La Didone…ritrovata a Firenze: due recensioni a confronto
VINCI Didone Abbandonata R. Mameli, C. Allemano, R. Pe, G. Costa, M. Pluda, G. Frasconi; Orchestra del Maggio Musicale Fiorentino. Basso continuo: A. Artifoni (clavicembalo), G. Bellini (tiorba) M. Tazzari (violoncello). Direttore Carlo Ipata regia Deda Cristina Colonna scene Gabriele Vanzini costumi Monica Iacuzzo luci Vincenzo Raponi impianto d’ombre Compagnia Altretracce
Firenze, Teatro Goldoni, 8 gennaio 2017
A circa trecento anni dalla sua prima esecuzione assoluta, al Teatro delle Dame a Roma nel gennaio 1726, Didone Abbandonata di Leonardo Vinci su libretto di Pietro Metastasio (dal Canto IV dell’Eneide) viene riscoperta e presentata in una sede appropriata. Il Teatro Goldoni di Firenze, costruito all’inizio dell’Ottocento, ha dimensioni (circa 350 posti distribuiti tra una elegante platea e quattro ordini di palchetti per non più di quattro persone ciascuno) che non dovevano essere dissimili da quelle del romano Teatro delle Dame nel 1726. Allora — ha ricordato in un saggio di molti anni fa Elena Ferrari-Batassi — a Roma infuriava una vera e propria guerra tra teatri: oltre al Delle Dame, il Tordinona, il Valle, l’Argentina ed altri in strutture temporanee. Erano istituzioni private in stretta competizione per avere i migliori autori ed i migliori interpreti dell’epoca. Vinci era napoletano, Metastasio romano: “il binomio Metastasio-Vinci fu tra i primi simboli nel nuovo melodramma – scrive sempre Elena Ferrari-Batassi — che in seguito (dopo la morte di Vinci in giovane età ed il trasferimento di Metastasio a Vienna) fu scalzato dal binomio Metastasio-Hasse”. Vinci è stato a lungo considerato esponente della scuola napoletana ed anche il “nuovo melodramma”, ossia l’opera seria, viene iscritto alla suddetta scuola napoletana, ma esso ebbe tappa obbligata a Roma per la sua affermazione nel resto d’Italia ed all’estero; sia per la concorrenza tra teatri, sia per la presenza a Roma di grandi musicisti stranieri (si pensi al giovane Händel) che avrebbero avuto importanti carriere internazionali.
La messa in scena di Didone Abbandonata è un evento importante per vari motivi. In primo luogo non viene presentato in un festival di opera antica, quali quelli di Innsbruck e Beaune, od il nostro Opera Barga arroccato in Garfagnana, ma è parte della stagione del Maggio Musicale Fiorentino. È coprodotto con il Teatro Verdi di Pisa dove avrà repliche in marzo e si parla d’interesse da parte di teatri tedeschi; quindi dalla riscoperta del lavoro potrebbe emergere una sua più ampia diffusione.
In secolo luogo, Didone Abbandonata (che ebbe enorme successo nel Settecento) è uno di quei lavori che meglio esprimono i canoni dell’opera seria settecentesco, che soppiantava il Barocco con le sue improvvisazioni vocali, il suo misto di generi, i suoi momenti comici anche nelle opere più drammatiche (si pensi alla Incoronazione di Poppea di Claudio Monteverdi). Didone Abbandonata presenta quella che potremmo chiamare la sintassi dell’opera seria: l’azione articolata in recitativi secchi od accompagnati interrotta da arie chiaramente codificate: due arie per atto per i protagonisti, ed una per atto per gli altri interpreti, scrittura musicale asciutta non solo per distinguersi dalle fioriture del barocco ma anche e soprattutto per tenere tesa l’azione e lo sviluppo psicologico dei personaggi. In terzo luogo, dato che delle numerose opere tratte dall’argomento, Didone Abbandonata fu, all’epoca, quella di maggior successo, girò per tutta Europa ed indusse l’Imperatore d’Austria a invitare a Vienna Pietro Metastasio, il quale vi resto per tutta la vita con la carica di “poeta cesareo”. Metastasio scriveva solo ed esclusivamente in italiano i suoi melodrammi, i suoi oratori, i suoi libretti di ispirazione religiosa; contribuì, quindi, in misura non secondaria alla diffusione della lingua, che diventò quella delle maggiori Corti europee. Una tradizione che si estese a lungo: si pensi che in Egitto si parlava italiano a Corte sino agli anni Cinquanta del ‘900 e Faruq fu il primo Re ad utilizzare l’arabo.
In questa produzione i tre atti della versione metastasiana, sono divisi in due parti, con un breve intervallo per una durata di poco più di tre ore. La regia (Deda Cristina Colonna), le scene (Gabriele Vanzini) ed i costumi (Monica Iacuzzo) sono semplici ed austeri (come dovevano essere nel Settecento per lavori destinati a girare per più teatri in mezza Europa). Efficaci i giochi di luce di Vincenzo Raponi e le ombre cinesi’o silhouette della Compagnia Altretracce; con pochi tratti e chiaroscuri mostrano vari ambienti del palazzo di Didone, la costruzione ed il successo incendio di Cartagine, le navi di Enea, le tempeste di mare. Un allestimento scenico a costi contenuti ma, anche grazie alla buona recitazione, piacevole a vedersi ed a seguirsi.
