Senza misure forti si va verso un futuro
di decrescita infelice
Pochi economisti hanno notato che il primo volume del Def
contiene proiezioni sino al 2060. Da ora ad allora, seguendo a menadito le
politiche e le strategie proposte nel documento, il tasso annuo di crescita
dell’Italia sarebbe tra l’1% e l’1,5%. Auguri per i nostri figli e nipoti!
Le determinanti sono molteplici: invecchiamento delle
popolazione, mancanza di una politica efficace per l’innovazione, obsolescenza
dell’apparato industriale manifatturiero, scarsa efficienza dei servizi.
Tuttavia, una ragione importante è il fardello del debito pubblico che frena qualsiasi
tentativo di crescita. Il Def pensa che si possa risolvere con un leggero ma
continuo 'avanzo primario', ossia attivo di bilancio al netto del servizio del
debito. Già diversi anni fa, dopo la propria esperienza da ministro del
Bilancio, l’economista Luigi Spaventa aveva dimostrato che o gli avanzi primari
sono almeno del 5% l’anno per 25 anni o il rallentamento della crescita causato
dal debito impoverirà il Paese sempre di più.
In Italia quello sul debito pubblico è un dibattito proibito,
ma nel mondo accademico il tema è da decenni al centro di studi e ricerche. Per
circa vent’anni la 'dottrina dominante' era basata sul l lavoro pioneristico di
Carmen M. Reinhart e Kenneth S. Rogoff: per dirla in termini colloquiali, il
debito pubblico frena la crescita se supera il 90% del Pil. Proprio per avere
un margine di sicurezza, il Trattato di Maastricht ha fissato l’asticella al
60%. Circa due settimane fa è uscito uno studio interessante negli Economics
Research Papers di Bath (N. 61/17) realizzato da due economisti catalani, Marta
Gomez-Puig e Simon Sosvilla Rivero. Si intitola 'Eterogeneità nel nesso tra
debito pubblico e crescita: il caso dell’eurozona'. Ci riguarda da vicino. Lo
sanno alla Commissione Europea, alla Banca Centrale Europea. Se ne è parlato
alle riunioni del Fondo Monetario e della Banca Mondiale la settimana scorsa.
Non si sa nulla delle reazioni del nostro governo.
Sulla base di un’analisi relativa ai Paesi dell’Unione
monetaria europea dal 1961 al 2015 , i due economisti pongono l’asticella molto
più in basso utilizzando tecniche di analisi più raffinate di quelle di
Reinhart e Rogoff. In tutti i Paesi dell’Unione monetaria il debito pubblico
comincia ad avere effetti negativi sulla crescita quando raggiunge il 40% del
Pil nei Paesi dell’Europa centrale ed il 50% in quelli dell’Europa meridionale.
Quindi, il parametro di Maastricht dovrebbe essere rivisto al ribasso. Secondo
i due economisti, le politiche di austerità devono continuare ad essere
applicate ma dato che non sembra abbiano inciso sul debito, essere accompagnate
da politiche strutturali tali da aumentare i rispettivi Pil potenziali. Inoltre
, l’asticella varia da Paese a Paese, una media generalizzata sarebbe poco
utile. L’analisi conclude che l’aggiustamento potrebbe essere più lento in
Grecia, Portogallo e Spagna ma deve essere più veloce in Italia. Da noi ci
vorrebbe una manovra analoga a quella che fece Einaudi immediatamente dopo la
seconda guerra mondiale. Ma allora i cambi non erano fissi e c’erano forti
barriere valutarie e commerciali. Altrimenti, per Gomez- Puig e Sosvilla Rivero
si andrebbeverso la decrescita infelice. Gli economisti del governo non hanno
ancora formulato commenti o repliche. Quelli tedeschi hanno osservato che forse
le conclusioni sono troppo severe, ma non troppo distanti dalle loro.
Giuseppe Pennisi
Nessun commento:
Posta un commento