venerdì 26 settembre 2014

Il Liberalismo di Giuseppe Verdi in La Nuova Antologia ottobre 2014

Il Liberalismo di Giuseppe Verdi
Premessa
In questi anni, la «Nuova Antologia» ha sovente trattato di Giuseppe
Verdi nei suoi rapporti con la società civile e con la politica. Nel giugno
2011 (Anno 146, fascicolo 2258), si sono smitizzati i nessi, ed il ruolo, del
compositore con il Risorgimento. Nel giugno 2013 (Anno 148, fascicolo
2266), si è esaminato l’aspetto della «paternità mancata» nella poetica di
Verdi. Più di recente (Anno 149, fascicolo 2269) si sono passate in rassegna
le varie letture politico-sociologiche dell’opera più rappresentata di
Verdi (e da qualche anno l’opera più rappresentata a livello mondiale in
senso assoluto), La traviata nei 160 anni dal suo debutto al Teatro La
Fenice di Venezia.
Perché tornare su Verdi in questo fascicolo della «Nuova Antologia»
che, in gran misura, commemora il Prof. Giovanni Spadolini a vent’anni
dalla scomparsa? Anche se Verdi partecipò stancamente al movimento di
unità nazionale, è stato di forti e convinti princìpi liberali sia nelle sue (poco
note) attività di imprenditore agroalimentare e di promotore di politiche
pubbliche nel settore delle arti sia nei suoi specifici lavori musicali. Nell’affrontare
il liberalismo di Giuseppe Verdi, questo articolo fa in primo luogo
un cenno al lavoro imprenditoriale e di promotore di politiche pubbliche
nelle arti e nelle professioni artistiche. Tratta, poi, del liberalismo di Verdi
nei suoi lavori successivi alla «trilogia popolare» del 1851-53 (nell’ordine,
Rigoletto, Il trovatore e La traviata) – ossia, in quelli concepiti quando
l’unità d’Italia era già realizzata oppure sul punto di esserlo. Un’unità con
molti aspetti contradditori: se Massimo D’Azeglio sosteneva «Fatta l’Italia,
dobbiamo fare gli italiani», uno dei personaggi del romanzo «parlamentare»
MUSICA E POLITICA: IL LIBERALISMO
DI GIUSEPPE VERDI
198 Giuseppe Pennisi
L’Imperio di Federico De Roberto affermava «Fatta l’Italia, dobbiamo fare
gli affari nostri». È difficile dire in che misura Verdi – dopo La battaglia di
Legnano commissionata dal Teatro Argentina durante la breve Repubblica
Romana del 1849 – si sia preoccupato di «fare gli italiani» (ce ne è un accenno
nel secondo quadro dei primo atto di Simon Boccanegra). Indubbiamente,
per quanto avesse chiaro il senso dell’imprenditoria e del proprio
valore di mercato come autore apprezzato a livello internazionale, il suo
obiettivo non fu mai quello di «fare gli affari nostri» ma di operare, anche
nell’agroalimentare e nella professione, con quella che oggi verrebbe chiamata
una più vasta visione sociale. Inoltre, tutti sanno che finanziò di tasca
propria opere sociali importanti come la Casa di Riposo per Musicisti Anziani
a Milano e l’Ospedale a Villanova sull’Adda.
Nella seconda metà dell’Ottocento, che, grazie alla sua lunga avventura
terrena, Verdi visse non da comprimario ma da protagonista, molti si
proclamavano «liberali» ma a seguire principi liberali – ci insegnano gli
storici di quel periodo – erano davvero in pochi: non solo erano forti sia le
«vecchie regole» sia gli esponenti di piccoli e medi Stati che di liberale
avevano ben poco, ma già a pochi anni dalla proclamazione del Regno
d’Italia c’erano i germi di quello che sarebbe diventato il «trasformismo»
alla ricerca del potere per il potere.
Nell’analisi dei lavori per il teatro in musica successivi alla «trilogia
popolare», questo articolo tratta soltanto di un’opera che la precede: Stiffelio,
raramente rappresentato in Italia (anche se in questi ultimi anni si è
visto a Trieste, Parma e Catania), ma importante per comprendere il liberalismo
di Verdi.
Verdi imprenditore
Verdi è stato un prototipo di imprenditore liberale sotto due punti di
vista. Il primo, ed anche il più noto, è quello di imprenditore di se stesso,
un libero professionista abile negoziatore con i suoi clienti ma con occhio
sempre rivolto al resto della società – quella che oggi si chiama Corporate
Social Responsibility. Il secondo, meno noto, è quello di proprietario ma
anche guida di un’azienda agricola (quella di Sant’Agata) gestita con acume
e portata tecnologicamente all’avanguardia.
Cominciamo con questo, meno conosciuto ma più rivelatore, secondo
aspetto. Tra le iniziative prese in occasione del bicentenario della nascita
del compositore, ritengo di particolare rilievo i quattro seminari, organizzati
dall’Assessorato all’Agricoltura della Regione Emilia-Romagna, in
Musica e politica: il liberalismo di Giuseppe Verdi 199
collaborazione con le Facoltà di Agraria delle Università di Piacenza, Parma,
Modena-Reggio e Bologna, sul tema «Giuseppe Verdi, note di agricoltura».
Dagli incontri è emersa «la vicenda e la professionalità di un grande agricoltore
emiliano-romagnolo, profondamente legate alla sua terra e ai suoi
valori, dai quali trasse ispirazione» – ha spiegato l’assessore regionale all’agricoltura.
Un Verdi, per molti aspetti inedito a tutti coloro che non sono
studiosi del compositore. Tuttavia, un artista emiliano, Bernardo Bertolucci,
ha dedicato riferimenti a questi aspetti della figura di Verdi in alcuni
momenti del film da lui scritto e diretto nel 1979 La Luna, un lavoro «verdiano
» che ebbe maggior successo negli Stati Uniti anche in quanto interpretato
da una nota attrice statunitense (Jill Clayburgh).
In effetti, l’epistolario di Verdi rivela la passione del compositore per il
suo lavoro d’imprenditore agricolo e la sua incessante ricerca d’innovazione
tecnica ed organizzativa. Non è necessario cercare nella letteratura
musicologica più completa per leggere l’epistolario. È sufficiente fare riferimento
ad un volume tascabile Giuseppe Verdi: autobiografia dalle lettere,
curato da Aldo Oberdofer e pubblicato più volte da Rizzoli dalla prima
edizione del 1951 (con aggiornamenti). Uno dei capitoli centrali riguarda
come il compositore e Giuseppina Strepponi dedicassero tempo e passione
allo sviluppo della tenuta di Sant’Agata, gestendo con grande cura i rapporti
con gli amministratori ed i contadini, andando personalmente a verificare
ed anche dedicando tempo ed impegno a contrattare input (concimi,
insetticidi) e prodotti (bestiame, grano, vino). Specialmente, dando attenzione
a nuovi input ed a nuove combinazioni di rotazione colturali che facessero
aumentare produttività e rese.
