Le due concezioni dell’Unione
europea
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Il duro
inizio del negoziato per la Brexit, e l’endorsement del nuovo presidente degli
Stati Uniti, unitamente all’espansione elettorale di partiti e movimenti
anti-europei (all’interno della stessa Unione europea) indicano il nodo di
quale fine farà il processo di integrazione del Vecchio continente.
È un nodo
che esiste da tempo, ma è difficile procrastinare le scelte per delineare un
percorso che attende una soluzione. Per trovare il bandolo della matassa
(mutuando il titolo da un saggio di un dirigente del ministero dell’Economia e
delle Finanze, Dario Ciccarelli) l’Ue ha avuto, da quando è nata,
l’ambizione di diventare uno Stato federale o una federazione di Stati in grado
di cedere gradualmente verso un’entità che si poteva definire “sopranazionale”.
Il suo breviario era il Manifesto di Ventotene, scritto, mentre
erano al confine, da Eugenio Colorni, Ernesto Rossi e Altiero
Spinelli. Il suo ispiratore l’ingegnere Jean Monnet, primo
presidente dell’Alta autorità della Comunità europea del carbone e
dell’acciaio. Il “metodo Monnet” consisteva in accordi tecnici su
tematiche sempre più sensibili, accordi che dovevano “essere irreversibili”,
per spingere verso un’Ue ever closer (sempre più stretta), sino a diventare
un’unione politica di una Federazione o Confederazione di Stati ove non uno
Stato federale – l’unione monetaria, causata, in effetti, dall’unificazione
tedesca dopo il crollo del muro di Berlino, sarebbe stata in questa concezione
il passo maggiormente favorevole perché avrebbe comportato la sostituzione
delle monete nazionali con una moneta unica, limitazione ai poteri delle banche
centrali nazionali, e parametri per le politiche di bilancio. Avrebbe aperto
un’autostrada verso politiche comuni e, quindi, a un’entità federale ove non
statuale. Non si è, però, riflettuto sul fatto che dalla fine della Seconda
guerra mondiale, una quindicina di unioni monetarie si sono sciolte (la più
importante la zona della sterlina nel novembre 1967), mentre ne sono
sopravvissute solamente poco più di un paio (la principale è quella europea) e
se ne stanno ricostruendo un altro paio sulle ceneri di quelle smantellate
degli Anni Settanta.
Non si è
neanche ricordato che dopo la Prima guerra mondiale, per evitare altre “inutili
stragi”, si erano concepite altre strade verso l’integrazione europea tali da
non sostituire le nazioni (alcune delle quali unificatesi nell’Ottocento), ma
di assicurare una leadership intellettuale omogenea e tale da assicurare la
soluzione dei problemi con il dialogo. Pochi ricordano, soprattutto in Italia,
lo scrittore e poeta Stefan Zweig (morto tragicamente in Brasile dove si
era rifugiato a causa delle persecuzioni naziste) di cui a Salisburgo, dove
contribuì all’istituzione del celebre Festival, si può ammirare la splendida
villa, sulla Collina dei Capuccini, con una vista mozzafiato sulla città.
Autore
prolifico, ma poco noto di quanto meriterebbe in Italia, Zweig – come ha
ricordato il settimanale britannico The Economist nel numero natalizio
del 2016 – è stato un precursore del pensiero sull’integrazione europea. Dopo
la Prima guerra mondiale, in cui non combatté ma che considerò un trauma perché
dissolse l’Europa in cui era cresciuto e vissuto, tornò in Austria e si stabilì
a Salisburgo insieme alla moglie. Ebbe inizio il suo grande successo come
scrittore: divenne l’autore più tradotto al mondo durante la sua epoca.
Nel suo
libro Il mondo di ieri. Ricordi di un europeo (Mondadori, 1994)
completato nel 1941, parte offrendo impressioni di vita viennese e
mitteleuropea dagli anni del liceo, nel decennio anteriore alla Prima guerra
mondiale, descrivendo l’integrazione della cultura di origine ebraica nella società
asburgica e il multiculturalismo di quest’ultima. Il libro, che si sofferma più
sugli eventi sociali e culturali dell’epoca che sui ricordi personali della sua
vita privata, segnala senza indulgenze i difetti della società della belle
époque (povertà di gran parte della popolazione europea, stato di minorità
delle donne, ipocrisia sessuale, diffusione della prostituzione, ecc.), ma
anche il crollo della mitologia del progresso indefinito, che animava la fine
del secolo e che si trascinò nel carnaio della Grande guerra. Zweig
descrive i contatti tentati durante il primo conflitto mondiale con ambienti
culturali lungo i due lati del campo di battaglia, allo scopo di mantenere una
koiné che prescindesse dalla guerra. I titolo di molti capitoli (Eros matutinus,
Universitas vitae) evocano una cultura umanista che riemerge – assai
intaccata – dalla Grande guerra, in una serie di circoli letterari che
saranno le prime vittime dell’insorgente dittatura nazista. Zweig
termina la narrazione esattamente il 1° settembre 1939, data dell’attacco della
Germania nazista alla Polonia che l’autore apprese passeggiando lungo i
giardini del Royal Crescent di Bath dove si era esiliato dal 1934. Per Zweig
l’evento rappresentava la realizzazione delle sue peggiori paure e la fine di
tutte le sue speranze.
L’Europa
sognata da Zweig non era il federalismo del Manifesto di Ventotene:
“L’idea europea è il frutto di un pensiero più elevato”. Un forte nesso tra gli
intellettuali europei, con una “capitale europea” a rotazione, con festival e
cenacoli nell’anno in cui la città aveva il prestigio e l’onere di essere tale.
Una concezione ben differente non solo rispetto al Manifesto di Ventotene, ma
anche dal “metodo Monnet”. Se di fronte al rischio della disintegrazione, si
riflettesse sulle pagine di Zweig e si ripartisse da una vera Europa
della cultura che preparasse la strada a un’Europa dell’economia e un’Europa
della finanza?
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