Ha suscitato un certo dibattito la nota sui paper relativi all’imposta sui robot uscita lo scorso 28 marzo su questo sito. Giuliano Cazzola mi ha fatto notare come il tema sia stato trattato nei Bollettini dell’associazione Adapt (fondata dal mai troppo compianto Marco Biagi) e come la soluzione indicata sia una maggiore e migliore formazione dei lavoratori per stare al passo con l’innovazione tecnologica. Dall’Università mi è stato indicato come il tema, fortemente dibattuto ai tempi della prima industrializzazione, si ripropose con la diffusione dell’automazione negli Trenta quanto venne impostato in modo corretto su come giungere a ‘neutralità’ di imposizione su capitale e lavoro; fondamentale a questo proposito un saggio di Paul Studenski, Towards a Theory of Business Taxation, apparso nel 1940 sul “Journal of Political Economy”. In Italia ci siamo dati un sistema di tassazione moderno solo negli anni Settanta. Sul tema resta essenziale il lavoro uscito nel 1986 a firma Antonio Di Majo, Struttura economica e struttura tributaria: il prelievo sulle imprese, a cui Governo e Parlamento si ispirarono (non senza travisamenti) nel creare l’Irap.
A questo riguardo in questi ultimi giorni sono apparsi sulla Rete due lavori molto interessanti: Automation and Jobs: When Technology Boosts Employment di James Bessen (Boston University, School of Law, Law and Economics Research Paper No. 17-09) e Robots and Jobs: Evidence from the US Labor Market di Daron Acemoglu (MIT e Pascual Restrepo della Boston University).
Il primo sottolinea che sovente il miglioramento tecnologico e l’innovazione aumentano l’occupazione complessiva e ricorda come per oltre un secolo nell’industria manifatturiera siano aumentate di pari passo la produttività e l’occupazione, diminuendo invece quando i mercati sono diventati saturi. Utilizzando due secoli di dati, un semplice modello di domanda spiega accuratamente l’ascesa e il declino del tessile, della siderurgia e della industria automobilistica (e del suo indotto). Estrapolando, il modello indica che informatica e robotica genereranno in aggregato posti di lavoro ma non nell’industria manifatturiera. In breve, ci sarà un aumento complessivo, grazie principalmente alla crescita di occupazione di qualità nei servizi.
Il secondo studio impiega un modello econometrico in cui i robot competono con i lavoratori in varie produzioni e distingue due fasi: prima e dopo il 1990. L’impatto dei robot è molto differente da quello della globalizzazione e della concorrenza di Cina e Messico. In futuro, ove si arrivasse a un rapporto di un robot per mille lavoratori, la riduzione dell’occupazione in un Paese come gli Stati Uniti sarebbe al massimo dello 0,18-0,34% e quella dei salari dello 0,25-0,50 per cento. Quindi trascurabile.
Ricordo infine che su questi temi, il CNEL (in collaborazione con Ocse e Centro studi ImpresaLavoro) terrà un seminario il 6 aprile dalle 10 alle 13 alla presenza del Ministro del Lavoro Giuliano Poletti. Verrà discussa la bozza di un documento CNEL di osservazioni e proposte che verrà rivisto alla luce del dibattito e quindi presentato a Governo e Parlamento in vista del DEF e del PNR. È un’iniziativa ‘aperta’. Chi vuole partecipare, per ovvi problemi organizzativi, mandi un mail a apicciocchi@cnel.it
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