Soprattutto, tra la Sant’Agata del 1848 e quella del 1890 non c’è nessuna
radicale modificazione ma un’evoluzione continua all’insegna del
progresso tecnico-organizzativo (oltre che della situazione finanziaria dei
Verdi). La villa diventa più bella, più accogliente, comoda, patriarcale,
stracolma di quelle che Antonio Fogazzaro avrebbe chiamato «le piccole
cose di pessimo gusto» tipiche della borghesia agiata di fine Ottocento. Non
è, e non vuole essere, un monumento rivolto all’eternità come la wagneriana
Wahnfried a Bayreuth. È funzionale ad un imprenditore che ha la propria
impresa in una piccola città bigotta e maldicente, attento al beneficio della
propria famiglia, specialmente quello che viene dall’innovazione tecnicoorganizzativa,
e che lui stesso saprà riversare su quella comunità che nei
confronti suoi e, soprattutto, di sua moglie ha spesso mostrato malcelata
invidia ed ostilità.
Ancora più importanti dell’epistolario, sono gli «appunti trascritti nel
copialettere», note che Verdi redigeva come promemoria per se stesso. In-
200 Giuseppe Pennisi
teressante l’evoluzione: dal primo appunto datato primo maggio 1848 – un
resoconto dettagliato di prestiti, e cambiali, da rimborsare, per l’acquisto
della prima parte della proprietà – agli ultimi a me noti (agosto 1865) sulle
«promesse» fatte al Sindaco per condividere con la comunità parte dei
profitti derivanti dai suoi beni dato che la collettività in cui era nato gli
aveva fornito, quando era giovane, i mezzi (una borsa di studio del Monte
di Pietà) per studiare. Si ha il ritratto di un imprenditore innovatore e consapevole
dei suoi doveri nei confronti della società, con il senso di quella
che, diversi decenni più tardi, gli ordoliberali tedeschi e svizzeri – avrebbero
chiamato «economia sociale di mercato».
Apparentemente differente, almeno ad una prima lettura, il Verdi che
traspare dall’epistolario con impresari ed editori. Domina la diffidenza, non
solo − come si è spesso scritto – di un «rurale» nei confronti di «uomini di
città», sempre timoroso che il mondo urbano degli affari possa defraudarlo
di ciò che gli spetta, che pensi ad ingannarlo, che congetturi di farsi ricco
sulle sue spalle. Leggendo con attenzione le lettere con impresari, editori,
e censori, c’è, però, qualcosa di più profondo (e con un ampio contenuto
liberale e sociale). Quando Verdi era agli inizi della carriera ed era costretto
a comporre opera dopo opera, spesso nel giro di poche settimane, nei
teatri (e nell’editoria musicale) vigeva il peggior malcostume: i lavori venivano
adattati secondo i vezzi (o anche i capricci) di impresari e di cantanti,
cambiando orchestrazione, ordine dei «numeri musicali», registri della
vocalità e pure i libretti. Il musicista era «scritturato» e, in quanto era stato
pagato, chi lo retribuiva poteva fare del suo lavoro ciò che voleva. La lunga
e defatigante lotta di Verdi con impresari ed editori (Ricordi lo comprese e
divenne suo sodale) ebbe importanti riscontri sociali: dalla puntigliosità con
cui venivano stilati i suoi contratti nacque il corpus giuridico della disciplina
dei diritti d’autore ancora essenzialmente in vigore. Dall’epistolario
traspare un professionista preoccupato per i colleghi in posizione contrattuale
più debole di lui, che, come scrisse, poteva permettersi di «non avere
riguardi per nessuno: la presidenza della Fenice, un editore, un impresario,
in questioni d’interesse stanno tutti sullo stesso piano». Un’idea per l’epoca
moderna, quasi smithiana, di mercato in cui le controparti sono sullo stesso
piano e tramite le loro contrattazioni «una mano invisibile» costruisce il
bene comune. Un liberalismo, quindi, profondo: in un mondo pieno di
asimmetrie posizionali e, soprattutto, informative, per essere efficiente ed
efficace, per non diventare un Far West o una giungla dove ha la meglio il
più forte, il mercato necessita regole: poche, chiare e trasparenti. Di questa
natura sono le regole a tutela dei beni pubblici in quanto indivisibili e non
rivali o dei beni sociali con forti effetti esterni.
Musica e politica: il liberalismo di Giuseppe Verdi 201
Quasi negli stessi anni, un altro artista italiano, privo di formazione
economica formale, proponeva un approccio simile: Alessandro Manzoni.
In quelle pagine de I promessi sposi in cui si raffronta il disastro della Lombardia
governata dagli spagnoli con un traboccare di regole non osservate
(le «grida») e la Repubblica Veneta (dove Renzo trovò rifugio) con poche
leggi ma chiare, note a tutti e generalmente condivise.
Stiffelio – la premessa del liberalismo verdiano
Stiffelio, composta per il Teatro Grande di Trieste dove ebbe la prima
il 16 novembre 1850, è opera poca nota, soprattutto in Italia. Non viene
quasi trattata nella raccolta di saggi verdiani di Massimo Mila. Viene sfiorata,
senza lodi (non credo che il musicologo, morto precocemente, la
abbia mai ascoltata), nel lavoro su Verdi di Claudio Casini. Ne tratta con
benevolenza Paul Hume, a lungo critico musicale del «Washington Post»,
nella sua monografia su Verdi. Ne fornisce un esame equilibrato Jacques
Bourgeois nel suo vasto lavoro sul compositore. Critici musicali italiani gli
preferiscono il rifacimento, intitolato Aroldo proposto sette anni più tardi
al Teatro Nuovo di Rimini; la trama veniva rimaneggiata, l’azione portata
dalla prima metà dell’Ottocento (quindi contemporanea come poco più
tardi quella de La traviata) al periodo delle crociate, veniva aggiunto un
atto. La ripresa in tempi moderni risale essenzialmente al lavoro infaticabile
di Lamberto Gardelli all’Opera Magiara di Budapest e ad un fortunato
bel disco realizzato con i complessi della radio austriaca e con due interpreti
di eccezione, nel fulgore delle loro capacità vocali: José Carreras e
Sylvia Sass. Da allora, l’opera è in repertorio in numerosi teatri stranieri
ma, che io sappia, in Italia è stata vista ed ascoltata dal vivo solo a Trieste
(ne esiste un buon Cd), Parma e Catania.
