OPERA/ Tannhäuser di Richard Wagner alla Fenice di Venezia
Pubblicazione: domenica 29 gennaio 2017
Foto © Michele Crosera
In laguna, Tannhäuser di Richard Wagner mancava
da circa cinquant'anni dal Teatro La Fenice e vent’anni da tre recite al
Tronchetto quando, durante il restauro de La Fenice, le stagioni si
svolgevano in un tendone.
Un ritorno quindi molto atteso anche
perché si presentava come uno spettacolo pieno di promesse: Omer Meir Wellbern
sul podio, regia di Callixto Bieito (noto per le suo versioni
trasgressive anche di opere per educande), un grande cast
internazionale, coproduzione con i teatri d’opera di Anversa, Berna e
Genova.
Del lavoro esistono due versioni principali: quella di
Dresda del 1843 (molto diatonica, tersa e compatta) e quella di Parigi del 1861
(con intere sezioni cromatiche) rivista, dopo alcuni mesi, per Vienna.
A La Fenice è in scena una di tali versioni ‘ibride’:
il primo atto è quello parigino del 1861 mentre il secondo e il terzo sono
quelli presentati a Dresda nel 1843. Un scelta, si pensava , voluta da Bieito
di cui sono note le regie trasgressive a cui la scena iniziale del baccanale
avrebbe dato adito ad ogni sorta di sregolatezza.
Invece il primo atto si apre in una densa
foresta dove lussuriose ninfe e satiri (se ci sono) sono nascosti da folti
fusti di alberi pieni di foglie. Il dramma è incentrato sul menestrello che
vuole tornare dai suoi compagni e colleghi e dalla figlia del Langravio di
Turingia, Elisabetta, da un lato e Venere che lo vuole di trattenere con
sé.
La foresta resta nella seconda parte dell’atto,
quando Tannhäuser ritrova i suoi compagni. Non mancano trasgressioni, ma
in tono minore. Diventano più serie quando dopo la gara di canto e il tentativo
di quattro dei colleghi di stuprare in gruppo Elisabetta che aveva
tentato di difendere Tannhäuser il quale nella gara aveva cantato l’amor
carnale invece di quello ‘celestiale’: fin troppo scoperto il voler mostrare
l’ipocrisia dei quattro ‘celestiali’.
Non di meglio il terzo atto quando, ancora in un
ambiente lugubre e scuro, il rapporto tra Elisabetta e Wolfram (il miglior
amico di Tannhäuser) resta quanto meno ambiguo, il coro di pellegrini che
rientrano da Roma è avvolto tra le nebbie o in buca, l’ultimo tentativo di
Venere di riappropriasi di Tannhäuser è vagamente lascivo e la morte ed il
funerale di Elisabetta sembrano algidi. Quindi, una regia (ed un allestimento
scenico da dimenticare, scene di Rebecca Ringst, costumi di Ingo Kruler, luci
di Michael Bauer) da dimenticare.
Di livello invece la parte musicale nonostante il
protagonista Stefan Vinke, abbia cantato solo la sera della prima e sia stato
successivamente allettato dell’influenza (e sostituito da colleghi volati in
laguna dal mondo musicale tedesco).
La sera in cui ho assistito all’opera (il 24 gennaio),
ha interpretato il ruolo del titolo, l’irlandese Paul McNamara arrivato a
Venezia poco prima dell’inizio dello spettacolo non ha potuto provare la regia
di Bieito (forse un pregio). Ottima l’impostazione della voce, timbro
squillante, acuti raffinati. Austrine Stundryte è una Venere più
passionale che sensuale. E’ invece sensuale oltre che religiosa Liena
Kinéa nel ruolo di Elisabetta . Cristoph Pohl è un Wolfram di ottimo
livello.
Tutti bravi gli altri numerosi cantanti e attori,
molto numerosi da citare e commentare. Una menzione speciale meritano i giovani
del Kolbe Children Choir del centro culturale di Mestre Venezia diretti da
Alessandro Coffolo.Ben calibrata le concertazione di Omer Meir Wellbern.
In breve questo Tannhäuser merita un
CD – da evitare un DvD.
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