esempio, dei sovrappiù di riserve valutarie e dei conti con l’estero di Paesi produttori ed esportatori di petrolio) e, dall’altro, uno dei rovesci della medaglia dello squilibrio finanziario ed economico mondiale causato dal disavanzo della bilancia dei pagamenti Usa e dal relativo crescente stock di debito estero degli Stati Uniti. Non sono unicamente i Paesi petroliferi ed alcuni Paesi dell’estremo oriente ad avere creato fondi sovrani per operare anche all’estero. E’ del 16 febbraio scorso l’annuncio il fondo sovrano norvegese (che ha la reputazione di essere ben gestito) sta per investire circa 18 miliardi di dollari Usa in edilizia residenziale negli Stati Uniti ed in Gran Bretagna – due mercati dove oggi si comprano case a condizioni che sembrano particolarmente convenienti. L’istituto previdenziale svedese (l’equivalente di nostri Inps e Inpdap messi insieme) gestisce, da un quarto di secolo, un fondo sovrano le cui attività sono pari ad un quarto circa del pil del Regno scandivano.

C’è molta più informazione sui fondi sovrani e le loro operazioni di quanto non pensi chi scorre la stampa (e chi la redige): basta visitare il sito del Sovereign Wealth Fund Institute (www.swfinstitute.org) per avere un quadro abbastanza dettagliato ed iscriversi alla newsletter dell’istituto per essere informati, quasi ogni giorno, in tempo reale sulle vicende relative ad una cinquantina dei maggiori fondi sovrani. E’ dalla newsletter del 13 febbraio, ad esempio, che si ricava come il fondo sovrano della Libia ha l’intenzione di fare un bel po’ di “shopping” nei prossimi mesi nel continente vecchio poiché ha, sino ad ora, investito solamente il 23% dei 65 miliardi di dollari d’attività con un alto grado di liquidità di cui dispone (in gran misura, parcheggiate nel mercato monetario). Come saranno allocati? Seguendo unicamente criteri di efficienza economica od anche con un occhio alla politica estera del Paese, con tutti i suoi colpi e contraccolpi di breve periodo? La preoccupazione principale di molti osservatori (ad esempio di numerosi blog sorti per monitorare il fenomeno – tra cui uno di giovani economisti italiani sparsi in varie università Usa) è che la partecipazione di un fondo sovrano, specialmente se di un Paese emergente (ed ancor più se di un Paese con una visione del mondo piuttosto radicale) comporti il rischio di avere a che fare con azionisti (a volte in posizione di rilievo) che guardino non unicamente agli interessi dell’azienda ma anche a quelli del Governo del Paese d’origine (caratterizzati da alti e bassi a breve termine). Naturalmente, istituti come il Sovereign Wealth Fund Institute (alimentati dai fondi medesimi) non darebbero un quadro necessariamente oggettivo e sottovaluterebbero scientemente questi rischi.

La vasta letteratura in materia apparsa negli ultimi mesi è spesso priva di una base quantitativa; riflette, quindi, le opinioni dei propri autori. Di recente, il Centro per lo Sviluppo dell’Ocse ha diramato la prima analisi abbastanza esauriente della materia; se ne può ottenere copia, scrivendo all’autore (javier.santiso@oecd.org). Lo studio, intitolato "Sovereign Development Funds: Key Financial Actors in the Shifting Wealth of Nations" ( “I fondi sovrani :attori finanziari-chiave nei cambiamenti strutturali della ricchezza delle Nazioni”) , traccia la storia dei principali fondi e contiene un’interessante analisi quantitativa: ove i fondi sovrani destinassero il 10% del loro portafoglio in operazioni in Paesi in via di sviluppo , ciò genererebbe un flusso di 1.400 miliardi di dollari l’anno nei prossimi dieci anni verso i Paesi a basso reddito , una cifra ben superiore ai flussi di aiuto allo sviluppo o di finanziamenti privati verso le aree in ritardo da parte di tutti i Paesi Ocse messi insieme. Tuttavia, anche se sul piano interno (dei rispettivi Paesi da dove provengono) i fondi sovrani tendono a comportarsi come banche di sviluppo (e perseguono anche obiettivi di riequilibrio territoriale oppure di supporto a industrie nascenti nella speranza che diventino “campioni nazionali” ), nelle loro attività internazionali sono, di norma, guidati dalla ricerca di rendimenti solidi e duraturi. L’analisi giunge a sostenere che sarebbe appropriato chiamarli Fondi Sovrani di Sviluppo.

