martedì 31 gennaio 2012

L’AIDA A PARMA MENTRE TREMANO TERRA E LOGGIONE In Il Riformista 1 febbraio

L’AIDA A PARMA MENTRE TREMANO TERRA E LOGGIONE
Beckmesser
Ci sono almeno quattro buone ragioni per occuparsi dell’”Aida” che ha debuttato a Parma la sera del 27 gennaio. E’ una coproduzione di tre tra i maggiori “teatri di tradizione” emiliani (Parma, Modena, Reggio Emilia) in linea con quanto auspicato più volte da questa testata (da ultimo nell’analisi sulla situazione finanziaria dei teatri lirici su “Il Riformista” del 15 gennaio) e viaggia sino ad aprile. Riprende un bell’allestimento di Alberto Fassini con scene di Mauro Carosi piene di riferimenti all’ Oriente “visionario” di Gustave Moureau, aggiornandolo (a cura di Joseph Franconi Lee) per tenere conto delle letture più recenti sul carattere intimista dell’opera. A questi due elementi di efficienza (di cui ci auguriamo si tenga conto nell’allocazione del Fondo unico per lo spettacolo), si aggiunge un coro magnifico (guidato da Mauro Carosi) e tre interpreti su quattro (Susanna Branchini , Alberto Gazale e Marianna Pentcheva) di alto livello. Il Radamès di Walter Fraccaro è partito bene nel primo atto con una buona Celeste Aida ed ha retto con efficacia il secondo atto. Ma nel terzo, è parso nel panico (nonostante sia un veterano del ruolo) di fronte ad una scrittura vocale peraltro impervia; nel quarto, ha messo in difficoltà la Pentcheva nel duetto in cui, ai suoi urli sopra le righe e non intonati, lei ha sparato un superacuto mai previsto da Verdi. Il loggione del Regio non ha fatto sconti. Pure Antonino Fogliani (alla guida dell’orchestra) ha ricevuto, al calar del sipario, qualche contestazione: un po’ eccessive perché il giovane concertatore ha mantenuto bene l’equilibrio tra buca e scena (a tre livelli) senza però entrare nelle finezze della raffinata scrittura orchestrale verdiana.
Poche ore prima dello spettacolo a Parma ci sono state forti scosse di terremoto che hanno innervosito artisti e pubblico. Non solo. I sismologi locali hanno previsto una scossa di assestamento più o meno durante il quarto atto. Non ha tremato la terra; lo ho fatto il loggione.

