giovedì 12 febbraio 2009

PERCHE’, PER USCIRE DALLA CRISI, IL TEATRO DEVE SMETTERSI DI PIANGERSI ADDOSSO Il Foglio del 13 febbraio

Il mondo dello spettacolo è in subbuglio. Il 28 gennaio si è riunita la Consulta dello Spettacolo per dare il proprio parere sulla ripartizione del Fondo unico per lo spettacolo (Fus). Il Fus ha subito una riduzione dai 460 milioni d’euro del 2008 a 380 nel 2009. L’aria si tagliava a fette. Pochi giorni prima, c’è stata una vera e propria crisi all’Anfols (l’Associazione delle 14 fondazioni lirico-sinfoniche): La Scala, l’Accademia di Santa Cecilia, il Teatro dell’Opera di Roma, i Teatri del Maggio Musicale Fiorentino hanno annunciato di lasciare il sodalizio. Il Sovrintendente del Teatro dell’Opera di Roma avrebbe dato le dimissioni e starebbe per essere sostituito: il sindaca della capitale, Gianni Alemanno, ha annunciato un’assemblea con i lavatori per il 16 febbraio. La metà del Fus è destinata alla “musa bizzarra e altera” (come l’opera lirica fu definita da Herbert Lindenberger) a ragione del “morbo di Baumol”, (vedi “Il Foglio” del 13 ottobre 2008); a causa del progresso tecnico, spettacoli a tecnologia fissa ( per rappresentare “Rigoletto” ci vuole oggi lo stesso organico richiesto ai tempi di Verdi) sparirebbero, e con essi parte della cultura nazionale. Striscioni di protesta sulla ormai imminente “morte della cultura” si leggono in quasi tutti i teatri. Si annunciano scioperi da parte della miriade di sigle in un settore in cui non si può andare in scena se solo un piccolo sindacato incrocia le braccia. C’è qualche ipotesi di soluzione possibile?
In primo luogo, prendere esempio da Piero Bargellini, allora sindaco di Firenze, nel novembre 1966, agli Uffizi con il fango sino alle ginocchia: “Non è tempo di piagnistei”. Con i piagnistei si è annebbiati, si vede meno chiaramente come uscire da quello che sembra un vicolo cieco ma non lo è.
In secondo luogo, ricordarsi che il Fus finanzia circa 400 soggetti. Soltanto nel settore musicale, oltre alle 14 fondazioni lirico-sinfoniche ed ai 28 “teatri di tradizione”, supporta 160 associazioni filarmoniche. In Francia i soggetti coinvolti sono meno della metà. In Germania, il sostegno è responsabilità dei Länder e dei Comuni che fanno a gara a chi ha i programmi migliori.
In terzo luogo, da un lato Sandro Bondi sta tentando di ottenere nuove risorse. Da un altro, da lustri il Ministro dei Beni e delle Attività Culturali registra, alla fine d’ogni anno, vasti residui passivi (non nel campo dello spettacolo ma in altre aree). Tali residui sono a volte il risultato d’accrediti di cassa ad esercizio finanziario avanzato e relative difficoltà di spesa. In qualsiasi Paese del mondo, qualsiasi Ministro dell’Economia chiederebbe una riduzione dei residui prima di mantenere le risorse fornite nel recente passato. Da oltre dieci anni, la normativa sul bilancio dello stato consente a ciascun Ministero di riallocare fondi da un comparto ad un altro.
In terzo luogo, occorre premiare l’efficienza, non ripartire a pioggia o ancore peggio incoraggiare chi spende in modo poco accorto. Nel comparto che conosco meglio (le fondazioni lirico sinfonico), pur nutrendo serie perplessità sull’attuale assetto (legge Veltroni del 1996), anche con le regole in vigore ci sono fondazioni che producono molto e bene e che sono sostanzialmente sane sotto il profilo finanziario, mentre altre fanno acqua. Tre sono commissariate (per impedire il fallimento di una delle tre, la normativa è stata cambiata ancora prima che per il salvataggio dell’Alitalia), una quarta è su una strada analoga. In effetti, solo La Scala, il Regio di Torino, il Teatro dell’Opera di Roma ed il Massimo di Palermo sono in buono stato. A Milano e Torino ci sono importanti soci privati. A Roma, il Comune sostiene molto il Teatro ed ha avuto fare un ulteriore intervento in seguito ai tagli al Fus.. Interessante il caso di Palermo. Nel 2002 aveva un disavanzo di 13 milioni d’euro ed uno stock di debito di 26 milioni d’euro. Il debito è stato ripianato tramite un mutuo (da rimborsare su un periodo di 20 anni). Una politica artistica basata su co-produzioni con i maggiori teatri italiani ed esteri, e presentazione di “prime” assolute per l’Italia, nonché ferree economia di gestione e l’aumento di rappresentazioni e di presenze, ha riportato in utile netto i consuntivi degli ultimi tre esercizi. La “premialità” per chi gestisce bene deve essere accompagnata da un cartellone nazionale con forti risparmi negli allestimenti e nei cachet degli artisti, evitando che ciascun teatro miri a mini-festival autoreferenziali. Gli allestimenti (scene e costumi) incidono sul 5% della spesa ma gli artisti (cantanti direttori d’orchestra) accetterebbero “cachet” più bassi se (come avviene in gran parte del mondo) venissero scritturati non per 5 repliche di “Tosca” ma per 30 in vari teatri di una Penisola il cui pubblico (tranne pochi appassionati) non viaggia da un teatro ad un altro.

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