Una cultura da rottamare non la considera
DIGNITÀ ALL’ECONOMIA DELLA FAMIGLIA
Questo giornale torna a sottolineare l’allarme denatalità e – con l’analisi di Massimo Calvi e Pietro Saccò pubblicato giovedì scorso, 18 settembre – offre alla riflessione di politici e addetti ai lavori una proposta-esempio che dimostra la fattibilità di una “svolta”: convertire il bonus degli 80 euro in uno strumento di sostegno alle famiglie con figli.
Apprezzo l’analisi e condivido completamente la proposta, qui vorrei però concentrarmi su un aspetto specifico e non affrontato della questione: le determinanti del bening neglect – la disattenzione preterintenzionale (a voler essere cortesi) – della cultura italiana, e in particolare della cultura economica, nei confronti dell’economia della famiglia. In altri grandi Paesi, la materia – che utilizza la strumentazione economica per studiare sia le relazioni all’interno dei nuclei familiari sia il contributo, di breve periodo (congiunturale) e di medio e lungo periodo (strutturale), che questi danno al resto dell’economia – viene invece riconosciuta e valorizzata come una disciplina economica a sé stante, al pari dell’economia internazionale, dell’economia dello sviluppo o dell’economia tributaria.
Un “economista della famiglia”, Gary Becker, ha ricevuto il Nobel per l’Economia principalmente per il trattato che ha scritto sul tema (e il cui testo integrale non è mai stato tradotto in italiano). All’estero (principalmente nei Paesi di cultura anglosassone e tedesca), esistono inoltre, in tutte le maggiori università, cattedre di economia della famiglia e c’è una vasta letteratura accademica con riviste specializzate: la più nota è più autorevole è il Journal of Family and Economic Issues. Non mancano anche riviste scientifiche “regionali”, ad esempio in Asia. Alcuni anni fa, nel 207 , Lundberg, Shelly, e Pollak hanno dedicato un saggio alla materia nel Journal of Economic Perspectives, una delle tre più accreditate riviste dell’American
Economic Association.
Esiste, poi, una rivista scientifica quotidiana (cinque giorni la settimana, undici mesi l’anno) il Labor: Demographics and Economics of Family E-Journal che ha più di un milione di abbonati nel mondo. Pubblica estratti di studi sul tema, dando la possibilità di scaricare i testi integrali (per lo più gratis o pagando una modica cifra). Qualcuno sarà stupito del fatto che il saggio di apertura del 16 settembre scorso riguarda il rischio di povertà delle famiglie italiane – Persistent Risk of Poverty Rate in Italy 2007-2010 – ed è di autori italiani: Lucia Coppola e Davide Di Laurea. Ma è proprio così e quel lavoro sta già avendo notevole eco all’estero, mentre – a quanto mi risulta sinora – nel nostro Paese non è stato neanche presentato in uno dei seminari organizzati periodicamente dalla Banca d’Italia, dal Tesoro e dalle maggiori università (per non parlare del Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali). È la conferma che anche in Italia ci sono economisti che studiano specificamente la materia e possono fornire suggerimenti per appropriate politiche. Purtroppo, però, sono poco numerosi e, quel che più conta, poco considerati.
Le radici di questa indifferenza incomprensibile e autolesionista, a mio avviso, non sono nella scienza economica. Al contrario, tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento, la scuola italiana di scienza delle finanze (Pantaleoni, De Viti De Marco, Cossa, Mazzola) diede contributi importanti all’economia della famiglia, specialmente sotto il profilo tributario. Per certi aspetti, seppure in modo parziale, il fascismo si appropriò di tali contributi sviluppando una politica della famiglia aggressiva che includeva anche una “tassa sul celibato”.
Dopo la seconda guerra mondiale, l’attenzione è scemata in reazione a una prassi politica che, più a torto che a ragione, era ritenuta “fascista” (sebbene le sue basi economiche risalissero agli ultimi decenni del XIX secolo) e soprattutto a ragione di una cultura politica che, in un’Italia in rapida industrializzazione, vedeva il ruolo della donna solo “in fabbrica” o “in ufficio” e non a casa, a “fare figli” e a condividerne con il marito la formazione e la crescita. È venuto il momento, credo, di rottamare questa diffusa, ancor recente eppure terribilmente vetusta visione e “agganciare” finalmente riflessioni e concrete politiche che si sviluppano nel resto del mondo.