Composta con impeto, Stiffelio tratta di un tema insolito nella poetica
del compositore: il perdono. Si basa su un dramma francese Le Pasteur (Il
pastore protestante), sottotitolato L’Evangile et le Foyer (Il Vangelo ed il
focolare domestico) di Eugène Bourgeois ed Émile Souvestre, di successo
nella Parigi del Secondo Impero. In una piccola enclave protestante sul
Saar che attraversa la cattolica Baviera, al ritorno di un viaggio di lavoro
un Pastore, lo Stiffelio del titolo, scopre di essere stato tradito dalla moglie
Lina. La comunità la condanna, a cominciare dal padre della donna, e vorrebbe
un divorzio per colpa (e anche peggio). Ma durante il servizio domenicale,
Stiffelio sceglie le pagine del Vangelo sull’adultera e chiede implicitamente
il perdono degli uomini dato che Dio aveva già dato il suo. Nel
202 Giuseppe Pennisi
1850, Stiffelio venne presentata a Trieste, con un buon successo di critica
e di pubblico, ma l’editore Ricordi non osò portarla alla Scala (come inizialmente
programmato) e, come si è detto, venne rimaneggiata più volte a
ragione della censura: la versione più eseguita, intitolata Aroldo, sposta
l’azione in Terra Santa ai tempi delle crociate, il Pastore diventa un crociato
e si dilata l’intreccio. Perdendo il mordente dell’originale.
La partitura originaria era considerata persa. Oltre un secolo trascorse
perché il pubblico potesse nuovamente assistere all’opera. La partitura
venne ritrovata quasi per caso negli archivi del Conservatorio di Napoli.
Stiffelio debuttò nel 1968 proprio al Teatro Regio di Parma. Venne subito
apprezzato in Gran Bretagna e Germania, come un capolavoro dimenticato.
Il musicologo Julian Budden lo considera allo stesso livello della «trilogia
popolare» – che Stiffelio precede di alcuni mesi. È in repertorio in numerosi
teatri tedeschi ed americani, venne accolto trionfalmente a Londra nel
1993. L’opera ha momenti di grande presa sul pubblico (i concertati del
secondo e terzo atto), è breve e si basa su un libretto compatto.
In altra sede ho esaminato il significato di Stiffelio nell’ateismo dubbioso
e tormentato di Verdi. In questa sede è bene soffermarsi sul «liberalismo»
del lavoro e sugli aspetti di innovazione musicale.
In primo luogo, è di ambientazione contemporanea. Ciò era estremamente
insolito all’epoca. O meglio lo si accettava in Francia ed in Gran
Bretagna, ed anche in Italia, nei teatri di prosa ma non nel teatro in musica:
si ricorderà che tre anni dopo la prima di Stiffelio a Trieste (porto principale
dell’Impero asburgico e per questo motivo città realmente internazionale),
La Fenice chiese a Verdi di spostare l’azione de La traviata dalla contemporaneità
alla Francia del Settecento («Nuova Antologia», anno 149,
fascicolo 2269). In secondo luogo, il lavoro giustappone due mondi: quello
della piccola, gretta e vendicativa comunità protestante (guidata dal rigidissimo
suocero del protagonista) e Stiffelio che sa di avere trascurato la
moglie (in quanto troppo assorbito dalla propria attività professionale e
religiosa) ed avere forse contribuito al tradimento. La responsabilità individuale
viene contrapposta alle regole comunitarie e agli ipocriti perbenismi.
Una visione liberale della vita e della società.
Sotto il profilo musicale, la vocalità del tenore è imperniata sul registro
di centro, distante quindi sia dai tenori «lirici» delle opere giovanili sia dai
tenori «spinti» (come il Manrico del Trovatore). Anticipa il Verdi maturo di
Un ballo in maschera e soprattutto di Otello. E soprattutto i tenori pucciniani.
Per questo motivo, è stata negli anni Settanta e Ottanta un cavallo di
battaglia di Placido Domingo, José Carreras e (in Italia e Germania) dell’allora
giovane Mario Malagnini. Il soprano è quasi privo di coloratura; una
Musica e politica: il liberalismo di Giuseppe Verdi 203
linea vocale purissima accompagnata, nel momento cruciale del confronto
con il marito che ha tradito, unicamente dal corno inglese.
Vengono, poi, abbandonate «convenzioni» come il coro introduttivo:
dopo una ouverture di prammatica in cui si intrecciano le melodie dell’opera,
c’è una breve aria cromatica del basso – che precede di decenni il wagneriano
Tristan und Isolde. La scena finale non è il concertato abituale di
metà Ottocento ma una chiusura secca e netta dove al declamato del tenore
fa da contrappunto la polifonia del coro. Insomma, un lavoro di straordinaria
modernità e carico di innovazione – troppa per essere compresa e
assaporata nell’Italia di metà Ottocento.
Les Vêpres Siciliennes e Simon Boccanegra
Les Vêpres Siciliennes, scritta su commissione dell’Opéra di Parigi,
dove debuttò nel 1855, viene spesso immaginata come opera densa di pulsioni
liberali ed anche risorgimentali. Nulla di più errato. Il libretto, già
utilizzato per Il Duca d’Alba di Gaetano Donizetti (opera rimasta incompleta,
ma terminata da un suo allievo e portata in scena per la prima volta
al Teatro Apollo di Roma nel 1882 – si ricorda una magnifico allestimento
negli anni migliori del Festival di Spoleto), di risorgimentale non ha nulla:
il lavoro era stato commissionato dai Teatri Imperiali di Napoleone III, non
certo un fautore dell’Unità d’Italia ma difensore ufficiale del dominio temporale
della Chiesa. In tempi non sospetti, Leonardo Sciascia, che di vicende
siciliane se ne intendeva, dimostrò che il racconto di Michele Amari
sulla rivolta antifrancese in occasione dei «vespri pasquali» del 1282 era
pura leggenda, alimentata nel Risorgimento per trovare tracce antiche
nell’orgoglio antistraniero di una Sicilia che, invece, esprimeva ed esprime
un mix di culture, etnie e tradizioni ed ha sempre avuto la caratteristica di
essere molto tollerante nei confronti del resto del mondo. Al mito, Verdi e
i suoi librettisti si riallacciano unicamente nel titolo e nell’ambientazione,
un Medioevo bizantino da grand opéra. Mentre ne Il Duca d’Alba c’era la
rivolta delle Fiandre contro la dominazione spagnola, il tema de Les Vêpres
Siciliennes è il tormentato rapporto tra padre e figlio analizzato nel fascicolo
2266 della «Nuova Antologia».