Carlo Ipata, maestro concertatore, è uno specialista di questo repertorio con cui anima l’Auser musici di Pisa ed in estate Opera Barga; ha diretto con grande precisione un’orchestra con strumenti modellati su quelli dell’epoca. Molto efficace il gruppo del basso continuo, basato su cembalo, tiorba e violoncello: insieme producono un suono scuro che ben si adatta al clima teso del’opera.
L’episodio virgiliano è, inevitabilmente in un’opera seria, reso più complicato di quello dell’Eneide con intrighi, amori incrociati, duelli e quant’altro. In sintesi, all’inizio dell’opera Didone sta costruendo Cartagine (che nelle ultime scene verrà incendiata) sulle terre del Re dei Mori, Iarba (a Palazzo sotto finte vesti), il quale la vuole come sposa. La sorella di Didone, Selene, è innamorata di Enea. La vicenda termina con la partenza di Enea verso l’Italia e la morte di Didone nell’incendio di Cartagine, posto in essere da Iarba, a cui la Regina non ha voluto cedere.
Roberta Mameli è una vibrante Didone, che rende giustizia alle sue bellissime arie, da quella di apertura (Son Regina e Sono Amante) a quella, modernissima, finale (Vado, ma dove?). Il controtenore Raffaele Pe è uno Iarba, innamorato ma infido: applauditissimo dopo Così dotto in Amor esser non curo e dopo Cadrà fra poco in cenere, è stato uno dei trionfatori della serata. Carlo Allemano è il prototipo settecentesco del tenore eroico con bei Do rotondi. Bravi Gabriella Costa, Marta Pluda e Giada Frasconi. Insomma, una riscoperta che merita di essere conservata su CD o DVD.
Giuseppe Pennisi
Firenze, Teatro Goldoni, 10 gennaio 2017
C’è ancora un incomprensibile alone di mistero intorno alla figura di Leonardo Vinci. Incerti data e luogo di nascita (Strongoli o Napoli, 1690 o 1696), probabile invece la morte per avvelenamento (1730). Scarse le notizie sulla sua vita: libertino e biscazziere, morì in assoluta povertà nonostante molte sue opere (sia comiche che serie) fossero state applaudite a Napoli, Roma e Venezia. Collaboratore prediletto di Metastasio prima di Hasse e Jommelli, Vinci segnò la sua epoca, affermando un’opera concepita come successione ininterrotta di recitativi secchi ed arie.
Di questa fatta è la Didone abbandonata, che debuttò nel 1726 al romano Teatro Alibert o delle Dame (a due passi da Trinità dei Monti), ripescata ora per la prima volta in età moderna a Firenze sotto la vigile direzione di Carlo Ipata: pochissimi i recitativi accompagnati, nessun duetto nonostante la ben districata azione. Intorno al contrastato amore tra il troiano Enea, chiamato a maggior gloria dal suo destino ai lidi laziali, e la disperata regina cartaginese ruotano tutta una serie di altre dinamiche amorose: oltre all’amore rabbioso del vendicativo Iarba re dei Mori (inizialmente nei mentiti panni dell’ambasciatore Arbace) per Didone, c’è quello sottaciuto per Enea della sorella della regina, Selene, della quale è poi innamorato a sua volta Araspe, confidente di Iarba. Cui va aggiunto il ruolo del traditore Osmida, ambiguo confidente di comodo di Didone.
Vinci dispensa quasi in realtà a tutti i ruoli agilità belcantistiche a piene mani, sicché alla fine a ben vedere a prevalere è più il lato eroico che quello patetico. Fanno eccezione il bel recitativo accompagnato e la lunga aria di Didone (lamento e perorazione “Se vuoi ch’io mora” non a caso l’unica di modo minore) ed il sorprendente finale (una sequela di recitativi accompagnati) che sembra quasi in dissolvendo, questo sì davvero innovativo.
Il cast vocale era di prim’ordine, con una straordinaria Roberta Mameli, carismatica Didone, Gabriella Costa pastosa Selene, il controtenore Raffaele Pebrunito e stizzito Iarba, Marta Pluda nitido Araspe; più in ombra l’Osmida di Giada Frasconi e quel pezzo di Marcantonio di Enea, brizzolato e poco eroico, del tenore Carlo Allemano.
Discutibile poi l’allestimento, invero miserello, con semplici strutture di tubi Innocenti a significare una scalinata a sinistra ed un parallelepipedo abitato da vele o teli a destra. Dinanzi a tanto verosimile plot drammaturgico, Deda Cristina Colonna, apprezzata coreografa di danze storiche, opta invece registicamente per un poco consono stile surreale e fantastico con ombre cinesi che proiettano navi e movimenti en ralenti. C’è insomma poco eroismo in quest’opera seria di blasonati natali, che come molte altre gemelle metastasiane, unisce invece indissolubilmente eroismo ed erotismo, dovere e passione. Apprezzabili nel complesso la direzione di Ipata e la riscoperta di un’opera che incoraggia a saperne di più di questo troppo poco frequentato Vinci.
Lorenzo Tozzi
Crediti fotografici: Pietro Paolini/TerraProject/ Contrasto
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