‘ELEKTRA’ TORNA AL SAN CARLO E STRAVINCE
Giuseppe Pennisi
E’ stata una grande idea
del management e della direzione artistica del San Carlo di Napoli quella di
riportare in scena (pur se solo per una settimana) quella Elektra che ha vinto il ‘Premio Abbiati’ del 2003 e che
rappresenta, per moti aspetti, un unico nel teatro in musica perché la regia di
Klaus-Michael Grüber (deceduto nel 2008) e la scena ed i costumi dello scultore
e pittore Anselm Kiefer si fondono perfettamente con la musica e con la vocalità.
Sotto il profilo drammaturgico, la ripresa è stata curata da Ellen Hammer ,
allieva ed assistente di Grüber. La parte musicale della messa in scena attuale
è superiore, a mio avviso, di quella che appassionò gli spettatori il 3
dicembre 2003. Il San Carlo – amava dire il mai troppo compianto Giorgio
Gualerzi, un musicologo che ci lasciato lo scorso luglio- è il più
‘straussiano’ dei teatri italiani in quanto è quello in cui i lavori di Strauss
sono stati più spesso messi in scena.
Elektra è una tragedia in musica in un atto che dura poco
meno di due ore. Sono due ore di tensione assoluta. È un prodigio, al tempo
stesso, di complementarità e di contrasto tra il testo di Hofmannsthal e la
partitura di Strauss; circolare il primo (con il proprio epicentro nel
confronto-scontro tra Elettra e Clitennestra, interamente dedicato al
significato del perdono); vettoriale il secondo sino all’orgia sonora in do
maggiore del finale. Pur se inserita nello spirito freudiano della sua epoca, Elektra precorre musicalmente
l’atonalità e apre uno squarcio nella crudeltà collettiva che contrassegnerà il
ventesimo secolo. Se non altro per questa ragione. Elektra è il lavoro che tutte le persone un tempo chiamate “colte”
devono conoscere per comprendere il Novecento.
Non è il caso di riassumere la trama
dell’opera, basata sulla versione di Sofocle del mito (molto diversa da quelle
di Eschilo ed Euripide): in questa nota, quindi, mi soffermo sugli aspetti
specifici di questa produzione, che considero , unitamente a quella con la
regia di Pierre Chéreau che ha debuttato nel 2013 al festival di Aix –en
–Provence e si è vista, tra l’altro, alla Scala, al Metropolitan ed alla
Staatsoper di Berlino, le due migliori di quelle viste ed ascoltate negli
ultimi vent’anni. Hanno un punto in comune: l’azione si svolge non nell’antica
Grecia ma in luogo che assomiglia ad un Paese balcanico a fine Novecento. Nella
produzione di Chéreau , le scene di Richard Peduzzi sono efficaci ma non un’opera d’arte come
quelle di Anselm Kiefer che assomigliano ad un reperto di archeologia industriale,
una fabbrica abbandonata dopo una guerra con ballatoi su tre piani i cui in
cantanti – attori si muovono quasi a tempo di musica. Inoltre la regia di
Chéreau aveva momenti di grande tenerezza (ad esempio, il riconoscimento del
precettore di Oreste da parte dei servi), mente in quella di Grüber l’accento è
la violenza del ‘secolo crudele’ in cui la tecnologia consente la crudeltà di
massa. Con l’eccezione di Crisotemide (alla ricerca di ‘una vita vera’e di una ‘famiglia vera’ e
del Precettore (nella sua breve apparizione) siamo in una società che sta
franando. Chi cerca il perdono (Clitennestra) non lo ottiene. Elettra è puro
istinto con un unico obiettivo: le vendetta. Ottenutola, la sua danza di gioia
non può essere che anche di morte.
Elektra è soprattutto musica e
funziona bene anche in versione da concerto, come la ascoltai nel 2015 al
Festival Enescu di Bucarest. Nel 1909, le sue dissonanze sconvolsero pubblico e
critici, facendo passare quasi inosservate le parti melodiche, l’uso estensivo
di scale cromatiche, e la stessa armonia portata agli estremi. In effetti, è un
unicum che sembra cambiare ogni volta a seconda del maestro concertatore.,
accentuandone i momenti ritmici e tenendo serrati i tempi.
L’orchestra del San Carlo, affidata a Juraj Valčuha
nuovo direttore musicale principale del teatro, esprime sonorità, specialmente
nelle dissonanze , più intense di quelle
del 2003 (quando Gabriele Ferro aveva la bacchetta). Paradossalmente, nella,
lettura di Valčuha , le dissonanze si
avvertono ancora di più. Valčuha non trascura le parti cromatiche e
melodiche , nonché l’armonia portata agli estremi. Magnifico il finale in cui
il momento conosciuto come ‘il valzer di Crisotemide ‘ si trasforma nella danza
macabra di Elettra.
Il cast vocale si
integra perfettamente con questa lettura orchestrale. Anche se, tranne Elena Pankratova (Elettra),
sono artisti poco noti in Italia (in quanto specializzati nel repertorio
tedesco), hanno tutti dato un’ottima prova: dalla gelida Renéé Morloc (Clitennestra) , dalla
dolcissima Manuela Hul (Crisotemide), al brutale Michael Lorenz (Egisto), al
prestante Robert Bork (Oreste).
Grande successo. Spero
che lo spettacolo venga ripreso o in Italia o all’estero.
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