Negli ultimi anni, si è vista solo a Napoli (e trenta anni fa a Bologna)
un’edizione originale in francese, completa di balletto e con scene e costumi
ispirati a mosaici medioeval-bizantini (l’azione si svolge, come si è detto, nel
1282). Nel 1997 a Roma è stata presentata un’edizione integrale dell’opera,
ma la si era ambientata nel 1855 e le si era data una inutile patina risorgi-
204 Giuseppe Pennisi
mentale. Di recente, a Parma e Torino si sono viste versioni senza balletto,
piene di tagli e con una vecchia improbabile traduzione ritmica: nell’allestimento
emiliano, trite convenzioni di situare la vicenda nel Risorgimento,
ancora peggio a Torino, dove i «vespri» venivano ambientati all’inizio del
1990, tra le stragi di mafia, la caduta di Craxi e l’avvento di Berlusconi. I
meriti del lavoro sono essenzialmente musicali; può essere considerato il
prototipo del grand opéra padano (di autori come Ponchielli, Rossi, Marchetti,
Gabatti, Gomes) che ebbe una breve stagione di successo a fine Ottocento,
quando si propose come alternativa al melodramma verdiano, ma
venne presto travolto dalla veemenza di Cavalleria rusticana di Mascagni e
dal verismo e dall’espressionismo che ad essa fecero seguito. Il liberalismo
di maniera gli è stato appiccicato successivamente da registi poco accorti.
In effetti, la prima vera opera liberale di Verdi è quasi coetanea de Les
Vêpres Siciliennes ed ha anche essa un ambientazione medioevale, pur se
non in un Paese occupato da stranieri, ma in una Repubblica marinara
(Genova) dove sono in lotta varie fazioni: guelfi e ghibellini, aristocratici e
popolani. È Simon Boccanegra, andata in scena il 12 marzo 1857 a La
Fenice, ma generalmente nota nella versione, fortemente rimaneggiata, sia
nel libretto sia nella musica, approntata per la Scala dove ebbe la prima il
24 marzo 1881. Ne esiste una terza versione presentata, adattando la partitura,
per mano dello stesso Verdi, per Reggio Emilia, Milano, Napoli e
Firenze nel 1858-59. Questa versione (quasi sconosciuta in Italia) è stata
presentata in forma di concerto nel 2001 dalla BBC, quando, in occasione
del centenario della morte del compositore, la radio britannica produsse
l’integrale dei lavori verdiani; tale versione è ancora più cupa di quella che
non ebbe l’esito sperato a La Fenice.
Per decenni Simon Boccanegra è stata una delle più «maledette» tra le
«opere maledette» di Giuseppe Verdi. Ripensata, con l’aiuto di Arrigo Boito
che rimise mano a parti essenziali del libretto, fu un successo di breve
durata quando la versione adesso corrente raggiunse la Scala nel 1881.
Nell’ultimo scorcio dell’Ottocento e nella prima metà del Novecento, man
mano che avanzava il verismo, venne dimenticata; l’opera in cui Verdi contrastava
il cupo mondo della politica con l’arioso liberalismo dell’uomo di
mare veniva rifiutata proprio dall’Italia liberale che stava transitando dalla
«Destra storica» al «trasformismo».
Gino Marinuzzi, consapevole che si trattasse di un capolavoro unico
nel teatro verdiano, tentò di rilanciarla, a Roma, nel 1934. Senza, però,
grandi esiti; era troppo liberale per un’Italia che si apprestava a diventare
un velleitario Impero. Da allora, Boccanegra ha ripreso un lento cammino,
giungendo alla consacrazione internazionale all’inizio degli anni Settanta
Musica e politica: il liberalismo di Giuseppe Verdi 205
grazie a due edizioni eccellenti, ma molto differenti: quella di Gianandrea
Gavazzeni, tragica, cupa, quasi infernale (tutta ancorata quindi sul giogo
della politica), e quella di Claudio Abbado, invece dolce, densa di colori
chiari e di volumi leggeri (impareggiabili le evocazioni marine del Doge
rimasto uomo di mare e che, prima di morire, al mare ed alle sue libertà
desidera tornare) che in un allestimento indimenticabile di Strehler e Frigerio
ha viaggiato il mondo (anche Londra, Parigi, Mosca, Washington e
Vienna) ed è disponibile in CD e in video. La «maledizione» di Boccanegra
è da imputarsi ad un libretto intricatissimo ed ad una partitura bifronte,
rivolta in parte verso il passato ma anche lanciata verso l’avvenire (si
pensi all’impiego dei fagotti e del clarinetto basso, inconcepibile senza
l’esperienza wagneriana).
Sfoltito da tutti i ciarpami tipici del melodramma, Boccanegra altro non
è che un sofferto apologo. Il «corsaro» Simone, uomo del mare, quindi libero
ed essenzialmente liberale, è costretto ad entrare in politica nella
speranza di potere così sposare la donna amata, di stirpe patrizia. Diventa
Doge ma la sua donna muore e la loro figlia viene rapita. Per un quarto di
secolo esercita il potere diventando sempre più solo, e sempre più lontano
dal suo mare. Quando ritrova la figlia e quando scopre affetto paterno per
il giovane di cui lei è innamorata, è troppo tardi: il gioco del potere lo annienta,
mentre sta per riavvicinarsi al suo mare.
A questo dramma, per così dire, «privato», se ne affianca uno «pubblico
»: la lungimiranza politica del pur sempre liberale (anche se Doge) Boccanegra.
Il suo appello in favore della fine delle guerre tra Genova e Venezia
non è compreso né dai patrizi né dai plebei, ma innesca l’intrigo di
malintesi e di tradimenti che porta alla catarsi finale, illuminata dalla speranza
che suo genero, diventato, nei sentimenti, suo figlio adottivo, potrà
continuare sul suo cammino.
È una delle opere più apertamente «politiche» di Verdi. Le diverse
versioni di Boccanegra e l’epistolario del maestro di Busseto, rivelano come
Verdi diventasse progressivamente deluso da una «politica politicante».
Boccanegra (i cui temi «politici» verranno ripresi in Don Carlo e in Otello)
svela un rapporto tormentato con la politica analogo a quello che Verdi
ebbe per decenni con la religione: la visione a lungo raggio della Politica
con la «P» maiuscola e i programmi per realizzarla vengono bloccati da una
politica con la «p» minuscola ridotta ad intrighi.
