In riva al Meno, dove , d’inverno, il vino fatto con il succo di mele si assapora lentamente e leggermente riscaldato, si afferrano meglio le ragioni per cui sarebbero errati ulteriori interventi, a spese dei contribuenti, a favore di questa o di quella grande banca tedesca in difficoltà. A Francoforte l’atmosfera è ancora (e sempre) quella della vera capitale economica e finanziaria della Repubblica Federale. Pure nel ristorante di lusso costruito dove un tempo c’era il foyer del “vecchio” teatro dell’opera (distrutto dai bombardamenti durante la guerra) il clima è differente di Einstein. Nel primo si incontrano banchieri e finanziari; nel secondo, Unter Den Linden berlinese , tra Friederishstrasse e Charlottestrasse, a pochi passi a Est, quindi, dalla Porta di Brandeburgo, quello che un tempo era il ritrovo della nomenklatura, è oggi covo di sottosegretari di dicasteri economici e di responsabili economici della (scricchiolante) “grosse” coalizione.
Non ha peli sulla lingua, Jurgen Odenius, forse anche perché oggi è comodamente al riparo al servizio studi del Fondo monetario- quindi, senza alcun obbligo di piacere al mondo bancario tedesco. Delinea una vera e propria requisitoria delle riforme attuate dall’inizio degli Anni 90 nel sistema di “corporate governance” delle banche della Repubblica Federale. Vale la pena ascoltarlo perché in Italia una scuola di pensiero vorrebbe prendere a modello il metodo tedesco per mettere mano all’assetto funzionale delle nostre banche. In breve, secondo Odenius, non ha avuto gli esiti sperati il tentativo di coniugare lo “stakeholder system” tradizionale in Germania (e basato sulla partecipazione degli “aventi titolo” a vari gradi di gestione degli istituti) con lo “shakeholder system” mirato a massimizzare gli utili (sovente di breve periodo) per gli azionisti. Ne sono risultate rigidità. Oggi i guai non vengono soltanto dalla crisi internazionale subprime ma anche da rigidità in tre campi specifici:a) i meccanismi di controllo interno; b) autoreferenzialità; c) scarsa valutazione delle attività di acquisizione (di altri istituti)
A Francoforte ha avuto un notevole successo (negli ambienti tanto bancari quanto accademici) un lavoro dell’Università di Chicago firmato da Lubos Pastor e da Pietro Veronesi (Nber Working Paper N. w14646) in cui si passa in rassegna la letteratura recente sui mercati finanziari: numerosi fenomeni di questi ultimi anni sembrano “sconvolgenti”, ma diventano facilmente comprensibile quando riconosciamo che i parametri dei modelli finanziari sono “incerti” e “soggetti ad una buona dose di apprendimento”. In questa fase, quindi, è preferibile cercare di imparare piuttosto che correre verso soluzioni irreversibili (quali una nazionalizzazione, più o meno, all’ingrosso dei maggiori istituti). Altro testo anglosassone spesso citato,è il breve saggio “Banking on Socialism” di Therry Arthur “Banking on Socialism” pubblicato sul numero di dicembre di “Ecomomic Affaire”, diventata, con “Kyklos” rivista di culto del pensiero economico liberale tedesco. Nel lavoro, Arthur sottolinea che, dopo gli sviluppi degli ultimi mesi, il sistema bancario britannico rappresenta l’esatto opposto di quello consono ad un mercato libero, in cui non ci dovrebbe essere spazio per una banca centrale “nazionalizzata” che interviene per salvare i discoli e gli sprovveduti. Ove ciò non bastasse a Francoforte si cita un lavoro a più mani delle Università di Harvard, Paris I Panthéon, e Insee (l’Istat francese) in cui, ad un’analisi econometrica comparata, la regolazione bancaria attuale è fortemente correlata con il senso di “sfiducia” tra le banche scoppiato in occasione della crisi finanziaria emersa nel 2007 ma latente da anni.
Sino a qui le critiche alle ipotesi interventiste. C’è, però, anche una parte propositiva. In primo luogo, rimettere atto alla regolazione (ed alla relativa vigilanza) su piano nazionale ed internazionale. Un libro di Kenneth Rogoff, Eswar Prasad, Ayhan Kose e Shang-Jin Wei (poco letto in Italia ma studiato attentamente in Italia) lo sottolineava già nel 2007, sulla base di saggi scritti nel 2005-2006 (quando di crisi la stampa ancora non parlava): occorre passare da una regolazione “pro-ciclica” (in cui le banche allargano i cordoni della borsa quando pare che tutto vada bene) ad una “contro-ciclica”. Il nodo è come farlo? Se a livello nazionale od internazionale. Il livello nazionale è, senza dubbio, il primo e il più importante stadio di difesa. Proprio qui a Francoforte l’Ing. Jean-Claude Trichet vorrebbe aggiungere nuove frecce all’arco della Banca centrale europea , ma non sembra raccogliere molti applausi. Né sulle sponde del Reno né nel ristorante di quella che fu la Alte Oper.
Meglio guardare al Fondo monetario, come suggerisce Cynthia Crawford Lichtestein. Sempre che il Fondo si metta in grado di farlo
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