venerdì 21 aprile 2017

“Elektra”, applausi al Teatro San Carlo in L'opinipne 20 aprile

“Elektra”, applausi
al Teatro San Carlo

di Giuseppe Pennisi
20 aprile 2017CULTURA
 
“Elektra” (Elettra), primo dei sette capolavori del binomio Richard Strauss-Hugo von Hofmannsthal, ha rivoluzionato nel 1909 il teatro in musica. Viene considerata dal mio amico Stéphane Lissner, direttore dell’Opéra national de Paris, come la più grande opera del Novecento.
Nel catalogo Strauss-Hofmannsthal, Elektra è anche uno dei lavori rappresentati con maggiore frequenza in Italia. Il vostro chroniqueur ha visto e ascoltato quasi tutte le produzioni italiane degli ultimi vent’anni nonché quelle di Salisburgo e Aix-en-Provence. Nelle preferenze del vostro chroniqueur, e dello stesso Strauss, nel breve ma fondamentale catalogo Strauss-Hofmannsthal è superata da “Die Frau ohne Schatten”, poco eseguita in Italia.
Tre tragedie greche (rispettivamente di Eschilo, Sofocle ed Euripide) trattano, in modo molto differente, del mito degli Atridi e in particolare di quello di Elettra. Una quindicina di anni fa Luca Ronconi portò in scena la versione che il drammaturgo Eugene O’Neill nel 1931 propose adattando le tre tragedie di Eschilo alla guerra civile americana - un drammone di nove ore (cinque, grazie ai “generosi tagli” nella versione ronconiana) - e decise di intitolare il lavoro “Il lutto si addice ad Elettra”, in ragione del vasto numero di morti che costellavano le tre parti dell’opera.
La “tragedia lirica” di Strauss-Hofmannsthal basata sul testo di Sofocle è un prodigio, al tempo stesso, di complementarità e di contrasto tra il testo di Hofmannsthal e la partitura di Strauss; circolare il primo (con il proprio epicentro nel confronto-scontro tra Elettra e Clitennestra, interamente dedicato al significato del perdono); vettoriale il secondo sino all’orgia sonora in do maggiore del finale. Un serrato atto unico di un’ora e poco più di tre quarti.
Sia l’azione sia la musica hanno una struttura a ellisse; un’introduzione quasi contrappuntistica (il dialogo delle ancelle per preparare al monologo di Elettra) si snoda in una vasta parte centrale in cui il confronto tra Elettra e Clitennestra (colmo di disperazione proprio per il diniego del perdono da parte della prima) è inserito tra due altri confronti – quelli tra Elettra e Crisotemide (rispettivamente sul significato della vita e sul valore della vendetta); in tutta questa parte centrale si sovrappongono due tonalità musicali molto differenti per unificarsi dalla scena del ritorno di Oreste e del duplice assassinio e predisporre, quindi, il do maggiore della danza macabra finale.
Al San Carlo di Napoli è tornato l’allestimento con cui il teatro ha inaugurato la stagione 2003-2004. Un allestimento che giustamente si meritò il “Premio Franco Abbiati” (l’Oscar della lirica). È un allestimento tale da indurre anche il più scettico e disincantato dei “chroniqueur” al dubbio; cioè a pensare che, tutto sommato, Lissner abbia ragione e che, quindi, i 102 minuti e sette secondi di Elektra si pongano come una grande cattedrale gotica della musica moderna, non superata nel ventesimosecolo e forse non superabile neanche nel ventunesimo. Non è il caso di riassumere la conosciutissima trama dell’opera. In questa nota, quindi, mi soffermo sugli aspetti specifici di questa produzione, che considero, unitamente a quella con la regia di Pierre Chéreau che ha debuttato nel 2013 al Festival di Aix-en-Provence e si è vista, tra l’altro, alla Scala di Milano, al Metropolitan e alla Staatsoper di Berlino, le due migliori di quelle messe in scena negli ultimi vent’anni. Hanno un punto in comune: l’azione si svolge non nell’antica Grecia, ma in un luogo che assomiglia a un Paese balcanico di fine Novecento. Nella produzione di Chéreau, le scene di Richard Peduzzi sono efficaci ma non un’opera d’arte come quelle di Anselm Kiefer che assomigliano a un reperto di archeologia industriale, una fabbrica abbandonata dopo una guerra con ballatoi su tre piani in cui i cantanti-attori si muovono quasi a tempo di musica. Inoltre la regia di Chéreau aveva momenti di grande tenerezza (ad esempio, il riconoscimento del precettore di Oreste da parte dei servi), mentre in quella di Grüber l’accento è la violenza del “secolo crudele” in cui la tecnologia consente la crudeltà di massa. Con l’eccezione di Crisotemide (alla ricerca di “una vita vera” e di una “famiglia vera” e del Precettore (nella sua breve apparizione) siamo in una società che sta franando. Chi cerca il perdono (Clitennestra) non lo ottiene. Elettra è puro istinto con un unico obiettivo: le vendetta. Ottenutola, la sua danza di gioia non può essere che anche di morte.
Di grande rilievo l’impianto scenico di Anselm Kiefer (pittore e scultore prima che scenografo): è una vera e propria installazione d’autore, un’opera d’arte messa sul palcoscenico del San Carlo; un’opera che è un continuo grido di dolore. Grüber insistette molto per convincere Kiefer nella intrapresa in comune. Rivisto oggi, dopo quasi quattordici anni, il risultato è ancora più straordinario.
Elektra è soprattutto musica e funziona bene anche in versione da concerto, come la ascoltai nel 2015 al Festival Enescu di Bucarest. Nel 1909, le sue dissonanze sconvolsero pubblico e critici, facendo passare quasi inosservate le parti melodiche, l’uso estensivo di scale cromatiche e la stessa armonia portata agli estremi. In effetti, è un unicum che sembra cambiare ogni volta a seconda del maestro concertatore. L’orchestra del San Carlo, affidata a Juraj Valčuha, nuovo direttore musicale principale del teatro, esprime sonorità, specialmente nelle dissonanze, più intense di quelle del 2003 (quando Gabriele Ferro aveva la bacchetta). Valčuha non trascura le parti cromatiche e melodiche, nonché l’armonia portata agli estremi. Magnifico il finale in cui il momento conosciuto come “il valzer di Crisotemide” si trasforma nella danza macabra di Elettra.
Elena Pankratova (Elettra) è ben nota in Italia per il suo strepitoso debutto al “Maggio Musicale Fiorentino” nel 2010 come protagonista di “Die Frau ohne Schatten”. Gli altri, anche se poco noti in Italia (in quanto specializzati nel repertorio tedesco), hanno tutti dato un’ottima prova: dalla gelida Renée Morloc (Clitennestra) passando per la dolcissima Manuela Uhl (Crisotemide), fino al brutale Michael Laurenz (Egisto) e al prestante Robert Bork (Oreste).

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