A trent’anni circa dall’edizione del 1971, Abbado ha rivisitato Simon
Boccanegra. L’allestimento gustato a Firenze, al termine del sessantacinquesimo
Maggio Musicale, nasce a Salisburgo nel 2000. La regia (Peter
Stein) e l’impianto scenico (Stefan Mayer) sono molto differenti di quelli
206 Giuseppe Pennisi
di Strehler e Frigerio; allora, in un gioco di luci, dominava la brezza marina,
mentre nel 2000 elementi scenici essenziali e la recitazione raffinata contrappuntavano
l’apologo del potere nel viaggio di Simone verso la morte.
Nel 2012, Riccardo Muti, a 71 anni, si è, per la prima volta, cimentato
nell’opera: ha offerto un Boccanegra per molti aspetti simile a quello del
2000 di Abbado. Una tinta orchestrale cupa ammorbidita dal richiamo alle
onde del mare, che per il protagonista vuole dire libertà.
Un ballo in maschera e le due versioni de La forza del destino
Siamo in piena lettura politica, e politica liberale. Un ballo in maschera,
la cui prima assoluta avvenne al Teatro Apollo di Roma il 17 febbraio
1859, pochi mesi prima della proclamazione del Regno d’Italia ed i plebisciti
per l’adesione al nuovo Regno da parte dei piccoli Stati che costellavano
la Penisola. È noto che il libretto, tratto da Antonio Somma da Gustave
III ou le Bal Masqué di Eugenio Scribe, era imperniato su un regicidio
avvenuto nel Settecento nella lontana Svezia dove il re era stato ucciso
durante una festa a Palazzo a causa di una congiura in cui era coinvolto il
suo fidatissimo capo di Gabinetto, convinto che il sovrano ne corteggiasse
la sposa. Venne rifiutato da vari teatri, tanto più nel 1857 Felice Orsini
aveva tentato di far saltare con una bomba la carrozza con la quale Napoleone
III si recava all’Opéra. Lo accettò la censura papalina, guidata dal
poeta Giuseppe Gioacchino Belli (molto attento, si dice, al «suona di quel
metallo») che richiese di spostare l’intreccio nella lontana Boston coloniale.
Richiesero che la vicenda venisse portata nella lontana America ed il «morto
ammazzato» fosse semplicemente un conte, governatore del Massachusetts.
Questa premessa è importante perché registi e scenografi, secondo il
vostro chroniqueur, dovrebbero una volta per tutte abbandonare Boston,
gli indiani e tutta l’iconografia da Mayflower in cinemascope che, per una
stupidità censoria di oltre un secolo e mezzo fa, accompagna Un ballo in
maschera. Lo si dovrebbe concedere solo all’Arena di Verona a ragione
dello smisurato palcoscenico da riempire con Sioux e pionieri e da trasformare
una festa da ballo in un Carnevale di Rio. La vicenda di Un ballo è
essenziale: in una Corte, o società, essenzialmente amorale, un uomo probo
si innamora, carnalmente, della moglie del suo migliore amico; ne è ricambiato;
uomo e donna si spiegano senza mai sfiorarsi; ma per una serie di
circostanze ed equivoci, il marito che si crede tradito (senza esserlo) uccide
il proprio il più caro amico. Il libretto è contorto, ma la musica lo trasfigura:
un caso che accomuna Un ballo con le opere più belle e più sofferte di
Musica e politica: il liberalismo di Giuseppe Verdi 207
Verdi (quali Simon Boccanegra). L’azione si svolge quasi interamente sul
boccascena, ma dai due lati spettatori/comparse assistono e partecipano ai
momenti di massa. La prima romana de Un ballo ha luogo solo pochi mesi
da quella, a Rimini, del rifacimento di Stiffelio, il primo eroe liberale – si è
visto – nella poetica di Verdi.
In Un ballo sia il protagonista che il suo amico ed assassino appartengono
alla culturale liberale di metà Ottocento ma si scontrano con il contesto:
una Corte frivola ed intrigante in cui, da un lato, gli strumenti brillanti
– flauto, ottavino ed oboe – punteggiano gli svolazzi della leggerezza
mondana (e fondamentalmente cinica) mentre i timbri gravi dei clarinetti,
dei fagotti, delle viole e, soprattutto, dei violoncelli indicano il dramma che
si prepara e lo scollamento anche in un contesto di una Corte che nel primo
quadro ha tutta l’apparenza di un paternalismo illuminato. Viene riscoperto
il «soprano di coloratura» del Settecento e dei primi decenni dell’Ottocento
e giustapposto ad un soprano drammatico e ad un mezzo soprano in
grado di scendere a registri da contralto per meglio far avvertite il contrasto
tra i due mondi. Il mondo fatuo di una Corte (vista da Verdi con occhi severi)
si insinua anche nell’ultimo duetto tra il Re/Conte e la sua innamorata,
un tempo di minuetto, durante la festa a Palazzo (che i tedeschi correttamente
chiamano Todesminuett, minuetto di morte), in cui si avverte il
brivido angoscioso della tragedia imminente.
Numerosissime le edizioni di Un ballo messe in scena di recente – in
una stagione ben quattro fondazioni liriche presentarono quattro nuovi
allestimenti dell’opera. In alcune viene ambientato in Svezia, in altre nella
Boston coloniale, in altre ancora in Pomerania, nonché in epoca moderna
(l’America dell’assassinio di Robert F. Kennedy a Dallas) e contemporanea.
In effetti, quelli che più rispecchiano lo spirito del lavoro hanno scene dipinte
o proiettate che ricordano la Vanvitelliana Regia di Caserta o Versailles,
più che la Boston dei pionieri o la Svezia o l’età moderna e contemporanea.
Un Ballo ha tra i suoi temi fondanti (oltre a quelli dell’amicizia virile
e della carnalità) il disprezzo per un potere politico (pur illuminato) che
va verso la propria distruzione con un Todesminuett, non certo un buon
augurio pochi mesi prima della proclamazione del Regno d’Italia. Il Verdi
agricoltore, imprenditore e libero professionista quasi presagiva che i nuovi
assetti (Secondo Impero francese seguito da Terza Repubblica, Impero
tedesco, anche Regno d’Italia) sarebbero avvenuti al costo di perdita di libertà
– quella che aveva fatto vagare il compositore ed il suo editore Ricordi
da città a città per ottenere il visto di censura per Un ballo, facendolo
infine suggellare nel luogo più improbabile, la Roma di Pio IX e di Giuseppe
Gioacchino Belli.