A conclusioni analoghe giunge un lavoro del Centre for European Policy Research (CEPR Discussion Paper N.DP6949): anche se si sa ancora poco sulle strategie precise d’impiego delle loro attività finanziarie, i dati disponibili sui loro investimenti in capitale di rischio suggeriscono che, pure se tendono a diversificarsi dai settori prevalenti nei rispettivi Paesi, preferiscono orientarsi verso Paesi che hanno culture e normative sugli investimenti simili alle loro. La azioni delle aziende in cui investono (anche solamente quando si tratta di acquisto di “opzioni call”, ossia di facoltà, non di obbligo, di acquistare entro una certa data , oppure ad una certa data – a secondo della procedura tecnica seguita) aumentano di valore (spesso perché gli impieghi sono sovente diretti verso imprese alla ricerca di capitali freschi). C’è grande attenzione a indicatori di redditività contabile , come il Roe ed il Roi. Nel medio e lungo termine, tuttavia, l’andamento finanziario di molti fondi sovrani tende a non essere brillante, spesso a ragione di composizioni dei propri portafogli lontani dall’essere ottimale e da una governance non di alta qualità. E’ a questi aspetti (più che al rischio di “politique d’abord” di corto respiro) che occorre guardare.

Quindi, non demonizziamoli. Ma non consideriamoli una panacea.

.

