Euro, ecco il cambio effettivo che frena l’Italia
l’analisi
Sopravvalutando la moneta unica, si è in realtà aggravato il disavanzo commerciale del nostro Paese
DI GIUSEPPE PENNISI
S aranno le liberalizzazioni appena approvate dal Consiglio dei ministri in grado di rimettere in marcia l’I¬talia, ossia di riportarci, senza essere ec¬cessivamente ambiziosi, a quel tasso di crescita del 2,5% che dovrebbe essere «normale» per un’economia matura ed a demografia anziana come la nostra?
Dall’inizio degli Anni Novanta il tasso di aumento del Pil è o raso¬terra oppure negativo.
Nella Repubblica Ceca , in alcune imprese ad alta tecnologia, la liberalizza¬zione delle reti ha porta¬to ad aumenti di produt¬tività sino al 38% (come hanno documentato in u¬no studio Jan Bema e E-vangelia Vourvache del¬l’Università di Praga). Possiamo sperare su qualcosa che vada alme¬no nella stessa direzione? Il problema per l’Italia è quello che gli economisti Emmanuel Farhi e Gita Gopinath dell’Università di Harvard e Oleg Itskhoki dell’Università di Prince¬ton hanno dimostrato in uno studio d’imminente pubblicazione e che sarà di certo all’attenzione dell’Ecofin: anche all’in¬terno di un’Unione mo¬netaria ci possono essere «fiscal devaluations», in parole povere «svaluta¬zioni » della stessa mone¬ta.
Le politiche economiche possono por¬tare cioè ad «apprezzamenti» e «deprez¬zamenti » con perdita di competitività e freni alla crescita.
Nel caso dell’Italia il problema, rispetto al resto dell’Eurozona, viene da lontano. Al¬meno dalla fine degli Anni Ottanta. Biso¬gna allora fare un salto indietro nel tem¬po.
Allora vigevano gli accordi europei di cambio (una rete di intese e prestiti reci¬proci tra Banche centrali colloquialmen¬te chiamata Sme) e le monete di chi fa¬ceva parte dell’intesa fluttuavano del 2.25% attorno a 'parità centrali' (il tasso di cambio gestito collegialmente). La lira italiana e la peseta spagnola potevano fluttuare del 6%, poiché Italia e Spagna avevano una maggiore propensione al-l’inflazione e mantenevano restrizioni va¬lutarie. Nel dicembre 1989 venne annun¬ciata l’abolizione delle ultime barriere va¬lutarie e simultaneamente l’ingresso del¬la lira della fascia 'stretta' dello Sme.
Buon senso avrebbe richiesto di atten¬dere qualche mese tra l’abolizione delle restrizioni valutarie e l’ingresso della fa¬scia stretta al fine di toccare con mano quale fosse il cambio della lira che i mer¬cati considerassero espressione e delle parità di potere d’acquisto (quanto, cioè, con 10mila lire si poteva comprare nel re¬sto del mondo) e del valore della valuta estera.
In breve: l’Italia si «auto-sovrapprezzò» con le sue mani, tanto che quando il 17 settembre 1992 sospese temporanea¬mente l’applicazione degli accordi di cambio la lira fece un tonfo del 30%. Non potemmo però che tornare al cambio del primo gennaio 1990 quando, a fine 1996, rientrammo nello Sme allo scopo di fare parte della «pattuglia di testa dell’euro». Non avevamo altra scelta: le regole di Maastricht congelavano i cambi al 1990. Dal 1990 non solo l’Italia non cresce, ma la quota del nostro Paese sull’export mon¬diale si è contratta dal 6% a meno del 3%. Il «sovrapprezzamento», infatti, si è ina¬sprito da quando siamo entrati nell’Eu¬rozona (vedi grafico a fianco, ndr ). Una determinante è data dai conti pubblici, un’altra dalla dinamica salariale. Conse¬guenza immediata: l’inasprirsi dei conti con l’estero e l’aggravarsi del disavanzo commerciale. Un problema non solo no-stro ma, in vario modo, di tutti i Paesi me¬ridionali dell’Eurozona. Il disavanzo com¬porta un aumento più rapido (che in al¬tri Paesi) del credito totale interno e, quin¬di, una maggiore inflazione.
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