208 Giuseppe Pennisi
Cosa c’è di Verdi «liberale» nell’opera successiva, La Forza del Destino,
tratta da un «drammone» spagnolo del 1835 considerato il capolavoro del
Duca de Rivas (molto rappresentato nell’Europa del romanticismo e da
alcuni pure paragonato a Shakespeare) e composta su commissione del
Teatro Imperiale di San Pietroburgo dove debuttò il 10 novembre 1862
(quasi subito dopo la proclamazione del Regno d’Italia)? Molto poco se si
segue l’edizione, ormai di riferimento, messa a punto per la prima al Teatro
alla Scala il 27 febbraio 1869, dopo numerosi rimaneggiamenti nella scrittura
musicale e vocale nonché nello stesso libretto. Tra il 1863 ed il 1865,
l’opera, nella versione di San Pietroburgo ancorché in traduzioni ritmiche
nella lingua del teatro in cui veniva rappresentata, venne messa in scena a
Madrid, Roma, Nizza, Torino e Reggio Emilia. Ho avuto la fortuna di conoscere
la versione originale in una tournée del Teatro Mariinsky di San
Pietroburgo a Roma e di possederne un raro ma prezioso Dvd.
Il rifacimento per la Scala ha una conclusione spirituale (la redenzione
del protagonista, Alvaro), adottata sotto il presumibile influsso di Alessandro
Manzoni), «un’autentica reverenza all’autore de I Promessi Sposi» ha
scritto Casini. Non solamente la versione originaria del 1862 è più ruvida
e più schietta, ha meno elementi di grand opéra padano e sembra a tratti
anticipare l’espressionismo. Ha un chiaro protagonista assoluto: un «diverso
» (meticcio in un mondo di spagnoli durante la guerra tra Spagna e Austria
per il dominio dell’Italia), ma profondamente onesto (in un mondo cupo in
cui i rapporti umani sono continuamente messi a repentaglio dal «destino»,
l’aristocrazia è macera, e si inneggia alla morte), un eroe byroniano che
trova nel suicidio l’unica via d’uscita da un mondo che non lo accetta.
Don Carlos e Don Carlo
Ad essere puristi occorre distinguere tra Don Carlos in cinque atti, in
francese e con lunghi ballabili, composto per Parigi dove andò in scena l’11
marzo 1867 e i Don Carlo in italiano, di cui uno molto compattato (e senza
ballabili) approntato per la Scala nel 1884 ed un terzo in cinque atti (in
cui si riprendeva l’edizione parigina ma in traduzione ritmica e molto scorciata)
andato in scena a Modena nel 1886. Considererei definitiva l’edizione
di Modena (che tra l’altro viene regolarmente eseguita al Metropolitan
di New York ed al Covent Garden di Londra) anche se in Italia è entrata
nell’uso (anche per ragioni di costo) la versione scaligera del 1884. Si vedrà
tra breve, proprio nel tempio della lirica milanese l’edizione proposta da
Antonio Pappano al Festival di Salisburgo 2013, coprodotta non con altri
Musica e politica: il liberalismo di Giuseppe Verdi 209
teatri lirici ma con alcune importanti reti televisive; la versione in cinque
atti viene presentata non secondo la stesura approntata per Modena nel
1886, ma in una prossima a quella composta per la prima parigina del 1867.
Don Carlo, l’opera forse più squisitamente politica di Giuseppe Verdi,
mostra il decadimento degli Asburgo nel passaggio da Carlo V (sempre
presente in spirito ma mai sul palcoscenico – non si sa se è morto o se si è
invece celato al mondo, nel Monastero di San Giusto) a Filippo II in contrasto
con il Grande Inquisitore e con il proprio figlio – per l’appunto l’infante
Don Carlo il cui destino resta misterioso nell’affascinante ambiguo
finale dell’opera (si rifugia a San Giusto, ma non è chiaro se finirà nelle
mani del Grande Inquisitore o, riuscirà, a porsi a guida della rivolta nelle
Fiandre contro il Duca d’Alba e lo strapotere spagnolo).
Don Carlo è la grande «incompiuta» di Giuseppe Verdi. Lo è più di
altre sue opere più volte rielaborate nel corso degli anni quali Macbeth,
Simon Boccanegra, La Forza del Destino e Stiffelio. È la sola che non ha
avuto una versione definitiva se non si considera tale quella «di Modena»
del 1886; l’ur-Don Carlo parigino richiede circa sette ore di spettacolo, include
mediocri ballabili; i tentativi di riesumarla, in lingua originale e con
il lungo (25 minuti) ballo del terzo atto, trentacinque anni fa a Boston (grazie
a quella diavoloccia di Sarah Caldwell), un quarto di secolo fa a La Fenice
ed una quindicina di anni fa a Torino (nonché in disco per la bacchetta
di Claudio Abbado) sono stati deludenti e costosissimi: nella «prima»
parigina del 1867, per esempio, vennero predisposti ben 535 costumi di cui
240 nuovi di zecca e 118 modificati dallo stock esistente nei magazzini del
teatro. Nella versione «della Scala» del 1884 si perde, musicalmente e drammaticamente,
l’atto di Fontainebleau, premessa essenziale, e fortemente
politica, della vicenda e, soprattutto, momento onirico di ricerca dell’utopia.
In questo primo atto, il giovane Don Carlo s’innamora, nella foresta
imbiancata dalla neve, della giovanissima Elisabetta di Valois, ma non sa
che essa è destinata in sposa a suo padre, Filippo II, proprio per rispondere
ad un disegno geopolitico di integrazione economica, strategia e culturale
(si badi ai richiami, nel secondo quadro del secondo atto, alle «canzoni
saracene» ed all’eleganza e modernità nella lontana Parigi). Sotto il profilo
musicale, le tre versioni del Don Carlo sono tavolozze di un percorso tra il
melodramma (quale codificato, proprio da Verdi, a metà Ottocento) e il
dramma in musica compiuto quale è Aida, pur realizzata 14 anni prima del
Don Carlo modenese e solo un lustro dopo quello parigino. Delle tre versioni,
la parigina è la più incompiuta: ha pagine bellissime (espunte dalle
altre) quali il coro dei contadini e quello dei cacciatori ma anche lunghe
sezioni in cui Verdi ha forse composto bendato (il ballabile La Perégrine).
210 Giuseppe Pennisi
La versione «di Milano» è la più compatta ma l’afflato geopolitico assume
un ruolo secondario rispetto al complicato intreccio di amori, di politica
di Palazzo e di ragione di Stato. La versione «di Modena» è la più
matura; ripristina l’atto di Fontainebleau; taglia i ballabili; ritocca qua e là
il resto dell’immensa partitura con il senno che Verdi aveva nel 1886. L’ho
vista al Metropolitan, nonché a Roma alla fine degli anni Ottanta e a Firenze
una decina di anni fa.
