Gli esami – diceva Edoardo De Filippo – non finiscono mai. Verissimo. E’, però, forse ancora più importante definire quando cominciano. Il primo esame internazionale (molto più significativo di quelli su piano interno) del programma economico di Barack Obama si è svolto a Roma in occasione del G7 finanziario, presieduto dal Ministro dell’Economia e delle Finanze Giulio Tremonti.
L’economia mondiale- lo si sa- è in serie difficoltà. Al Fondo monetario (la cui prudenza è nota, anzi notoria) comincia a circolare un vocabolo che fa venire i brividi: depressione. All’Ocse si sottolinea come gli indicatori economici principali dei suoi 30 Paesi membri (il Gotha dell’economia e della finanza internazionale) “sono giunti a livelli visti per l’ultima volta ai tempi degli shocks petroliferi degli Anni 70”. E’ chiaro che condizione necessaria (anche se non sufficiente) della ripresa è il rilancio dell’economia Usa. Il programma economico di Obama (quantitativamente molto vasto –oltre 700 miliardi di dollari ) contiene molto poco direttamente orientato alla crescita . Un banchiere tedesco fa notare che il 90% della spesa aggiuntiva è a carattere sociale (sussidi alla disoccupazione e simili) mentre unicamente il 10% riguarda investimenti produttivi. In effetti, mentre la squadra di Obama non riusciva a fare la quadra, misure specifiche sono state, in gran parte, redatte dalla Camera dei Rappresentanti, dove l’ala sinistra del Partito Democratico ha la maggioranza. Ci si augura che il Senato ci rimetta mano, ma, a Washington, pochi sperano che ciò avverrà. Tanto che al G8 finanziario di Roma, la delegazione Usa si è, in materia, barcamenata.
In secondo luogo, negli Stati Uniti l’indebitamento netto della Pa è pari al 12% del pil (quattro volte il tetto che gli europei si sono auto-imposti a Maastricht pur di fare l’unione monetaria). Sino ad ora, il G7 finanziario ha posto l’accento sul disavanzo dei conti con l’estero degli Stati Uniti (un inquietante 7% del pil). Un programma di deficit di bilancio orientato quasi esclusivamente al sociale rischia di innescare, in America, una spinta inflazionistica che potrebbe estendersi al resto del mondo. A Roma il Segretario al Tesoro non ha dato risposte convincenti.
Inoltre, in novembre il G20 si era impegnato a dire un netto “no” al protezionismo ed a fare di tutto per concludere positivamente il negoziato multilaterale sugli scambi in corso dal novembre 2001. Obama ha razzolato male facendo approvare una versione restrittiva del “Buy American Act” (la legge in base alla quale si dà una preferenza al “made in Usa” negli acquisti pubblici). Il Brasile ha immediatamente reagito aggiungendo 3.000 voci alla lista di import necessitanti licenze. Altri si stanno muovendo in modo analogo con il rischio di frammentazione del commercio mondiale.
Infine, l’Ue (e soprattutto l’Italia che ha ospitato la riunione) chiedono una revisione dei meccanismi di regolazione e vigilanza della finanza internazionale. La squadra di Obama non ha dato assicurazioni a riguardo. Agli esami la bocciature sono utili se servono a fare correggere gli allievi prima che sia troppo tardi. Non resta che sperare in un ripensamento della posizione obamiana entro il G20 in programma ad inizio aprile a Londra.
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