L’Italia ha il compito di guidare il G8 nell’anno più grave (da 75 anni) di recessione mondiale– in quello, inoltre, in cui le scelte di politica economica internazionale contribuiranno ad avviare la ripresa oppure a protrarre il ciclo negativo. Naturalmente il G8 non ha soltanto compiti economici ma nel 2009 appena iniziato, l’andamento dell’economia può gettare una luce (oppure un’ombra) sugli altri “dossier” (ambiente, Medio Oriente, e via discorrendo). Inoltre, i compiti del G8 si intersecano con quelli del più ampio 620, di cui fanno parte anche i maggiori Paesi in via di sviluppo.
Si è appena svolta una riunione di dirigenti di Ministeri economici e di Banche centrali del G20 che precede quella a metà marzo dei Ministri dell’Economia e delle Finanze – a sua volta preliminare all’incontro dei Capi di Stato e di Governo in calendario a Londra il 2 aprile. E’ probabile che prima di allora a Berlino, un vertice straordinario dei Capi di Stato e di Governo- dedicato specificatamente ai derivati; lo hanno anticipato Silvio Berlusconi e Nicolas Sarkozy. Tutto ciò indica che il vertice convocato da George W. Bush a metà novembre a Washington non è stato, come molti pensavano, inutile o peggio ancora (uno sfoggio mediatico d’un Presidente al termine del proprio mandato e dopo una severa sconfitta elettorale del suo partito). Il G20 sul Potomac ha messo in moto una macchina. Ora è cruciale che resta sulla corsia giusta e porti risultati concreti entro aprile.
L’Italia può dare un contributo chiave se, nella posizione di guida del G8, dà indirizzo in materia di una possibile agenda per il rilancio dell’economia internazionale.
Ciò vuole dire, in primo luogo, frenare il protezionismo, non più strisciante ma già invadente. Quasi tutta la stampa italiana ha ignorato che nonostante gli impegni (in senso liberista) assunti al G-20 di metà novembre, nelle ultime quattro settimane, la Russia ha aumentato i dazi sulle auto d’importazione e misure analoghe (nei confronti di questo o quel prodotto o di quell’area commerciale) sono state varate da India, Indonesia, Brasile ed Argentina. Il mondo rischia di andare verso la frammentazione commerciale. In Europa, Germania ed Italia ne sarebbero i Paesi più penalizzati. Il Governo italiano può svolgere un ruolo chiave e nell’Ue ed in ambito Wto/Omc (l’organizzazione mondiale per i negoziati commerciali) anche perché – ricordiamolo – Barack Obama è stato eletto in base ad un programma protezionista.
In secondo luogo, contribuire al riassetto monetario. Lo scenario migliore sarebbe quello secondo cui il forte dosaggio di ricostituenti fisco-monetari varato negli Usa porti entro metà anno ad un cambio di 1.20 $ per € e, nel contempo, la Cina rivaluti lo yuan (rispetto al $) del 20% circa. E’ un’illusione? Richiede un’intesa simile a quella raggiunta all’Hotel Plaza di New York nel 1985. Un’impresa difficile; ma l’Italia è, politicamente, in una posizione relativamente migliore di altri per tentarla.
In terzo luogo, la crisi ha proposto (specialmente negli Usa e nel Regno Unito) un’espansione dell’intervento pubblico, sia diretto (acquisizione di intermediari finanziari, aiuti a settori industriali) sia indiretto (definizione ed attuazione di regole più stringenti). L’Italia può mostrare come, nonostante il quadro mondiale, è riuscita a completare la privatizzazione di Alitalia, ad avviare quelle di Cinecittà Studios, Tirrenia e di altre partecipazioni statali. L’Italia può pure indicare che il “foro internazionale” sulla stabilità, guidato da Mario Draghi, non è caduto nella trappola di proporre regole tanto stringenti da soffocare il malato (invece di curarlo). Dunque, l’Italia può ammorbidire la tendenza internazionale ad allungare la mano di Pantalone (con interventi diretti ed indiretti).
Un’agenda in tre punti non è esile se si tratta dei temi quelli cruciali per uscire dalle pastoie di una recessione che minaccia di diventare depressione e se, pur nei limiti delle possibilità di un Paese dimensioni, ha una visione da grande potenza e da grande mediatore.
Il nodo centrale è quello del ruolo della Cina dato che la partita-chiave si gioca tra Usa e Cina: riguarda il riassetto dei cambi (come nell’altro “anno del bue”, quel 1985 dell’accordo del Plaza). Nel 1995 – ricordiamolo- la Cina ha svalutato lo yuan e lo ha agganciato al dollaro Usa al cambio di 8,3 yuan per dollaro tramite un meccanismo di “hard peg” (“aggancio duro” , sostenuto da barriere di ogni sorta). Ha mantenuto il cambio a 8,3 durante la crisi asiatica del 1996-98. Per anni, ciò conveniva un po’ a tutti: la sottovalutazione della divisa cinese corrispondeva all’alto tasso di risparmio in Cina rispetto al risparmio negativo negli Usa, i capitali cinesi tornavano sul mercato americano (e venivano in gran misura collocati in buoni del Tesoro), l’import di merci dall’Estremo Oriente frenava le tensioni inflazionistiche in Nord America. Al tempo stesso , le riserve di dollari controllate dai cinesi aumentavano da 200 a 2000 miliardi nell’arco di appena sette anni. Lo squilibrio, sempre maggiore, è stata una determinante del contagio della crisi finanziaria da Wall Street al resto del mondo. Non che gli Usa (ed il resto del mondo) non se fossero accorti, ancora prima che il detonatore della crisi facesse sentire tutto il suo fragore. Nel 2005, sotto continue pressioni e minacce Usa, la Cina ha rivalutato lo yaun . Ma appena del 2% (sic!). Un nuovo “accordo del Plaza” sarebbe necessario. La Cina è restia: ricorda che dopo l’accordo del 1985 (che portò alla rivalutazione dello yen), il Giappone ebbe un decennio senza crescita. Il rallentamento colpisce anche il nuovo Impero di Mezzo (si prevede una decelerazione del 25% del tasso di aumento del pil – dal 9,5% nel 2008 al 7,5% nel 2009 – concentrata, però, in aree industriali urbane dove fabbriche stanno chiudendo e sono da settimane in corso disordini). Senza un riassetto valutario, però, è difficile prevedere (a breve) una ripresa dell’economia internazionale. Quindi, è in questa partita che si deve inserire il G-8 guidato dall’Italia.
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