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OPERA/ "Andrea Chénier": il girondino decollato
Andrea Chénier di Umberto Giordano è opera ancora
apprezzata dal pubblico. Al Teatro dell’Opera di Roma mancava da 42 anni.
Ce ne parla in questo articolo GIUSEPPE PENNISI
24 aprile 2017 Giuseppe
Pennisi
Andrea Chénier di Umberto Giordano è opera ancora apprezzata dal pubblico
(ne ricordo nuovi allestimenti tra il 1998 ed il 2006 a Bologna, Catania
e Venezia oltre che nei teatri ‘di tradizione’ dell’Emilia Romagma) ma
maltrattata dalla critica. Eppure in questo anno di grazia 2017 il Teatro
dell’Opera di Roma e La Fenice presentano un nuovo allestimento. Un altro il 7
dicembre inaugurerà La Scala. Altri ancora si sono visti ed ascoltati di
recente a Monaco di Baviera, all’Opéra di Parigi ed al Liceu di Barcellona.
Quindi, regge ancora nonostante la difficoltà di trovare voci (specialmente
quelle tenorili) imperniate sul centro (ma in grado di ascendere e
svettare anche in tempi molto rapidi sia di discendere delicatamente) e
la macchinosità di un libretto considerato polveroso
Al Teatro dell’Opera di Roma mancava da 42 anni, anche se ne era
vista ed ascoltata un’edizione nella stagione estiva (allora a Piazza di Siena)
nel 1996. Chénier è, innanzitutto, un’opera di voci. Ciascun dei tre
protagonisti (un tenore drammatico spinto, un soprano lirico puro ed un
baritono) ha almeno due arie o romanze che possono portare all’applauso a scena
aperta e otto personaggi in ruoli minori, ma che hanno modo e maniera di
farsi valere ed apprezzare.
Non mancano, secondo le usanze dell’epoca, interventi del corpo di
ballo. L’orchestrazione è all’apparenza relativamente semplice (anche se
richiede un grande organico) ma cela molte anticipazioni (incluso il
“chiacchierar cantando”) che diventeranno fondamentali nel Novecento Storico.
E’ un esempio di dramma storico (anzi “istorico” seguendo la dizione
della versione originale del libretto) che prende le distanze dal melodramma e
si situa verso quella che sarebbe stata la caratteristica dei “drammi in
musica” della “giovane scuola”: una vicenda relativamente semplice (nel caso in
questione una situazione imperniata su differenze di classe sociale) situata in
contesto storico (dall’inizio della rivoluzione francese ai momenti più oscuri
del Terrore giacobino) trattato come un grande affresco e, quindi, popolato di
figure minori ma ciascuna con una propria marcata personalità.
Da un lato, appartiene al filone “grand opéra padano”, una
concezione tutta italiana in cui, esauritasi l’epoca del melodramma verdiano,
si tentò di fondere elementi del grand opéra francese con elementi
wagneriani. Secondo Fedele D’Amico, durò appena 12 anni, e riguardò
essenzialmente l’area tra Bologna e Milano; ora gran parte dei suoi autori
(Franchetti, Rossi) non si rappresentano più. Da un altro, su Giordano pesava
l’accusa di avere composto un’opera (Il Re) dedicata a Mussolini ed al
cui libretto aveva messo mano il Capo del Governo di allora in persona. In
effetti, al pari di Mascagni, il genius loci di Foggia nacque socialista
(e sindacalista) ma fece di tutto per diventare membro di quell’Accademia
d’Italia che doveva rappresentare il fiore all’occhiello dell’intellinghentia
fascista. Di Mascagni gli mancavano sia la vocazione inarrestabile
all’intrallazzo sia i toni un po’ caotici, arruffoni e costantemente sopra le
righe, ma aveva una predilezione per libretti così conservatori da essere
reazionari – e comunque in difesa del “law and order” (“legalità ed ordine
pubblico”). In Siberia chi pecca deve espiare e redimersi. In Fedora
i nichilisti sono visti come il peggio dell’umanità. In Madame Sans-Gêne
è tutto un ringraziare Napoleone Bonaparte per come mette a posto quegli
ex-rivoluzionari che avevano conservato la testa un po’ troppo calda. In Mala
vita (che dovette emendare nel libretto e nel titolo – diventò Il voto-
su richiesta di Mussolini il quale la riteneva pericolosa per i giovani e le
famiglie dato che trattava di bordelli)- si esaltava l’ordine costituito. Per
non parlare di Mese mariano, il cui titolo già dice tutto, o della
commedia musicale Giove a Pompei”(lontanissima da una satira
graffiante tipo Orphée aux Enfers) oppure de La cena delle beffe,
rivista l’anno scorso alla Scala acclamata, nel 1924, come il simbolo
dell’italianità musicale del Novecento .