© RIPRODUZIONE RISERVATA
di Giuseppe Pennisi
DIGNITÀ ALL’ECONOMIA DELLA FAMIGLIA
Questo giornale torna a sottolineare l’allarme denatalità e – con l’analisi di Massimo Calvi e Pietro Saccò pubblicato giovedì scorso, 18 settembre – offre alla riflessione di politici e addetti ai lavori una proposta-esempio che dimostra la fattibilità di una “svolta”: convertire il bonus degli 80 euro in uno strumento di sostegno alle famiglie con figli.
Apprezzo l’analisi e condivido completamente la proposta, qui vorrei però concentrarmi su un aspetto specifico e non affrontato della questione: le determinanti del bening neglect – la disattenzione preterintenzionale (a voler essere cortesi) – della cultura italiana, e in particolare della cultura economica, nei confronti dell’economia della famiglia. In altri grandi Paesi, la materia – che utilizza la strumentazione economica per studiare sia le relazioni all’interno dei nuclei familiari sia il contributo, di breve periodo (congiunturale) e di medio e lungo periodo (strutturale), che questi danno al resto dell’economia – viene invece riconosciuta e valorizzata come una disciplina economica a sé stante, al pari dell’economia internazionale, dell’economia dello sviluppo o dell’economia tributaria.
Un “economista della famiglia”, Gary Becker, ha ricevuto il Nobel per l’Economia principalmente per il trattato che ha scritto sul tema (e il cui testo integrale non è mai stato tradotto in italiano). All’estero (principalmente nei Paesi di cultura anglosassone e tedesca), esistono inoltre, in tutte le maggiori università, cattedre di economia della famiglia e c’è una vasta letteratura accademica con riviste specializzate: la più nota è più autorevole è il Journal of Family and Economic Issues. Non mancano anche riviste scientifiche “regionali”, ad esempio in Asia. Alcuni anni fa, nel 207 , Lundberg, Shelly, e Pollak hanno dedicato un saggio alla materia nel Journal of Economic Perspectives, una delle tre più accreditate riviste dell’American
Economic Association.
Esiste, poi, una rivista scientifica quotidiana (cinque giorni la settimana, undici mesi l’anno) il Labor: Demographics and Economics of Family E-Journal che ha più di un milione di abbonati nel mondo. Pubblica estratti di studi sul tema, dando la possibilità di scaricare i testi integrali (per lo più gratis o pagando una modica cifra). Qualcuno sarà stupito del fatto che il saggio di apertura del 16 settembre scorso riguarda il rischio di povertà delle famiglie italiane – Persistent Risk of Poverty Rate in Italy 2007-2010 – ed è di autori italiani: Lucia Coppola e Davide Di Laurea. Ma è proprio così e quel lavoro sta già avendo notevole eco all’estero, mentre – a quanto mi risulta sinora – nel nostro Paese non è stato neanche presentato in uno dei seminari organizzati periodicamente dalla Banca d’Italia, dal Tesoro e dalle maggiori università (per non parlare del Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali). È la conferma che anche in Italia ci sono economisti che studiano specificamente la materia e possono fornire suggerimenti per appropriate politiche. Purtroppo, però, sono poco numerosi e, quel che più conta, poco considerati.
Le radici di questa indifferenza incomprensibile e autolesionista, a mio avviso, non sono nella scienza economica. Al contrario, tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento, la scuola italiana di scienza delle finanze (Pantaleoni, De Viti De Marco, Cossa, Mazzola) diede contributi importanti all’economia della famiglia, specialmente sotto il profilo tributario. Per certi aspetti, seppure in modo parziale, il fascismo si appropriò di tali contributi sviluppando una politica della famiglia aggressiva che includeva anche una “tassa sul celibato”.
Dopo la seconda guerra mondiale, l’attenzione è scemata in reazione a una prassi politica che, più a torto che a ragione, era ritenuta “fascista” (sebbene le sue basi economiche risalissero agli ultimi decenni del XIX secolo) e soprattutto a ragione di una cultura politica che, in un’Italia in rapida industrializzazione, vedeva il ruolo della donna solo “in fabbrica” o “in ufficio” e non a casa, a “fare figli” e a condividerne con il marito la formazione e la crescita. È venuto il momento, credo, di rottamare questa diffusa, ancor recente eppure terribilmente vetusta visione e “agganciare” finalmente riflessioni e concrete politiche che si sviluppano nel resto del mondo.
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di Giuseppe Pennisi
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