Nelle versioni del 1867 e del 1887 l’accento è sul quadro politico entro
cui viene inserita la complessa vicenda amorosa. Tale quadro ha più livelli.
In primo luogo, il contrasto tra la Francia elegante e almeno all’apparenza
libera e con un forte senso sociale e la Spagna oppressiva. Nell’atto di Fontainebleau
(il primo), la Principessa di Francia cede ai contadini stremati
per la fame il proprio collare d’oro perché possano acquistare ciò di cui
necessitano; in quelli successivi in Spagna giungono echi di tornei e balli
alla Corte di Francia e di un notevole grado di indipendenza di giudizio. In
Spagna, invece, il potere politico è ossessivo ma è controllato da una potenza
ancora peggiore, il Grande Inquisitore cieco ed a capo di una Chiesa che
tutto controlla, invia al rogo eretici ed al capestro eredi al trono ingombranti.
In questo quadro, Don Carlo ed il suo amico Don Rodrigo tentano di
portare libertà, per le Fiandre, ma anche per loro stessi e per la Regina. Don
Rodrigo viene fatto uccidere dal Grande Inquisitore che anche vorrebbe «un
doppio sacrifizio» (di Don Carlo e della Regina). Ma il finale resta aperto.
La scrittura musicale e vocale ha poco o nulla di quello che sarebbe
stato il grand opéra padano, preannunciato da Les Vêpres Siciliennes e da
La Forza del Destino. Si giustappongono un mondo chiuso, triste, decadente
ed ossessivo con una giovinezza piena di speranze (che non vengono
però realizzate). Si va verso il «dramma in musica», recependo la tecnica
wagneriana dei leitmotive. Nel 1874, Verdi era diventato Senatore del Regno,
incarico che – lo dicono a tutto tondo le lettere – mai lo appassionò. Le
varie versioni di Don Carlo contrassegnano anche la progressiva disaffezione
dalla vita politica di un agricoltore e professionista di sentimenti liberali.
A mio avviso, questa spiegazione ha anche un connotato più profondo.
Il Verdi «liberale», come si è visto in precedenza, apparteneva a quella
«Destra storica» che poteva vantare di avere al suo attivo numerose realizzazioni:
l’unificazione del Regno tramite l’annessione di Venezia e di
Roma, l’inizio della rivoluzione agricola (a cui il compositore era molto
sensibile), il raggiungimento nel 1876 del pareggio contabile di bilancio.
Questa fase si stava esaurendo. La sinistra di Depetris stava per andare al
Governo e stava iniziando il «trasformismo» con il trasferimento di singoli
deputati e gruppi di deputati da uno schieramento all’altro. Un mondo
Musica e politica: il liberalismo di Giuseppe Verdi 211
che è nel fondale degli intrighi di Un ballo in maschera e di Don Carlo.
Un mondo molto distante da quello di Verdi che considerava la lealtà la
sua religione di vita.
Aida e Otello
Riconciliatosi con la Scala nel 1869, le sue ultime opere vennero destinate
al tempio milanese della lirica dove il «trasformismo», pure grazie a
«el dinè» (il denaro per la compravendita di deputati), si avverte come, o
se non più che a Roma. Solamente Aida ha la propria prima mondiale al
nuovo Teatro dell’Opera del Cairo.
Siamo usi a versioni spettacolari dell’opera. In effetti, sempre per ragioni
contrattuali, il lavoro doveva seguire il grand opéra francese, con ben
tre balletti. Dimentichiamo che il Teatro del Cairo (dove ebbi modo di assistere
a rappresentazioni nel gennaio 1969, prima dell’incendio e della
costruzione di una nuova modernissima struttura) era una sala all’italiana
(con quattro ordini di palchi e due barcacce) per circa 600 posti. Un teatro,
quindi, relativamente piccolo, di dimensioni analoghe, per intenderci, a
quelle del Teatro Valle di Roma (a cui assomigliava sotto il profilo architettonico).
Quindi, Aida ha solo aspetti esteriori che possono renderla un grand
opéra. È, invece, essenzialmente un dramma in musica in cui gli stessi balletti
si fondono perfettamente con il resto della partitura e la cui musica
può essere eseguita pure senza corpo di ballo (come in un’edizione curata
da Franco Zeffirelli nel 2001 per il piccolo Teatro Verdi di Bussetto e vista
in varie città italiane ed una curata negli anni Settanta da John Dexter per
il Metropolitan di New York e portata in tournée negli Stati Uniti ed in
Canada). Tranne un concertato (al fine del secondo atto) ha una struttura
musicale intimista, su una base di un sinfonismo continuo. Raramente sono
in scena più di tre personaggi e sovente un duetto diventa un terzetto.
Al pari di Simon Boccanegra, di Un ballo in maschera e di Don Carlo,
una vicenda privata (quasi intimista) si inserisce in un quadro politico. È
un quadro politico in cui tutti tradiscono tutti (Amneris inganna Aida per
carpirle informazioni sulla sua relazione con Radames; quest’ultimo, a sua
volta, viene indotto da Aida e da Amonasro a rivelare un importante segreto
militare). In questo modo, come in Don Carlo, neanche il potere politico
ha la potestà che ci si attenderebbe: sullo stesso Faraone incombono i sacerdoti
che, soli, possono decidere su tutto e su tutti.
Il quadro lascia anche meno speranze, ad un liberale della «Destra
storica», con Otello del 1887, anno in cui Crispi, dopo avere severamente
212 Giuseppe Pennisi
criticato il «trasformismo» di Depretis, si unì a quest’ultimo per motivi di
puro potere e prestigio personale. Sotto il profilo musicale, Otello supera
definitivamente il melodramma in tutte le sue forme ed i suoi accenti e lo
stesso grand opéra in tutte le sue declinazioni. È il dramma in musica lanciato
verso l’avvenire. Sotto il profilo drammaturgico, la fusione tra vicenda
individuale e contesto politico è perfetta. Iago è il trasformista per eccellenza,
centrale a tutti gli intrighi.
