Renzi porterà
dagli Usa qualche idea di politica industriale?
Il viaggio del Presidente del Consiglio Matteo
Renzi negli Stati Uniti ha molteplici obiettivi: partecipare all’Assemblea
Generale delle Nazioni Unite, essere presente alle manifestazioni su ambiente e
clima, visitare la Silicon Valley e discutere con il Presidente della
Università di Stanford delle determinanti che hanno portato ad un vasto
distretto di forte sviluppo tecnologico.
Su questo argomento, c’è da augurarsi che rientri in
Italia con lo stimolo di dare nuova vita a quella “politica industriale” che da
qualche tempo sembra quasi una parolaccia. L’Italia è un Paese a vocazione
manifatturiera per necessità: privo di materie prime, può solo contare su
produzione industriale e mercato mondiale. Dall’inizio della crisi nel 2008,
abbiamo perso quasi il 25% del valore aggiunto industriale e in percentuale del
Pil la quota della nostra protezione industriale è passata dal 22% a poco più
del 15%.
Ai livelli quasi della vicina Francia che conta però
su un vasto comparto agricolo altamente sovvenzionato dai contribuenti europei
tramite la politica agricola comune. Attenzione: proprio in Francia sono stati
prodotti due importanti documenti, il Rapport Beffa del 2005 ed il Rapport
Gallois del 2012 che, pur ponendo l’accento sulla competitività dell’industria
francese, contenevano proposte per una strategia industriale europea. Il
Rapport Beffa ha avuta una certa eco grazie a seminari e dibattiti organizzati
dalla Fondazione Ideazione. Il Rapport Gallois è stato semplicemente ignorato
nel nostro Paese. In breve l’ultimo documento organico di politica industriale
italiano resta quello predisposto da Antonio Marzano nel 2004, quando era
Ministro delle Attività Produttive. Restò, però, una bozza di documento a
ragione di una malattia di Marzano e del suo trasferimento al CNEL.
Renzi ha senza dubbio tratto utili stimoli dalla Silicon Valley e dagli
incontri all’Università di Stanford. Mi
chiedo, però, quanto siano pertinenti ad un Paese come il nostro tra gli ultimi
in Europa in termini di infrastruttura cablata e banda larga e dove meno del
15% della popolazione in età lavorativa ha un diploma di laurea (rispetto al
30% in Spagna, al 29% in Francia ed al 27% in Germania, nonché al 75% nella
Silicon Valley). Forse avrebbe tratto idee più concrete, e più rilevanti alla
situazione italiana, dallo studio pubblicato in queste settimane
dall’Inter-American Development Banl, o meglio una raccolta di studi curata da Gustavo
Crespi ed Eduardo Fernandez Arias (Retinking Production Development:
Sound Policies and Institutions for Economic Transformation).
Solamente i gufi schizzinosi possono adombrarsi da
riferimenti all’America Latina. Mostrano di essere profondamente ignoranti
degli alti tassi di crescita di numerosi Paesi dell’America Centrale e
Meridionale negli ultimi vent’anni e di non sapere che per gran parte del
Continente è non più l’Europa ma la Corea del Sud. I saggi indicano come
riforme istituzionali – tanto care a Matteo Renzi – possono, anzi debbono,
essere coniugate a politiche industriali ancorate ad innovazioni fattibili
anche se scarseggiano le infrastrutture ed il capitale umano.
Particolarmente utile la sezione sui business
incubator – e sul ruolo dello Stato e delle autonomie locali a questo riguardo
– anche per ricca di casi di studio di “avventure” che hanno avuto successo in
contesti non troppo distinti dal nostro. E’ vero che alcuni capitoli sono
difficili da digerire: scritti per economisti quantitativi con una forte formazione
matematica, possono scoraggiare i politici dalla loro lettura. Li salti a pie’
pari. E si concentri invece su quelli che possono dare una politica industriale
all’Italia.
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