I comunicati di “vertici internazionali” grandi e piccoli sono redatti prima che si svolga la riunione pertinente. Le diplomazie internazionali stendono varie bozze, ne negoziano le virgole ed i punti e virgola ed alla conferenza stampa, al termine della sessione, presentano il testo come se fosse stato vergato nell’ultima mezz’ora. La procedura adottata per la preparazione del testo diramato, nei saloni “belle époque” dell’Hotel Excelsior di Roma, ha seguito questa prassi, ormai consolidata. Un’analisi attenta lo mostra a tutto tondo poiché, oltre alle pacche sulle spalle di prammatica (quanto Governi e Banche centrali hanno stato fatto per non fare mancare liquidità al sistema e per cominciare a depurarlo da attività finanziarie tossiche) ed agli auspici pure essi di prammatica (un secco “no” al protezionismo, azioni individuali dei singoli Stati ma coordinate in seno al G7, al G8, al G20 e chi-più-ne-ha-più-ne-metta), il comunicato non fa alcun riferimento ai temi centrali che, esplosi negli ultimi giorni, coloreranno il resto del dipanarsi di una crisi finanziaria ed economica prevista da alcuni (tra cui il vostro “chroniquer”) sin dall’estate 2006.
Questi temi sono i seguenti: a) l’efficacia della strategia messa in atto dagli Usa (il solo Paese che, per dimensioni economici e capacità tecnologica, può occupare la poltrona del conducente nel tirarci fuori dalla doppia crisi (finanziaria ed economica) e b) il vero e proprio tracollo dell’economia asiatica che negli ultimi dieci anni (con un tasso di crescita medio del 7,5% è stata il traino della carretta dell’economia internazionale).
Proprio mentre il G7 stava per terminare i lavori, è giunta la notizia che il Congresso Usa ha approvato il programma straordinario dell’Amministrazione Obama di 787 miliardi di dollari (per rilanciare l’economia). Il nuovo (ed aggressivo) Segretario al Tesoro Timothy Geithner ha anche ostentato di tendere la mano ai suoi colleghi dicendosi, magnanimamente, “disponibile” ad un lavoro comune. Ad un esame dettagliato del programma ci si accorge che oltre i due terzi (secondo alcune analisi quasi il 90%) del programma è di spesa sociale (sussidi alla disoccupazione, buoni alimentari e simili); quindi, agli investimenti produttivi ed all’innovazione tecnologica vanno le briciole. Inoltre, l’ala sinistra del Partito Democratico è riuscita a fare approvare, nell’ambito del programma, una versione restrittiva del “Buy American Act” (la legge in base alla quale si dà una preferenza al “made in Usa” negli acquisti pubblici). Il Brasile ha già reagito aggiungendo 3.000 voci alla lista d’import necessitanti licenze. In barba al “no” al protezionismo, altri Paesi (non solo in via di sviluppo) si stanno muovendo in modo analogo con il rischio di frammentazione del commercio mondiale. A Bruxelles si scalpita; si chiedono “dazi di ritorsione” (contro gli Usa) – e l’inizio dell’apposita procedura prevista dal trattato sull’Omc (Organizzazione mondiale del commercio). Ove ciò non fosse abbastanza, l’indebitamento netto della Pa Usa è pari al 12% del pil (quattro volte il tetto che gli europei si sono auto-imposti a Maastricht pur di fare l’unione monetaria); i tedeschi, e non solo, sono preoccupati che con una spesa federale orientata al sociale, un deficit di tali proporzioni sia una miccia inflazionistica per tutti.
All’Asia, il comunicato del G7 appena tenutosi a Roma dedica un unico breve paragrafo: l’auspicio che la Cina prosegua nell’adozione di misure espansionistiche e nella traghettata verso un tasso di cambio più flessibile. Pechino non solamente non ha alcuna intenzione di farlo perché si ricorda i dieci anni di stagnazione che subì il Giappone dopo l’accordo dell’Hotel Plaza del 1985 (quando Tokyo diede il proprio accordo ad una rivalutazione dello yen) ma anche a ragione dei gravi problemi interni connessi alla crisi. I dati ufficiali parlano di crescita ad un tasso annuo del 6,8% (nell’ultimo trimestre del 2008); destagionalizzati, espongono un tasso d’aumento dell’output impercettibile. Inoltre, mentre nel 1998 i salari contribuivano al 53% del pil dell’immenso Paese, nel 2007 erano al 40% e stime preliminari per il 2008 li portano a meno del 38%. La politica di crescita degli ultimi dieci anni ha quindi acuito le disuguaglianze. Ora che circa 20 milioni di lavoratori vengono espulsi dalle fabbriche per tornare all’agricoltura di sussistenza dei loro padri, il Paese è alle prese con gravi tensioni sociali. Se a Pechino si piange, nel resto dell’Asia non si ride. Secondo la Commissione Economica per l’Asia dell’Onu, nell’ultimo trimestre del 2008 Hong Kong, Singapore, la Corea del Sud e Formosa hanno accusato un tasso annuale di contrazione del pil ben del 15% e le loro esportazioni hanno segnato una riduzione (sempre annualizzata) del 50%. In breve quello che per oltre dieci anni è stato il motore dell’economia mondiale si è inceppato.
I Ministri del G7 ne parlano. Con apprensione. Il comunicato non vi dedica neanche mezza riga.
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