martedì 17 febbraio 2009

SE SI FERMA LA TIGRE ASIATICA SONO GUAI PER TUTTI, Libero 17 febbraio

Il comunicato del G7 appena tenutosi a Roma dedica un unico breve paragrafo all’Asia: l’auspicio che la Cina prosegua nell’adozione di misure espansionistiche e nella traghettata verso un tasso di cambio più flessibile. In effetti, come Libero Mercato ha preannunciato il 28 ottobre scorso, il continente è al centro delle preoccupazioni sia del G7 sia del più vasto G20; negli ultimi dieci anni, l’Asia (con un tasso medio di crescita del 7,5% l’anno- due volte e mezzo più sostenuto di quello del resto del mondo) ha trainato l’intera economia internazionale ed una sua recessione minaccia effetti devastanti sull’economia mondiale. Gli ultimi dati, suggeriscono che l’Asia sta andando a picco: nell’ultimo trimestre del 2008 (i consuntivi sono stati appena resi disponibili dall’ufficio statistico della Commissione Economica delle Nazioni Unite per l’Asia); Hong Kong, Singapore, la Corea del Sud e Formosa hanno accusato un tasso annuale di contrazione del pil bem del 15% e le loro esportazioni hanno segnato una riduzione (sempre annualizzata) del 50%. Un vero e proprio tracollo. Ancora più inquietanti le previsioni diramate dai 20 maggiori istituti ecometrici privati internazionali l’8 febbraio.
E la Cina? Occorre fare attenzione alle cifre: i dati ufficiali (riportati dalla Commissione Economica Onu) parlano di crescita ad un tasso annuo del 6,8% (un rallentamento pur sempre marcato rispetto all’oltre 9,5% dei tre trimestri precedenti) ma, destagionalizzate, espongo un tasso d’aumento dell’output impercettibile (attorno all’1% su base annua) per gli ultimi tre mesi del 2008. Quindi, dovrebbero rivedere le loro ipotesi tutti quelli che contano sulla fiera internazionale di Shanghai come strumento per andare al cuore dell’area a più rapida crescita allo scopo di mostrare i loro beni e servizi al resto del mondo. Se l’Asia non si rimette a marciare a passo spedito – su questo punto concordano Banca Mondiale, Fondo Monetario, Ocse e tutti gli altri maggiori osservatori internazionali – i tempi di una ripresa dell’economia internazionale saranno più lunghi e le modalità più penose.
Cosa ha causato la frenata in un continente dove, teniamolo presente, il “subprime” non è mai esistito e non ci sono disavanzi strutturali dei conti pubblici e delle bilance dei pagamenti? Circa sei anni fa, organizzata dalla Scuola superiore della pubblica amministrazione e dalla Banca mondiale, si tenne alla Reggia di Caserta un seminario a porte chiuse a cui parteciparono quasi tutti i consiglieri economici dei Primi Ministri o dei Ministri Economici dell’Asem (Asia Europe Meeting), un’associazione creata dopo la crisi dell’indebitamento estero del continente nel 1996-98. Ne scaturì un messaggio chiaro: l’Asia in generale e la Cina in particolare non avrebbero potuto sostenere a lungo saggi rapidi di crescita senza una rete di tutela sociale per i più poveri e senza un aumento del tasso di consumo. Da un canto, la rete di tutela si stava appena allestendo e, dall’altro, i consumi non crescono non tanto perché – come afferma la pubblicistica recente – gli asiatici sono iper-risparmiatori ma poiché i redditi da lavoro sono rimasti molto bassi ed in molti casi si sono contratti: in Cina (il Paese più importante se non altro per le sue dimensioni) nel 1998 i salari contribuivano al 53% del pil, nel 2007 al 40% e stime preliminari per il 2008 li portano a meno del 38%. Ciò non è solamente il risultato di un destino cinico e baro che nella Repubblica Popolare milita contro i lavoratori oppure il frutto di datori di lavoro (in primo luogo lo Stato nelle sue varie guise e forme) rapaci. I bassi tassi d’interesse, un tasso di cambio non rappresentativo del valore della valuta estera e sussidi ad industrie di vario tipo, unitamente ad una politica d’infrastturazione di base, sono all’origine di un nodo abbastanza simile a quello che Italia, Germania, Giappone ed Ungheria dovettero in vario modo affrontare al termine del miracolo economico, alla fine degli Anni 60. Fu difficile risolverlo nei nostri Paesi; è molto più arduo farlo in una realtà così vasta, e cosi tumultuosa, come quella della Cina.
Joshua Aizenman dell’Università di California a Santa Cruz lo aveva scritto alcuni mesi fa in un saggio pubblicato nel fascicolo di maggio 2008 di “The World Economy”: la Cina ed altri Paesi del Sud Est asiatico hanno adottato una strategia di tesorizzazione delle riserve internazionali analoga al mercantilismo europeo del XVII secolo con “effetti esterni negativi” sulla retribuzione del fattore di produzione lavoro e sui consumi. Tale “mercantilismo finanziario” si spiega in quanto precauzionale (dopo la crisi del debito estero alla fine degli Anni 90) ma se ne sono sottovalutate le implicazioni a lungo termine.
Le università australiane sono, a ragione della loro collocazione geografica, un ottimo punto di osservazione di quanto sta avvenendo in Asia. Uno studio di Peter Kriesler e di Moritz Cruz (UNSW Australian Business Research Paper N 2008 ECON 16) propone di smaltire adesso le riserve accumulate al fine di sostenere la domanda mondiale. Non è però una soluzione di facile attuazione. Un’analisi econometrica di Reuven Glick (Federal Reserve Bank of San Francisco) e di Michael Hutchinson (University of California, Santa Cruz) quantizza scenari alternativi; anche il più favorevole mostra che il prezzo (in termini d’inflazione interna – da costi, non da domanda) sarà elevato anche nel caso di riduzione della crescita economica. In un quadro di chiusura di fabbriche, di migrazioni di milioni di persone verso l’ignoto (le campagne lasciate dai loro padri al tempo delle “quattro liberalizzazioni”), di una rete di tutela sociale inesistente, ciò può diventare una miccia non solo per la Cina ma anche per il resto del mondo.