Interessante, ed eloquente, un allestimento che ha debuttato a Dresda
nel 2012 e che ho visto a Bucarest nel 2013. È il frutto del lavoro di tre
donne: Vera Nemirova (regista quarantenne bulgara nota per la sua Lulu
di alcuni anni fa a Salisburgo e per come, venendo dal teatro sperimentale,
ha ammodernato la drammaturgia di molti teatri tedeschi, specialmente
quello di Francoforte), Kery-Lynn Wilson (maestro concertatore quarantacinquenne
che in Italia «sfondò», quando dovette sostituire Sinopoli in
un Lohengrin a Firenze) e Viorica Petrovici (scenografa e costumista stabile
del Teatro d’Opera della capitale romena, ma di provenienza dalla
scultura astratta). È un Otello che ha fatto arricciare il naso ad alcuni critici
musicali italiani in sala, ma che ha entusiasmato una platea dove molti
giovani erano presenti in sala. In essenza, il Palazzo del Governatore
della Repubblica Serenissima sembra un CIE (Centro Identificazione e
Espulisone di immigrati) dei giorni nostri. Otello e Desdemona sono «diversi
» dagli altri abitanti di Cipro perché vengono da Venezia e hanno
esperienze di vita differente di quelle di chi è da anni residente di un’isola
diventata approdo di migranti. Con Emilia, moglie di Iago, Desdemona si
dedica a portare acqua e cibo ai nuovi arrivati e a giocare con i bambini,
nonché a calmare le tensioni nel campo (il balletto nel primo atto è un’ubriacatura
in cui guardie e migranti riempiono i loro stomachi di vino e tentano
di molestare le donne). In questo ambiente, così lontano dalle gerarchie
militari in cui Otello è sempre vissuto, vengono alla luce tutte le debolezze
del protagonista; l’insularità del luogo ne accentua la solitudine e, quindi,
la nevrosi. Non riesce a gestire il campo (e per questo nel terzo atto è rimosso
dall’incarico dal potere politico della Repubblica). Gestisce ancora
peggio il proprio privato e cade nelle trappole che gli tende Iago quando
comprende di avere tra le mani un’arma mortale che può ripagarlo delle
proprie frustrazioni di militare di carriera fallito. È un Otello il cui contesto
sociale (aristocrazia in smoking e militari in alta uniforme, immigrati vestiti
come straccioni) è chiarissimo e accentua una tragedia privata in cui
nell’ultima scena Iago trafigge Emilia e appare nel palco di proscenio come
unico, diabolico vincitore. Un quadro devastante anche dell’Italia «trasformista
» e con protopulsioni imperiali del 1887.
Musica e politica: il liberalismo di Giuseppe Verdi 213
Falstaff
Quando Verdi, ottantenne, presenta, il 9 febbraio 1893, Falstaff alla
Scala – un vero e proprio trionfo replicato poche settimane dopo a Roma
–, il clima politico-sociale non era migliorato, anche se c’era stato in alcune
parti del Paese indubbio progresso economico. I testi di storia ricordano
che l’antica distinzione tra destra e sinistra si era affievolita quasi a
sparire del tutto. Da un lato, a livello intellettuale si affermavano teorie
delle élite (Turiello, Mosca, Pareto). Da un altro, si chiedeva un più esplicito
intervento della monarchia, rendendo i Governi responsabili verso il
Re, non più verso il Parlamento. Da un altro ancora, avanzano gli antiparlamentarismi
sia di destra sia di sinistra. È l’Italia degli «affari nostri» che
si è ricordata in precedenza e che esplodeva, con lo scandalo della Banca
Romana, proprio mentre Verdi completava Falstaff, mettendo a nudo la
corruzione nella comunità finanziaria ed industriale, negli organi preposti
al controllo e nella vita politica.
A differenza delle opere dei venticinque anni precedenti, Falstaff non
ha come tratto fondente l’individuo (alla ricerca di maggiori spazi di libertà)
schiacciato dalla politica e dal clero. È una commedia in musica, una
delle maggiori dell’Ottocento. Anche se le foto ed i bozzetti delle «prime»
a Milano ed a Roma mostrano un apparato scenico in stile elisabettiano,
l’intreccio e la musica parlavano ai contemporanei. L’intreccio è un continuo
gioco tra finzione e realtà, tra inganno e burla. Nella musica, domina il
contrappunto, viene recuperata la fuga e le arie in senso stretto vengono
utilizzate per un vecchio liberale ormai in disarmo (Quand’ero paggio) e
per un giovane a cui nonostante tutto arride la speranza di un mondo migliore
(Dal labbro il canto estasiato vola). Il finale è scherzoso ma cinico:
(Tutto nel mondo è una burla).
La contemporaneità della critica politica sociale di Falstaff, il quadro
impietoso di una società dove tutti si ingannano l’un l’altro e non c’è neanche
più il timore della politica e della chiesa, spiega perché in recenti
produzioni non si ritorni all’ambientazione elisabettiana come in famosi
allestimenti di Giorgio Strehler, Franco Zeffirelli e Richard Eyre. Numerose
produzioni paiono prendere l’ispirazione dallo spettacolo di Marco
Arturo Marelli, in scena dal 2003 alla Staatsoper di Vienna: la vicenda è
portata nella Gran Bretagna pettegola degli anni Cinquanta (quella dello
«scandalo Profumo»). In una recente edizione scaligera, Robert Carsen
vede Falstaff come una commedia sociale, raccontata con uno sguardo
molto acuto, e molto critico, sulla alta borghesia. Nella produzione da
qualche mese in scena a Berlino, Christoff Loy prende a prestito l’idea
214 Giuseppe Pennisi
iniziale dell’allestimento di Damiano Michieletto al Festival di Salisburgo
2013: Falstaff si svolge ai giorni d’oggi nella casa di riposo per musicisti
anziani creata da Verdi a Milano. Mentre però in Michieletto il gioco era
poco convincente (come far sprizzare eros a Fenton e Nannetta se sono
due vecchietti?), Loy ha un’idea geniale: man mano che interpretano l’opera
gli anziani della casa di riposo ringiovaniscono (o credono di ringiovanire).
Un vero omaggio alla sempiterna giovinezza della musica. Loy, al
pari di Carsen, pone l’accento su una caratteristica poco notata del Falstaff:
è un’opera molto sensuale. In effetti, eros e sensualità che nel teatro musicale
italiano dell’Ottocento erano stati cacciati dalla porta maggiore
(salvo rientrare dalla finestra in La traviata ed in Un ballo in maschera)
stavano diventando di nuovo proprio centrali sulla scena. La prima di
Manon Lescaut di Giacomo Puccini (che trasuda eros da ogni nota) precede
di nove giorni quella del Falstaff.
Per interpretare l’opera come una celebrazione dei sensi vengono inserite
situazioni in cui si mangia e si beve e soprattutto ci si spoglia. Nello
spartito ci sono spesso parti in cui i personaggi cantano insieme o si parlano
quasi addosso: anche questa caratteristica riporta all’idea di festa, in cui
spesso ci si intrattiene in allegria. Un eros libero e liberale che viene contrapposto
alla società dell’imbroglio, sotto parvenze puritane.
Giuseppe Pennisi

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