venerdì 6 gennaio 2017

Ecco le cure possibili per una moneta unica non in perfetta salute in Avvenire 7 gennaio



Ecco le cure possibili per una moneta unica non in perfetta salute
L’euro ha compiuto in questi giorni 15 anni. Nato tra tanti entusiasmi, oggi è un adolescente non in perfetta salute. In una delle sue ultime interviste, pochi mesi prima di morire, l’ex cancelliere tedesco, Helmut Schmidt, un europeista senza se e senza ma, suggerì che «si stava meglio quando vigevano gli accordi europei sui cambi», colloquialmente chiamati «sistema monetario europeo» (Sme). Ritornare allo Sme è diventata una delle proposte del leader del Front National, Marine Le Pen. È molto probabile che concordino con questa proposta coloro che (dalla Lega al M5S) vorrebbero un referendum sull’appartenenza dell’Italia all’unione monetaria. Su linee analoghe sono movimenti cosiddetti 'populisti' di destra o di sinistra in vari Stati dell’area dell’euro. Altri propongono un’unione monetaria in cui la Germania si assuma la responsabilità di sostenere lo sviluppo dei Paesi a produttività più bassa e debito pubblico più alto. Altri ancora parlano di un 'euro aureo' (per i Paesi più forti) collegato con i Paesi in difficoltà con un accordo di cambio analogo a quello che dal 2015 lega la sola Danimarca con l’area dell’euro.
Non era difficile profetizzare che senza una politica di convergenza di economia reale e di produttività, nonché di finanza pubblica, l’unione monetaria avrebbe fatto fatica a restare in buona salute. D’altronde dalla fine della seconda guerra mondiale ad oggi una ventina di unioni monetari si sono sciolte a ragione delle differenze di politica economica, di produttività, di finanza pubblica dei partner. L’I-talia è entrata nell’euro con tasso di cambio apprezzato (rispetto alle altre valute dello Sme) a ragione di un’improvvida decisione presa nel novembre 1989; non solo ha sofferto di questo svantaggio iniziale (acuitosi degli anni) ma poco ha fatto per aumentare le propria produttività e consolidare la propria finanza pubblica. Secondo le analisi della stessa Commissione Europea, il risultato stato un deprezzamento 'interno' di circa il 30%, che ha pesato e pesa specialmente sui ceti a reddito basso e fisso. Deprezzamenti 'interni' analoghi hanno subito Spagna, Portogallo ed altri Paesi soprattutto dell’Europa meridionale.
L’uscita dall’euro, ed un eventuale dissoluzione dell’unione monetaria, avrebbe conseguenze ancora più gravi specialmente sui ceti a reddito fisso, anche se potrebbe dare un sollievo temporaneo ai settori esportatori. Non è un ipotesi fantasiosa quella tornare a tassi di cambio moderatamente flessibili gestiti collegialmente (come gli accordi di cambio europei) ma sostenuti da istituzioni finanziarie (Bce e Bei) che abbiano il compito di promuovere la convergenza. Il vero nodo è come farlo senza fare sì che i Paesi dell’Europa meridionale subiscano in una prima fase una massiccia svalutazione. Non mancano esperienze di unioni monetarie che si sono trasformate, ed in certi casi ricostituite dopo avere trovato il percorso della convergenza. La proposta concreta è che venga fatto uno studio economico approfondito di queste esperienze. Dovrebbe essere condotto a livello europeo, su mandato dell’Eurogruppo dei Ministri economici e finanziari.
Giuseppe Pennisi
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