TEATRO REGIO DI PARMA/ Aida e quel sogno d'Egitto di fine Ottocento
Giuseppe Pennisi
giovedì 26 gennaio 2012
Immagine d'archivio
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Si apre il sipario venerdì 27 gennaio sulla Stagione Lirica 2012 del Teatro Regio di Parma, che inaugura con Aida, nel sontuoso spettacolo ideato da Alberto Fassini per il Festival Verdi e riproposto dal regista Joseph Franconi Lee, con la giovane bacchetta di Antonino Fogliani sul podio dell’Orchestra e del Coro del Teatro Regio di Parma.
Dopo il debutto e una serie di recite a Parma sino all’11 febbraio, la produzione sarà, sino a fine marzo, a Reggio Emilia e a Modena - un’ottima idea in questi periodi di ristrettezze finanziarie e di esigenze di sinergie ed economie.
Con le scene e i costumi creati da Mauro Carosi, le luci firmate da Guido Levi e le coreografie immaginate da Marta Ferri, a dar vita alla locandina del lavoro verdiano saranno Carlo Malinverno (Il re d’Egitto), Mariana Pentcheva (Amneris), Susanna Branchini (Aida), Walter Fraccaro (Radamès), Giovanni Battista Parodi (Ramfis), Alberto Gazale (Amonasro), Yu Guanqun (Sacerdotessa) e Cosimo Vassallo (Messaggero). Maestro del Coro è Martino Faggiani.
È un allestimento che non può non piacere a chi ama i film di Cecil B. DeMille; scene grandiose, danze spettacolari e quant’altro in un Egitto visto come poteva immaginarlo Giuseppe Verdi nella tenuta di Sant’Agata attorno al 1870.
«Ho letto il programma egiziano. È ben fatto; è splendido di mise en scène, e vi sono due o tre situazioni, se non nuovissime, certamente molto belle. Ma chi l’ha fatto? Vi è là dentro una mano molto esperta, abituata a fare, e che conosce molto bene il teatro». Così scriveva Verdi in una delle lettere che avviano il progetto di comporre una nuova opera su invito del Viceré d’Egitto, progetto che si concretizzerà con il varo di Aida al Teatro del Cairo, il 24 dicembre 1871, coronato da un enorme successo, destinato a ripetersi nei teatri di tutto il mondo.
«Mostrare l’Egitto non è un compito facile perché le sole testimonianze che abbiamo di questa civiltà riguardano la cultura funeraria – ci dice il regista John Franconi Lee. Le piramidi erano tombe e a questo noi associamo la millenaria civiltà egiziana. Anche Verdi ha immaginato una tomba dove far concludere il dramma. Così questa Aida comincia e finisce in un clima tenebroso, sepolcrale. È un’opera tutta interni, un’opera notturna, dove in molti quadri prevale un blu profondo, cobalto. La scena disegnata da Carosi è divisa in due livelli a separare due mondi, quello dei forti e quello dei vinti. A questi due, già previsti da Verdi, ho aggiunto un terzo livello che si spinge sul proscenio, dove i personaggi svelano il loro lato più umano, più intimo».
In effetti, il vostro “chroniqueur”, melomane errante dall’età della pubertà (o giù di lì), ha avuto modo di assistere a una rappresentazione al Teatro dell’Opera del Cairo nel lontano gennaio 1969, in occasione del centenario dell’apertura dell’edificio – un grazioso teatro all’italiana di 700-800 posti con tre ordini di palchi e barcacce, distrutto da un incendio all’inizio degli Anni Settanta. La prima impressione che dava il teatro era il suo carattere intimo (e un’acustica magnifica, ai livelli di quel prodigio che è il Massimo Bellini di Catania). Lo stesso palcoscenico era poco profondo e con un boccascena di dimensioni tutt’altro che grande; se sulla scena le masse (coro e comparse) potevano essere una cinquantina, il golfo mistico poteva ospitare 50-60 orchestrali al massimo.
Una visita, anche una sola, al teatro che l'ha commissionata rende immediatamente evidente che l’”Aida” (quale pensata da Verdi) era molto differente dai magniloquenti allestimenti correnti. Lo chiarisce la lettura della partitura: un esempio, non si richiedono quattro (o addirittura sei) arpe, ma due (di cui una in scena, in modo in effetti da potere essere suonate da una sola arpista). “Aida” è, in effetti, un’opera intimista (anche se le scene a due o tre personaggi sono incastonate in momenti corali) .
È la prima delle tre opere “perfette” di Verdi, che non aveva ancora assistito al “Lohengrin”, ma aveva già superato il melodramma e si era posto su un sentiero non molto differente dal musikdrama wagneriano: flusso orchestrale ininterrotto nelle sette scene (ma divise in “numeri”), equilibrio mirabile tra golfo mistico e voci, integrazione completa dei ballabili nelle singole scene, impiego del declamato, e utilizzazione di motivi conduttori in forma non mnemonica, ma sintattica (si pensi alle “riprese” del notturno d’archi ascoltato inizialmente nel preludio e ripetuto, con varie modificazioni, in più momenti dell’opera).
Una decina d'anni fa, la Fondazione Toscanini porta in giro un’”Aida” quasi come la avrebbe voluta Verdi; il “quasi” è d’obbligo a motivo di alcuni tagli ai ballabili (per ragioni di economia e di trasportabilità). L’allestimento era nato da un’idea geniale di quel diavolaccio di Franco Zeffirelli (autore di regia e scene; i bei costumi sono di Anna Anni). Scene dipinte di un Egitto vagamente art déco, una recitazione accuratissima da parte di un cast giovane (se ne alternano tre) scelto tramite una selezione internazionale, cinquanta brillanti (e giovani) orchestrali, danze ridotte al minimo.
Non era un “Aida” iconografica: punta sul dramma d’amore e gelosia (con un Amneris principessina capricciosa e impudente) più sul contesto politico-spettacolare. Questa lettura fa sì che si comprenda ciascuna parola (anzi ciascuna intonazione) di un libretto meno banale di quanto presentato nella vulgata su Verdi. E lontana dal “colossal” che si vedrà a Parma, Modena e Regio Emilia.
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