le frontiere della tecnica
Tassare i robot per detassare il lavoro
Occorre mettere un’imposta sull’utilizzazione
di robot (con il cui gettito ridurre la tassazione sul lavoro) per evitare che
l’automazione aumenti la disoccupazione? Il nodo risale all’inizio
dell’industrializzazione nel diciottesimo secolo quando contro i telai a vapore
si levò il movimento luddista dal nome di Ned Ludd (verosimilmente un
personaggio di fantasia), un giovane che nel 1779 avrebbe distrutto un telaio
in segno di protesta.
Si ripropose con la diffusione
dell’automazione negli Trenta quanto venne impostato in modo corretto su come
giungere a neutralità di imposizione su Capitale e Lavoro; fondamentale un
saggio di Paul Studenski, «Towards a Theory of Business Taxation », apparso sul
Journal of Political Economynel 1940. In Italia ci siamo
dati un sistema di tassazione moderno solo negli Anni Settanta. Fondamentale il
lavoro di Antonio Di Majo, «Struttura economica e struttura tributaria: il
prelievo sulle imprese» del 1986 a cui governo e Parlamento si ispirarono (non
senza travisamenti) nel creare l’Irap. L’imposta sui robot ne sarebbe per
alcuni una variante .
Gli effetti di sostituzione sembrano
eccessivamente enfatizzati. Uno studio della McKinsey giunge alla conclusione
che, se si considera l’attuale tecnologia, solo il 5% delle occupazioni verrebbe
cancellato dai robot. Un lavoro di Daron Acemoglu del MIT (in odore di Nobel) e
Pascual Restrebo della Boston University – disponibile online dal 25 marzo,
quindi freschissimo – stima l’effetto di sostituzione nel mercato del lavoro
Usa: negli Stati Uniti in futuro ove si arrivasse a un rapporto di un robot per
mille lavoratori, la riduzione dell’occupazione sarebbe al massimo dello
0,18-0,34% e quella dei salari 0,25-0,50%. Quindi trascurabile. James Besson,
anche lui della Boston University, è ancora più ottimista: dal suo modello
econometrico si evince che i robot complessivamente avranno effetti benefici
aumentando – in Paesi ad alto reddito – la produttività e l’occupazione
complessiva (specialmente nei servizi) e la formazione e qualificazione dei
lavoratori, mentre il manifatturiero a bassa tecnologia si sposterebbe nei
Paesi in via di sviluppo attivando là impieghi. Il centro studi Adapt, creato
da Marco Biagi, pone invece l’accento, nei suoi periodici Bollettini,
sull’urgenza di rispondere con una maggiore e migliore formazione.
Meno ottimista lo studio Ryan Abbot e di Bret
N. Bogenschneider, University of Surrey, messo sulla rete il 24 marzo: a loro
parere, i sistemi tributari nei maggiori Paesi Ocse incentivano l’automazione
in quanto tassano il lavoro più del capitale e «i robot non pagano imposte sul
reddito» e, quindi, sono «pessimi contribuenti». Un cambiamento di rotta può
essere realizzato facendo pulizia di deduzioni e detrazioni tributarie alle
persone giuridiche (in Italia, anni fa Francesco Giavazzi stilò un programma
per conto del ministro dell’Economia e Finanze, ma non se ne seppe più nulla).
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