Ogni crisi ha le sue vittime. Della crisi finanziaria ed economica in corso dalla metà del 2007 la prima vittima apparente, in ordine temporale, è stato il variegato mondo di banchieri (ai piani più alti) e di promotori finanziari (a quelli più bassi) colpiti dall’esplosione della “bolla” subprime. Quasi tutti, in un primo momento, hanno perso i premi di produzione. Molti, in un secondo, hanno perso anche il posto. In parallelo, crescevano, soprattutto negli Stati Uniti, altre vittime, per così dire, “immediate” della crisi: coloro che si erano illusi di comprare case (i cui valori sarebbero cresciuti senza cessa) grazie a facilitazioni finanziarie che si sono rivelate veri e propri bidoni; l’ascesa delle valorizzazioni dell’immobiliare si è, dapprima, fermata e, poi, trasformata in una rapida discesa, con molte case nuove di zecca che finivano all’asta pubblica. Successivamente, le vittime della crisi sono parse essere le banche, finite in un gioco più grande di loro: dopo avere creato una vasta gamma di strumenti (mirati a eludere regolazione e, soprattutto, vigilanza) si sono trovate come l’apprendista stregone di Paul Dukas (ancora più noto per la versione cinematografica datane da Wal Disney in uno degli episodi di “Fantasia”); a forza di tentare di essere più furbi del vicino, costrette a non fidarsi le une della altre ed a non avere alcuna certezza sulla consistenza dei loro portafogli, delle loro attività finanziarie ed anche dei loro stessi stock di capitale.
Adesso un dotto paper di Martin Ravallion della Banca Mondiale (World Bank Policy Research Working Paper N. 4816 , disponibile sul sito dell’istituto oppure richiedendolo a mravallion@worldbank.org ) pone l’accento sul fatto che la vera vittima di questa crisi è quella che possiamo definire la classe media dei Paesi in via di sviluppo. Il lavoro statistico di Ravallion definisce “classe media occidentale” dei Paesi emergenti coloro che non sarebbero classificati “poveri” se si seguissero gli standard degli Stati Uniti (in termini di reddito e quel che più conta livello e tipologia di consumi). Sempre secondo i calcoli di Ravallion (ampiamente utilizzati, ma con una certa disinvoltura, in un lungo servizio del settimanale britannico “The Economist”), nel 1990-2002, 80 milioni di uomini e donne dei Paesi in via di sviluppo sono entrati a fare parte della “classe media (di tipo) occidentale” ; un altro 1,2 miliardi di persone tuttavia (quattro quinti in Asia e metà in Cina) sono usciti dalla povertà estrema e diventati elementi della “classe media del Terzo Mondo” che vivono in standard in Europa e negli Usa considerati molto bassi ma che riescono, per la prima volta in millenni, a mettere insieme il pranzo con la cena. Sono un gruppo – dice Ravallion – molto “vulnerabile” dato una persona su 6 nei Paesi in via di sviluppo sopravvive con un reddito tra 2 e 3 dollari Usa al giorno. Al più piccolo fruscio, rischiano di tornare alla povertà estrema.
E’ questa nuova “classe media”, tra l’altro, che è stata il motore dell’export e degli investimenti dall’Europa e dagli Usa verso lande lontane, specialmente, in Oriente (sino a due decenni fa del tutto ignote alle piccole e medie imprese del Vecchio Continente e del Nord America). Secondo Daron Acemoglu del Massachussetts Institute of Technology, la retrocessione di coloro che hanno pensato di essere la nuova “classe media” mette a repentaglio il progresso verso regimi democratici, anche se tentennante, avvertitosi in questi ultimi anni in alcune regioni (dell’Asia ma non solo). Si sa molto poco ad esempio delle tensioni socio-politiche innescate in Cina dalla chiusura (negli ultimi sei mesi) di 20 milioni di posti di lavoro nell’industria manifatturiera e (secondo le notizie che appaiono sulla stampa internazionale) costretti a migrare verso campagne lasciate dai loro padri (ove non dai loro nonni) – dove non c’è occupazione produttiva per chi ha fatto il metallurgico od il chimico anche in quanto la rivoluzione tecnologica ha comportato un aumento delle rese agricole.
E’ un problema unicamente dei Paesi in via di sviluppo e della loro nuova “classe media”? Non ci sono – che io sappia – analisi analoghe a quelle di Ravallion per i Paesi Ocse; ne comparirà probabilmente una nel prossimo “Employment Outlook”, che verrà diramato in giugno. Tuttavia, l’aumento della disoccupazione colpisce principalmente la “classe media” dei Paesi ad alto reddito medio. Nella Penisola, stime della Banca d’Italia stimano in a 2,4 milioni i lavoratori particolarmente “a rischio” in quanto con confratti a termine (di vario tipo e natura) in una fase di domanda calante di beni e servizi e, quindi, di contrazione della produzione e dell’impiego. Acemoglu (lo abbiamo visto) vede nella retrocessione della “classe media” dei Paesi in via di sviluppo una minaccia nel cammino verso la democrazia. Una minaccia analoga nei Paesi Ocse – tanto più che, come sappiamo, la Grande Depressione degli Anni Trenta sfociò, in alcuni Paesi, in totalitarismi. Lascio la risposta ai politologi. Credo, però, che nel mondo occidentale ormai le tradizioni democratiche hanno radici profonde e non saranno messe in pericolo (soprattutto se sapremo ristrutturare i nostri sistemi di welfare). Più complesso formulare ipotesi per i Paesi dell’Europa centrale ed orientale (tra cui alcuni ora appartenenti all’Ue) in transizione dal piano al mercato ed il cui percorso da regimi comunisti alla democrazia non è ancora compiuto, oppure è stato terminato solo di recente.
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