Andrea Chénier ritorna in grande spolvero e a richiesta di
un pubblico che (come dicono le cronache cittadine di questi mesi) vuole law
and order e detesta i giacobini. In Andrea Chéniersi tesse
l’elogio dell’aristocrazia (pronta a morire pur se innocente) e si condannano
senza appello i giacobini (il cui parvenu Gérard diventa un tagliateste pur con
il cuore buono ed il pentimento facile). La scrittura musicale e vocale ci
mette del suo: ingrandisce tanto i “buoni” (gli aristocratici ed il poeta
girondino) quanto i “cattivi” (i giacobini). Quando l’opera ebbe la prima alla
Scala il 28 marzo 1896 ci fu chi vi lesse una critica nei confronti della
sinistra di Depretis (il sogno del ritorno della “destra storica”, nobile e
rinascimentale).
Il nuovo allestimento di Marco Bellocchio – scene di Gianni
Carluccio, costumi di Daria Calvelli, coreografia di Massimiliano Volpini- è
lussuoso e tradizionale. Bellocchio avrebbe potuto osare di più; lasciar
perdere parrucche e crinoline e dato che siamo nell’anno del centenario della
rivoluzione di ottobre, trasferire il tutto a San Pietroburgo e Mosca nel
1917, Tuttavia, parrucche, crinoline, grandi saloni e ghigliottine sono
piaciuti al pubblico del Teatro dell’Opera.
La vera scoperta è l’orchestrazione. Chénier è spesso
affidato a maestri concertatori che considerano l’ orchestra un supporto alle
voci. Roberto Abbado ha scavato nella raffinata orchestrazione, nei colori e
nelle tinte di un dramma che va da eleganti Palazzi aristocratici , alla
confusione della Parigi rivoluzionarie, al tribunale del popolo, al carcere
come anteprima della ghigliottina. Ci sono temi conduttori che ripetuti a breve
distanza ed in chiavi differenti hanno un ruolo centrale. L’importanza di
questa funzione è spesso sottovalutata da maestri concertatori routiniers.Il
coro (diretto da Roberto Gabbiani) ha cantato e recitato molto bene. E’ uno dei
protagonisti di questa produzione
Andrea Chénier è opera di grandi voci,
specialmente per il tenore: una parte impervia in cui si sono cimentati
Pertile, Caruso, Gigli, Domingo, per non citare che i più noti. La difficoltà
maggiore è nel passare dal declamato, dal recitativo e dal ‘chiacchierar
cantando’ ad ariosi che portano a acuti in ‘do maggiore’ senza neanche un breve
arresto dal ‘recitar cantando’. Gregory Kunde, in carriera del 1978, ha gestito
molto bene il proprio strumento, nonostante costretto, anni fa, ad
un’interruzione di professione a causa di una malattia. In una prima fase, è
stato un grande tenore rossiniano di coloratura. In una seconda un tenore
drammatico, più che lirico, generoso nella vocalità. Il 21 aprile, sera della
‘prima’, ha avuto ovazioni a scena aperta dopoUn dì nell’azzurro spazio e
Come un bel dì di maggio.
Maddalena è Maria José Siri, un soprano drammatico di livello,
Anche per lei ovazioni a scena aperta dopo La mamma morta . Roberto
Frontali è un veterano del ruolo di Gérard, Impossibile commentare tutti gli
altri. Nel buon cast emerge . Elena Zillo nel ruolo della madre che, dopo avere
perso marito e figlio, manda il nipote adolescente a combattere per la Francia.
© Riproduzione Riservata.
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