giovedì 12 febbraio 2009
BANCHE STATALIZZATE A BERLINO: VERO O FALSO? Libero del 7 febbraio
Berlino. Per alcuni giorni i titoli dei principali quotidiani europei hanno indicato come sia allo studio un’eventuale nazionalizzazione delle principali banche tedesche. I nodi che affliggono gli istituti sono noti. Sotto il profilo generale, il comparto del credito e della finanza della Repubblica Federale non è in una situazione più preoccupante o peggiore di quella di altri Paesi (ad esempio, degli Usa e della Gran Bretagna) . Tuttavia, a fare scattare la molla (di un eventuale progetto in tal senso) è stata, all’inizio dell’anno, l’acquisizione (su impulso non tanto aziendale quando politico) della Dresdner Bank da parte della Commerzbank ; per portarla a termine la Commerzbank ha ottenuto un intervento del Governo federale per 10 miliardi di euro, pari al 24% del proprio capitale sociale. Ciò ha trasformato la seconda maggiore banca tedesca in un istituto non solo a partecipazione statale ma in cui lo Stato è diventato l’azionista di riferimento. L’intervento è gestito dal Soffin (Fondo speciale per la stabilizzazione del mercato finanziario), uno strumento creato di recente prendendo, più o meno, a modello il Tarp (programma per il risanamento delle attività finanziarie in difficoltà) del “piano Paulson” varato negli Usa a fine 2008 e che l’Amministrazione Obama vorrebbe rafforzare. Anche se il portavoce ufficiale del Governo tedesco, ha negato che ci sono intenzioni di estendere misure di questa natura ad altri istituti, sono corse voce di un disegno di legge organico che, invece, comporterebbe la nazionalizzazione , più o meno totale, dei principali istituti.
A Berlino per le celebrazioni del ventennale della caduta del muro – l’Italia è stata presente con un applauditissimo concerto, alla Filarmonica, dell’Orchestra Sinfonica della Fondazione Roma, una delle rarissime, forse l’unica, istituzione musicale del Paese interamente privata e che non riceve sostegno pubblico -, mi è parso utile approfondire il tema con una serie di conversazione di “background briefings” (ossia da non citare e tanto meno da virgolettare , data la delicatezza dell’argomento) con amici e colleghi della Repubblica Federale.
Alla Cancelleria, naturalmente, la versione (anche ufficiosa) è che si tratta di mera invenzione di giornali e di giornalisti. Differente l’atmosfera che si respira al Ministero delle Finanze. Si citano, naturalmente, gli esempi di nazionalizzazione “a termine”, e di breve periodo, attuati in Svezia, Giappone e Corea del Sud negli Anni 90 (in effetti il caso coreano è più recente poiché conseguenza della crisi del debito estero del 1996-98) e dei buoni risultati ottenuti. Alcuni dirigenti si spingono anche a citare la situazione (peraltro poco calzante) delle nazionalizzazioni delle banche francesi all’inizio degli Anni 80- un prezzo che Mitterand dovette pagare per l’ingresso del Partito Comunista Francese nella sua coalizione di Governo e che venne saldato (con la privatizzazione degli istituti) non appena l’Eliseo si reso conto che i comunisti non erano più necessari all’Esecutivo. L’ipotesi viene, quindi, valutata con una certa attenzione pur se non se ne disconoscono i rischi sia immediati (la paura di una nazionalizzazione ha polverizzato i titoli bancari in Gran Bretagna, Irlanda e Danimarca ed ha innescato ribassi anche in Repubblica Federale) sia di medio e lungo termine ( cosa fa pensare che funzionari pubblici siano più capaci dei banchieri di professione a gestire questa delicata fase della crisi finanziaria internazionale?). Con un pizzico di ironia c’è chi mostra l’ultimo fascicolo di “Economic Affaire”, il periodico del pensatoio britannico più marcatamente liberista) in cui si sostiene il paradosso che occorrerebbe nazionalizzare l’intero settore bancario sino a quando le banche centrali (anche la Banca centrale europea, Bce) restano sotto il controllo pubblico. C’è anche chi indica un lavoro ancora inedito della Nanjing University (si può averlo scrivendo,a mio nome, adameskly@gmail.com) secondo cui, sulla base di un campione di 188 Paesi per il periodo 1950-2003 dove si è aumentato il ruolo del settore pubblico nell’economia si è frenato lo sviluppo economico (soprattutto nel settore economico e finanziario). In sintesi, l’atmosfera generale è di attenzione all’idea (non ancora una proposta) ma di consapevolezza che creerebbe più problemi di quelli che eliminerebbe.
Alla Università con Humboldt viene sollevato il nodo cruciale: la compatibilità dell’eventuale progetto con l’unione monetaria. Ricordiamoci che quando venne approvato il Trattato di Maastricht, in Italia giuristi ed economisti di rango sottolinearono che non sarebbe stato fattibile realizzare salvataggi come quelli del Banco di Napoli e del Banco di Sicilia appena approvati in Italia. Da allora sono passati anni ed il mondo è alle prese con una grave crisi finanziaria. Ma, un intervento pubblico così pregnante non farebbe saltare non solo l’unione monetaria ma l’intera costruzione europea?
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