Confindustria, il referendum e
i potenziali boomerang
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Il corsivo
dell'economista Giuseppe Pennisi
La
Confindustria si è schierata all’unanimità per il Sì al referendum del prossimo
ottobre. Una posizione comprensibile ed anche auspicabile. In un Paese, dove
dal 2008, la capacità di produzione industriale ha subito una contrazione del
20%, è bene che il mondo del manifatturiero e il governo lavorino insieme per
far sì che il settore architrave del nostro benessere torni alla prosperità di
un tempo. E’ pure logico che la Confindustria consideri la stabilità politica
essenziale per la ripresa e che tema che essa verrebbe a meno in caso di una
sconfitta di un governo, il cui presidente del Consiglio ha legato il proprio
futuro politico all’esito del referendum.
Una volta
presa posizione per il Sì è meno comprensibile che sia stata data ampia
diffusione a una elaborazione econometrica del Centro Studi Confindustria (CSC)
di quattro pagine in cui essenzialmente si dice che in caso di vittoria del No
il Paese rischia di finire in pessimi marosi mentre in caso contrario il Sì
spianerebbe la via della crescita e dello sviluppo. Non sta a me entrare nel
merito delle simulazioni del CSC tanto più che, pur invitato al seminario di
presentazione, non ci sono andato per impegni concomitanti e per il timore e
tremore di un viaggio a Viale dell’Astronomia in una giornata con 34 gradi
all’ombra.
Tuttavia,
sotto il profilo tattico, mi sembra che sarebbe stato preferibile presentare a
pochi economisti un corposo documento con una piena spiegazione del modello,
delle ipotesi, dei parametri e della reattività al mutamento delle ipotesi,
nonché con un’analisi stocastica di rischio di previsione. La sintesi di
quattro paginette, e con un tono apodittico, può sortire un effetto boomerang.
Pochi
ricordano le elezioni de 1965 quando era nell’aria quella che allora veniva
chiamata l’”apertura a sinistra”. La Confindustria in quanto tale non si
schierò apertamente, anche se lo fece la stampa controllata o in prima persona
dalla confederazione o da importanti gruppi industriali (con l’eccezione
del quotidiano torinese molto prossimo alla FIAT). Anzi l’ufficio studi della
confederazione, allora di fronte al “Bottegone” (casa del PCI), pubblicò
un’interessante monografia sulla “programmazione indicativa francese”, quasi ad
indicare che l’industria avrebbe potuto svilupparsi in una politica di piano
“indicativa” ove si fosse realizzata l’’apertura a sinistra’.
Fece, però,
da ariete la Confedilizia prendendo spunto dalla proposta di legge urbanistica
proposta dell’allora Ministro dei Lavori Pubblici, Fiorentino Sullo. La
proposta, modellata sulla esperienza britannica, prevedeva un regime di
“diritto di superficie” di 99 aree per le aree fabbricabili ancora prive di
costruzioni ed un sistema di piani regolatori comunali. La legge venne
presentata come la fine della proprietà privata e l’inizio di una serie di
espropri anche delle case già esistenti e via discorrendo. Con l’inevitabile
tracollo dell’economia. Vennero organizzati convegni in tutt’Italia con la
conclusione al Teatro Adriano, allora la sala più vasta di Roma, con folla
straboccante su Piazza Cavour. Gli argomenti toccavano la “pancia” degli
italiani più di quattro pagine di simulazioni econometriche.
Ciononostante,
e forse per la enfasi eccessiva, dalle elezioni uscì una forte maggioranza di
centro sinistra e dopo una fase di negoziati il Psi entrò nel governo, Un vero
e proprio boomerang.
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