Ecco le cure possibili per una moneta
unica non in perfetta salute
L’euro ha compiuto in questi giorni 15 anni. Nato tra tanti
entusiasmi, oggi è un adolescente non in perfetta salute. In una delle sue
ultime interviste, pochi mesi prima di morire, l’ex cancelliere tedesco, Helmut
Schmidt, un europeista senza se e senza ma, suggerì che «si stava meglio quando
vigevano gli accordi europei sui cambi», colloquialmente chiamati «sistema
monetario europeo» (Sme). Ritornare allo Sme è diventata una delle proposte del
leader del Front National, Marine Le Pen. È molto probabile che concordino con
questa proposta coloro che (dalla Lega al M5S) vorrebbero un referendum
sull’appartenenza dell’Italia all’unione monetaria. Su linee analoghe sono
movimenti cosiddetti 'populisti' di destra o di sinistra in vari Stati
dell’area dell’euro. Altri propongono un’unione monetaria in cui la Germania si
assuma la responsabilità di sostenere lo sviluppo dei Paesi a produttività più
bassa e debito pubblico più alto. Altri ancora parlano di un 'euro aureo' (per
i Paesi più forti) collegato con i Paesi in difficoltà con un accordo di cambio
analogo a quello che dal 2015 lega la sola Danimarca con l’area dell’euro.
Non era difficile profetizzare che senza una politica di
convergenza di economia reale e di produttività, nonché di finanza pubblica,
l’unione monetaria avrebbe fatto fatica a restare in buona salute. D’altronde
dalla fine della seconda guerra mondiale ad oggi una ventina di unioni monetari
si sono sciolte a ragione delle differenze di politica economica, di
produttività, di finanza pubblica dei partner. L’I-talia è entrata nell’euro
con tasso di cambio apprezzato (rispetto alle altre valute dello Sme) a ragione
di un’improvvida decisione presa nel novembre 1989; non solo ha sofferto di
questo svantaggio iniziale (acuitosi degli anni) ma poco ha fatto per aumentare
le propria produttività e consolidare la propria finanza pubblica. Secondo le
analisi della stessa Commissione Europea, il risultato stato un deprezzamento
'interno' di circa il 30%, che ha pesato e pesa specialmente sui ceti a reddito
basso e fisso. Deprezzamenti 'interni' analoghi hanno subito Spagna, Portogallo
ed altri Paesi soprattutto dell’Europa meridionale.
L’uscita dall’euro, ed un eventuale dissoluzione dell’unione
monetaria, avrebbe conseguenze ancora più gravi specialmente sui ceti a reddito
fisso, anche se potrebbe dare un sollievo temporaneo ai settori esportatori.
Non è un ipotesi fantasiosa quella tornare a tassi di cambio moderatamente
flessibili gestiti collegialmente (come gli accordi di cambio europei) ma
sostenuti da istituzioni finanziarie (Bce e Bei) che abbiano il compito di
promuovere la convergenza. Il vero nodo è come farlo senza fare sì che i Paesi
dell’Europa meridionale subiscano in una prima fase una massiccia svalutazione.
Non mancano esperienze di unioni monetarie che si sono trasformate, ed in certi
casi ricostituite dopo avere trovato il percorso della convergenza. La proposta
concreta è che venga fatto uno studio economico approfondito di queste
esperienze. Dovrebbe essere condotto a livello europeo, su mandato
dell’Eurogruppo dei Ministri economici e finanziari.
Giuseppe Pennisi
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