Non conviene tagliare
E l’Asia emergente investe nel teatro
Molti teatri d’opera attraversano una difficile crisi finanziaria. Specialmente in Italia e in particolare i più importanti. Nel 2010, ultimo esercizio per il quale si dispone di dati, soltanto tre delle tredici fondazioni liriche (che gestiscono teatri come La Scala, il San Carlo, l’Opera di Roma, il Massimo di Palermo) hanno chiuso i loro bilanci consuntivi in attivo. Leggermente migliore la situazione dei 28 «teatri di tradizione», in città oggi di media importanza, ma che in passato furono capitali di granducati, ducati, e pure piccoli regni. Sono finanziati principalmente dagli enti locali — gravano sul Fondo Unico per lo Spettacolo (Fus), unicamente per il 4 per cento circa del totale del fondo medesimo — le risorse statali sono meno della metà del finanziamento complessivo. Le imprese, spesso dell’area, forniscono mediamente il 24 per cento delle risorse totali per il loro funzionamento. Numerosi «teatri di tradizione» hanno formato efficienti circuiti per condividere i costi delle produzioni. La loro situazione debitoria è sotto controllo, con qualche eccezione.
Nonostante alcune recenti inchieste giornalistiche presentino una situazione rosea nel resto d’Europa, la riduzione dei finanziamenti pubblici alle arti dal vivo — conseguenza delle politiche di bilancio per contenere disavanzi e ridurre il debito pubblico — sta incidendo anche su Paesi con profonda e diffusa cultura musicale come la Germania. A Berlino si discute se porre sotto un’unica gestione i tre maggiori teatri d’opera del Land allo scopo d’effettuare economie. In Francia, dove il finanziamento pubblico ai teatri d’opera è rimasto tendenzialmente costante tra il 2000 e il 2009, dal 2010 sono in atto restrizioni.
Negli Stati Uniti, il quadro è marcatamente differenziato. A New York da una parte la Metropolitan Opera sta ottenendo nuovo pubblico e nuovo supporto (privato) grazie all’utilizzazione di tecnologie avanzate che consentono dirette in alta definizione in 1.700 cinema in tutto il mondo (60 in Italia), dall’altra la New York City Opera, travolta dai debiti, ha una stagione di pochi titoli in sale secondarie. Ad ogni modo nel 2010 (anno di crisi economica) negli Stati Uniti ci sono state ben dodici prime mondiali di lavori spesso tratti da romanzi o anche film di successo (quali Il giardino dei Finzi Contini e Il postino).
In Asia, invece, il mercato è in piena espansione: sono stati completati nuovi teatri a Pechino, Shanghai, Hong Kong, Singapore; altri sono in costruzione; il pubblico, anche giovane, gareggia per riempirli. Non fanno difetto i finanziamenti, sia pubblici sia privati.
Questa rapida carrellata ripropone non solo gli ormai frequenti interrogativi sui problemi delle fondazioni liriche italiane (caratterizzate da alti costi e bassa produttività) e su come sanarli, ma domande (poste peraltro di rado) sul ruolo del teatro in musica nello sviluppo economico.
La storia economica riconosce che ci sono stati periodi e Paesi — la Gran Bretagna nella prima metà del Settecento, Venezia nel Seicento, Italia e Germania nell’Ottocento in generale — in cui l’opera lirica non è stato un fardello per le casse dello Stato ma un comparto remunerativo per chi vi investiva e che, tramite l’imposizione fiscale, contribuiva alla finanza pubblica. Di norma, però, l’impressione generale è che «la musa bizzarra e altera» (secondo l’acuta definizione del musicologo tedesco Herbert Lindenberger) sia stata offerta dal principe o considerata come «bene posizionale» di comunità affluenti e in gara tra loro per prestigio e sfarzo. Ciò spiega, ad esempio, il pullulare di teatri lirici in regioni italiane relativamente piccole (come l’Umbria e le Marche) ma con città molto competitive.
Nella letteratura convenzionale, il teatro d’opera è stato in certi periodi l’uovo che nasceva da galline prospere: ossia in aree già sviluppate sotto il profilo economico e sociale. Questa tesi viene ribaltata da un interessante studio di Olivier Falck (dell’Ifo, il maggior centro di ricerca economica della Repubblica Federale), Michael Fritsch (dell’università di Jena) e di Stephan Heblich (del Max-Planck-Institut) e pubblicato dall’Iza (l’istituto tedesco di studi sul capitale umano) come Discussion Paper No. 5065.
Il lavoro utilizza una complessa strumentazione statistica per studiare i nessi tra musica lirica e sviluppo utilizzando come campione ventinove teatri costruiti in età barocca in differenti località di un’area che va dalla Renania alla Silesia (regione oggi parte della Polonia). La ricerca impiega una vasta gamma di indicatori per comprendere se i teatri sono stati localizzati in aree già in fase di sviluppo prima della decisione di costruirli (l’ipotesi dominante) o se invece, nati in contesti non più avanzati della media dell’area di espressione tedesca, abbiano innescato un processo di espansione economica. I dati disponibili permettono di affermare che Trier, Bautzen, Stralsund, Rostock, Dessau, Passau, Regensburg — per non citare che alcuni dei luoghi dove sono localizzati teatri del campione — non avevano indici di sviluppo economico e sociale migliori del resto dei territori di quello che sarebbe diventato nel 1870 l’impero tedesco. In molti casi, nel periodo precedente la costruzione e la messa in funzione del teatro esponevano indicatori inferiori alla media.
L’analisi non si limita a offrire una fotografia di quella che era la situazione quando la comunità decise di darsi un teatro con le caratteristiche specifiche per rappresentare opere liriche. Affronta il tema centrale: se e perché il teatro ha contribuito allo sviluppo della zona circostante.
Alla prima domanda, i dati forniscono una risposta positiva. Per affrontare la seconda, lo studio fa ricorso alle scuole economiche più recenti relative allo sviluppo endogeno e al capitale umano. In gran parte delle 29 aree, l’esistenza del teatro dedicato alla musica ha comportato, da un lato, una concentrazione di capitale umano (lavoratori specializzati, musicisti, orchestrali, cantanti) e, da un altro, un’apertura al resto del mondo (tramite le compagnie di giro impiegate per numerosi spettacoli). In effetti, il capitale umano attira altro capitale umano e avvia e sostiene il processo di sviluppo.
Questo chiarisce che la decisione dell’Asia emergente di investire in teatri d’opera è razionale anche dal punto di vista strettamente economico e non solo culturale. Alla luce delle conclusioni dello studio, forse andrebbero riconsiderate le poliche di restrizione al supporto pubblico di teatri d’opera. Soprattutto nei confronti delle realtà efficienti in termini di costi e produzione.
Giuseppe Pennisi, Presidente del Comitato tecnico-scientifico per l’economia della cultura (ministero italiano dei Beni e delle Attività culturali)
21 gennaio 2012
[parola chiave: Arte e cultura | Economia e Finanza]
Giuseppe Pennisi insegna economia all’Università Europea di Roma, è Consigliere del Cnel e presiede il Comitato Tecnico-Scientifico per l’Economia delle Cultura al Ministero dei Beni e delle Attività Culturali.
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