Se l’Eurozona dei bilanci
parla già in tedesco
Giuseppe Pennisi
DI
Quando si apriva il cantiere dell’euro, economisti e politologi
di varie scuole (Alberto Alesina, Martin Feldstein,
Enrico Spolaore, Romain Wacziarg) indicarono che sarebbero
sorti conflitti a ragione della creazione di un’unione
economica e monetaria tra Paesi profondamente diversi
per struttura economica e propensioni al risparmio, nonché
avvezzi a politiche economiche molto differenti. Alcuni congetturavano
addirittura che le tensioni avrebbero provocato
guerre non solo economiche, ma anche militari.
Fortunatamente non si è giunti a tanto, o meglio: non ancora.
I conflitti su come affrontare il nodo del debito sovrano in
Europa, tuttavia, indicano un confronto economico molto
serrato. Cosa lo determina e quali sono i suoi effetti?
Il debito sovrano è la punta di un iceberg molto vasto e molto
profondo. Dalla fine del ventesimo secolo l’Europa non ha
più il monopolio del progresso tecnologico condiviso per circa
150 anni con gli Stati Uniti. È in atto un profondo riassetto
dell’economia mondiale: mezzo miliardo di uomini e donne
sono usciti dalla povertà assoluta grazie a strutture di produzione
e livelli di consumo impensabili sino a trent’anni fa.
Gli Stati Uniti danno prova di una buona dose di “efficienza
adattiva” (di sapersi ricollocare nel nuovo contesto). L’Europa,
specialmente l’Eurozona, non ha invece ancora trovato una
risposta condivisa. Al contrario, le euro–differenze si stanno
acuendo.
Un libro di Anke Hassel, una delle maggiori economiste europee
della giovane generazione (”The Paradox of Liberalization
– Understanding Dualism and the Recovery of the German
Political Economy”) illustra le trasformazioni realizzate
oltre Reno per rispondere al nuovo contesto mondiale. Dimostra,
in particolare, come sono state guidate da una coalizione
di leader industriali e sindacali (specialmente
di imprese orientate all’esportazione)
che hanno metabolizzato il significato
dell’integrazione economica
internazionale e come sono andate avanti
nonostante il cambiamento dei governi
(dal “rosso–verde” di Schröder, alla
“grande coalizione” di Merkel, fino
all’alleanza democristiana–liberale
ancora di Merkel).
Quindici anni di profonde riforme
pongono oggi la Germania, e un piccolo
gruppo di Paesi satelliti, in una
posizione che in Europa (e nel mondo)
non questa potenza non aveva dai
tempi di Bismarck. Gran parte degli altri Paesi hanno
piuttosto seguito strategie “difensive”: invece di “aggredire”
la nuova situazione mondiale (peraltro ancora in corso
di definizione) si sono posti l’obiettivo di tutelare i propri
modi di vivere, le proprie prassi, le proprie tradizioni. Mostrando
poca “efficienza adattiva”. Quindi, in Europa ci sono,
da anni, politiche economiche divergenti.
L’effetto più appariscente è l’aggravarsi del debito sovrano
dove si sono seguite strategie “difensive”. Quello più concreto
è la stagnazione di un’Eurozona in gran misura integrata,
ma i cui protagonisti seguono ancora politiche economiche
che si neutralizzano a vicenda. La domanda di fondo è: sarà
possibile uscire da questa crisi, teatro e frutto di grandi operazione
offensive a carattere speculativo, con un accordo in
cui si ipotizza che, nel giro di un lustro o poco più, gli Stati cosiddetti
“difensivi” dovranno ribaltare le loro economie come
un calzino, come ha fatto la Germania? Il dubbio è lecito, considerato
che Berlino ci ha messo vent’anni. E gli attacchi all’irresoluta
Europa, ormai, si susseguono
senza sosta.
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