Il comunicato del G7 appena tenutosi a Roma dedica un unico breve paragrafo all’Asia: l’auspicio che la Cina prosegua nell’adozione di misure espansionistiche e nella traghettata verso un tasso di cambio più flessibile. In effetti, come Libero Mercato ha preannunciato il 28 ottobre scorso, il continente è al centro delle preoccupazioni sia del G7 sia del più vasto G20; negli ultimi dieci anni, l’Asia (con un tasso medio di crescita del 7,5% l’anno- due volte e mezzo più sostenuto di quello del resto del mondo) ha trainato l’intera economia internazionale ed una sua recessione minaccia effetti devastanti sull’economia mondiale. Gli ultimi dati, suggeriscono che l’Asia sta andando a picco: nell’ultimo trimestre del 2008 (i consuntivi sono stati appena resi disponibili dall’ufficio statistico della Commissione Economica delle Nazioni Unite per l’Asia); Hong Kong, Singapore, la Corea del Sud e Formosa hanno accusato un tasso annuale di contrazione del pil bem del 15% e le loro esportazioni hanno segnato una riduzione (sempre annualizzata) del 50%. Un vero e proprio tracollo. Ancora più inquietanti le previsioni diramate dai 20 maggiori istituti ecometrici privati internazionali l’8 febbraio.
E la Cina? Occorre fare attenzione alle cifre: i dati ufficiali (riportati dalla Commissione Economica Onu) parlano di crescita ad un tasso annuo del 6,8% (un rallentamento pur sempre marcato rispetto all’oltre 9,5% dei tre trimestri precedenti) ma, destagionalizzate, espongo un tasso d’aumento dell’output impercettibile (attorno all’1% su base annua) per gli ultimi tre mesi del 2008. Quindi, dovrebbero rivedere le loro ipotesi tutti quelli che contano sulla fiera internazionale di Shanghai come strumento per andare al cuore dell’area a più rapida crescita allo scopo di mostrare i loro beni e servizi al resto del mondo. Se l’Asia non si rimette a marciare a passo spedito – su questo punto concordano Banca Mondiale, Fondo Monetario, Ocse e tutti gli altri maggiori osservatori internazionali – i tempi di una ripresa dell’economia internazionale saranno più lunghi e le modalità più penose.
Cosa ha causato la frenata in un continente dove, teniamolo presente, il “subprime” non è mai esistito e non ci sono disavanzi strutturali dei conti pubblici e delle bilance dei pagamenti? Circa sei anni fa, organizzata dalla Scuola superiore della pubblica amministrazione e dalla Banca mondiale, si tenne alla Reggia di Caserta un seminario a porte chiuse a cui parteciparono quasi tutti i consiglieri economici dei Primi Ministri o dei Ministri Economici dell’Asem (Asia Europe Meeting), un’associazione creata dopo la crisi dell’indebitamento estero del continente nel 1996-98. Ne scaturì un messaggio chiaro: l’Asia in generale e la Cina in particolare non avrebbero potuto sostenere a lungo saggi rapidi di crescita senza una rete di tutela sociale per i più poveri e senza un aumento del tasso di consumo. Da un canto, la rete di tutela si stava appena allestendo e, dall’altro, i consumi non crescono non tanto perché – come afferma la pubblicistica recente – gli asiatici sono iper-risparmiatori ma poiché i redditi da lavoro sono rimasti molto bassi ed in molti casi si sono contratti: in Cina (il Paese più importante se non altro per le sue dimensioni) nel 1998 i salari contribuivano al 53% del pil, nel 2007 al 40% e stime preliminari per il 2008 li portano a meno del 38%. Ciò non è solamente il risultato di un destino cinico e baro che nella Repubblica Popolare milita contro i lavoratori oppure il frutto di datori di lavoro (in primo luogo lo Stato nelle sue varie guise e forme) rapaci. I bassi tassi d’interesse, un tasso di cambio non rappresentativo del valore della valuta estera e sussidi ad industrie di vario tipo, unitamente ad una politica d’infrastturazione di base, sono all’origine di un nodo abbastanza simile a quello che Italia, Germania, Giappone ed Ungheria dovettero in vario modo affrontare al termine del miracolo economico, alla fine degli Anni 60. Fu difficile risolverlo nei nostri Paesi; è molto più arduo farlo in una realtà così vasta, e cosi tumultuosa, come quella della Cina.
Joshua Aizenman dell’Università di California a Santa Cruz lo aveva scritto alcuni mesi fa in un saggio pubblicato nel fascicolo di maggio 2008 di “The World Economy”: la Cina ed altri Paesi del Sud Est asiatico hanno adottato una strategia di tesorizzazione delle riserve internazionali analoga al mercantilismo europeo del XVII secolo con “effetti esterni negativi” sulla retribuzione del fattore di produzione lavoro e sui consumi. Tale “mercantilismo finanziario” si spiega in quanto precauzionale (dopo la crisi del debito estero alla fine degli Anni 90) ma se ne sono sottovalutate le implicazioni a lungo termine.
Le università australiane sono, a ragione della loro collocazione geografica, un ottimo punto di osservazione di quanto sta avvenendo in Asia. Uno studio di Peter Kriesler e di Moritz Cruz (UNSW Australian Business Research Paper N 2008 ECON 16) propone di smaltire adesso le riserve accumulate al fine di sostenere la domanda mondiale. Non è però una soluzione di facile attuazione. Un’analisi econometrica di Reuven Glick (Federal Reserve Bank of San Francisco) e di Michael Hutchinson (University of California, Santa Cruz) quantizza scenari alternativi; anche il più favorevole mostra che il prezzo (in termini d’inflazione interna – da costi, non da domanda) sarà elevato anche nel caso di riduzione della crescita economica. In un quadro di chiusura di fabbriche, di migrazioni di milioni di persone verso l’ignoto (le campagne lasciate dai loro padri al tempo delle “quattro liberalizzazioni”), di una rete di tutela sociale inesistente, ciò può diventare una miccia non solo per la Cina ma anche per il resto del mondo.
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