Piccole ma deboli,
ecco le pmi italiane
Numeri, confronti in Europa e considerazioni non
troppo incoraggianti su un rapporto Ocse sulle piccole e medie imprese
A conclusione della “settimana europea delle Piccole e
Medie Imprese”, il 9 settembre il ministro dello Sviluppo economico, Federica
Guidi, ha presentato uno studio OCSE sulle PMI italiane, che Formiche.net è
in grado di offrire ai lettori nel testo integrale di 220 pagine di grande
formato ed a stampa fitta (link in fondo all’articolo).
I documenti – lo sappiamo – vanno letti con attenzione.
Soprattutto se, come questo, sono il primo esempio di una “peers review”, ossia
di un confronto tra vari Paesi OCSE in materie delle loro rispettive PMI,
prendendo come metro di giudizio i punti di forza e di debolezza delle PMI di
un Paese rispetto a quelli delle altre.
Ciò è particolarmente importante per l’Italia in cui
se per PMI si utilizza il parametro internazionale di meno di 250 addetti, le
PMI rappresentano il 99% delle unità produttive, l’80% dell’occupazione ed il
67% del valore aggiunto. Riescono, poi, a resistere anche in periodi di crisi
(o almeno “così pare”, direbbe Dante) nonostante i canali creditizi siamo
aperti (più o meno) quasi esclusivamente per le 3500 “grandi” (ossia con più di
250 addetti) imprese del Paese.
In base a una tradizione molto radicata che risale al
libretto di E.F. Schumacher del lontano 1973 e che, in Italia, è stata
rafforzata per tanti anni dalle analisi del CENSIS e più recentemente dalle
posizioni della Fondazione Edison, i commenti al lavoro apparsi su alcuni
giornali mettono l’accento sulla “ricchezza” ed “energia” delle PMI italiane.
Nella presentazione del volume – nell’elegante Parlamentino del Ministero dello
Sviluppo Economico, peraltro affollatissimo nonostante il caldo asfissiante –
la “vitalità” e la “forza” delle PMI è stata riallacciata alla creatività e
alla imprenditorialità del Rinascimento (affossata dalla Riforma, come ci
insegnano i libri di Luciano Pellicani sulla genesi del capitalismo).
Il testo del documento è molto più equilibrato. Dall’incipit
pone l’accento, non solo sulle virtù delle PMI (e sulla modernizzazione del
quadro regolatorio effettuata in questi ultimi anni) ma anche sulle loro
“debolezze”: la proporzione di uomini e donne italiani che decidono di
diventare imprenditori è inferiore alla media OCSE (alla faccia del
Rinascimento!), il 95% delle imprese italiane sono non PMI ma “micro aziende”
con meno di dieci addetti ciascuna (la percentuale più alta nell’OCSE) ed
esiste un vasto settore informale in cui le divisioni tra PMI, micro-aziende,
attività a-legali e pure illegale sono incerte ed offuscate. Soprattutto, le
PMI (con la loro elevatissima componente di micro aziende e i loro confini poco
trasparenti con a-legale ed illegale) hanno bassa produttività; il loro ruolo nel
sistema economico italiano ha l’effetto di abbassare la produttività media del
Paese con le conseguenze che conosciamo su crescita, export, finanza pubblica,
debito pubblico e via discorrendo. Inoltre, nonostante editoriali idilliaci
sulla “distruzione creatrice” schumpeteriana secondo cui ad una PMI che muore
ne corrisponderebbe una più forte che nasce, il documento dimostra che
dall’inizio della crisi il 74% delle PMI sono deceduta ed il 64% nate – prova
difficilmente controvertibile della fragilità del comparto. Il lavoro –
attenzione- è anche il frutto di un’attenta azione diplomatica: non è
improbabile che le versioni iniziali fossero più crude.
Il rapporto contiene una serie di raccomandazioni e
proposte sensate: misure per aumentare le dimensioni d’impresa e porre
l’accento sulle PMI ad elevata produttività, migliorare la formazione
professionale, aprire accesso al credito o ad altre forme di finanziamento per
il miglioramento ed ampliamento delle PMI. Sono raccomandazioni e proposte
ineccepibili da includere nella normativa annuale sulle PMI.
Tuttavia, occorre accantonare una volta per tutte il
“poema paradisiaco” secondo cui la crescita italiana sarebbe trainata dalle
PMI.
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