Ecco la “guerra” che scuote l’Europa in Il Sussidiario 31 gennaio

Ecco la “guerra” che scuote l’Europa
Giuseppe Pennisi
martedì 31 gennaio 2012
Infophoto
Approfondisci
FINANZA/ Pelanda: Italia, ecco come evitare il suicidio
GEOFINANZA/ Ping pong Ue-Usa: l’euro è salvo, ma…, int. a G. Credit e M. Lira
vai al dossier Crisi o ripresa?
vai allo speciale Euro e Italia: quale destino?
L’Unione europea (Ue) raggiunge un accordo sul nuovo “patto di bilancio”, che rafforza la disciplina imponendo regole di rigore comuni sui conti, e sulla crescita e l’occupazione, ma perde pezzi per strada. L’intesa sul nuovo “Fiscal compact” è stata raggiunta, dopo un negoziato piuttosto serrato, solo da 25 stati membri: oltre che la Gran Bretagna - fuori fin dall’inizio - a sorpresa anche la Repubblica Ceca non ha sottoscritto l’accordo, pur precisando che potrebbe ritornare sui suoi passi. Mentre la dichiarazione conclusiva sulla crescita e l’occupazione è stata approvata da tutti, tranne la Svezia il cui premier che guida un governo di minoranza, “per ragioni parlamentari”, non è stato in grado di sottoscriverla.
Tutti e 27 hanno invece firmato l’intesa sul nuovo fondo salva-stati Esm. Il pareggio di bilancio diventa una “regola d’oro” per i 25 paesi dell’Ue che accettando il nuovo Patto hanno acconsentito a inserire l’obbligo dell’equilibrio dei conti nelle Costituzioni nazionali o in leggi equivalenti e si sono impegnati a fare scattare sanzioni “semi-automatiche” in caso di violazione. Gli Stati che hanno un debito superiore al tetto del 60% sul Pil si sono impegnati inoltre a un piano di rientro pari a 1/20 l’anno, tenendo però conto - come chiesto dall’Italia - dei fattori attenuanti già previsti dal six-pack, il pacchetto di disposizioni sulla nuova governance economica. L’accordo sul nuovo Patto è stato tenuto in sospeso per alcune ore dalla Polonia, che - contestata dalla Francia - chiedeva di partecipare a tutti i summit dell’Eurogruppo. Alla fine ha prevalso un compromesso: gli eurosummit sono stati portati da due ad almeno “tre” l’anno, e uno di questi sarà aperto ai paesi non-euro. Il compromesso non è però bastato a Praga, che ha anche problemi interni.
I leader riuniti a Bruxelles, paralizzata dalla prima neve e da uno sciopero generale contro l’austerità, hanno dato il via libera alla creazione del fondo salva-stati permanente Esm, che dal primo luglio sostituirà quello provvisorio Esfm, rinviando però al vertice del primo di marzo la decisione sulle risorse (500 miliardi, come vorrebbe la Germania, o almeno 750 come chiedono altri paesi, Italia inclusa, la Commissione e il Fmi). E hanno discusso di crescita e di occupazione perché - hanno scritto nelle conclusioni – “stabilità finanziaria e consolidamento di bilancio” sono “condizioni necessarie per la crescita, ma non sufficienti”.
“Bisogna fare di più affinché l’Europa superi la crisi”, affermano i leader. La difficoltà della Grecia a raggiungere un accordo con i creditori privati e le polemiche suscitate dal documento tedesco che chiede un commissariamento di fatto di Atene, sono stati i convitati di pietra: la questione è stata discussa “informalmente” a cena, dopo voci non confermate che si sono rincorse per tutto il pomeriggio su un nuovo summit dell’Eurogruppo l’8 febbraio interamente dedicato al caso greco.
Il presidente della Commissione Ue ha presentato un rapporto dettagliato sulle prossime tappe per la crescita e l’occupazione che abbonda di freccette e grafici, ma scarseggia di risorse. Bruxelles è pronta però ad accelerare l’impiego dei fondi europei non spesi: un tesoretto di 82 miliardi entro il 2013, di cui 8 miliardi per l’Italia, che dovranno essere destinati a progetti di creazione di posti di lavoro soprattutto giovanile. Barroso ha proposto di inviare un team di esperti della Commissione in Italia e in altri sette Paesi ad alta disoccupazione, tra cui Grecia e Spagna, che lavorerà con governi e parti sociali per valutare progetti di lavoro anche con l’aiuto dei fondi Ue non spesi.
La diplomazia italiana apparentemente festeggia anche perché il Presidente dell’Eurogruppo ha dato pacche sulle spalle al programma del Governo Monti, ma in cuor suo non è lieta del giudizio di Moody’s sugli effetti recessivi delle misure sino ad ora adottate. Neanche il monitoraggio speciale dell’Italia e di altri sette Stati Ue ad alta disoccupazione è motivo di orgoglio per Roma (nonostante si faccia di tutto per presentarlo come un apporto positivo).
Come al termine di ogni vertice europeo, ci sono le buone notizie, il cui risvolto sono cattive notizie. La buona notizia è che, con scioperi a catena e “indignati” che stanno mettendo a ferro e fuoco alcuni capitali europee, i leader europei hanno metabolizzato che con l’austerity non si risolve il problema del debito sovrano e si mette a repentaglio l’esistenza stessa dell’Unione europea. Il nodo non è soltanto e principalmente politico e sociale, ma anche e soprattutto economico: non si può pensare di ridurre il rapporto debito/Pil senza crescita economica e agendo principalmente sulla leva tributaria che, invece, aggrava le recessione in atto. Lo affermano a tutto tondo economisti di ogni scuola. Nicolas Véron del pensatoio Bruegel sottolinea che la stessa Germania è diventata, come si dice nel gergo giornalistico italiano, “sviluppista” - ossia favorevole a una politica europea di crescita.
Il brutto risvolto è che, finito il sogno (del vertice di Lisbona del marzo 2000) di fare diventare l’Ue “l’area più dinamica del mondo” grazie a una massiccia infusione di tecnologia e anche allontanando (pare per sempre) il miraggio di “Europa 2020”, ciascun gruppo di Stati ha un’idea ben differente di cosa si debba intendere per “politica e strategia di crescita”.
Per la Germania non si tratta di aumentare il gettito tributario e la spesa pubblica, ma al contrario di far fare marcia indietro all’intervento pubblico (e alla spesa a esso conseguente) e indurre le economie più deboli, tra cui quella italiana, ad adottare riforme strutturali per aumentare produttività e competitività sulla linea di quelle applicate nella Repubblica federale tedesca negli ultimi vent’anni. Per la Francia, la crescita richiede impedire “la concorrenza sleale”di Stati anche dell’Ue a bassi salari e tutela sociale, “armonizzare” i sistemi tributari (prendendo come base di riferimento quello in vigore nell’Esagono) e impedire alla Gran Bretagna di porre sul proprio sistema bancario regole tale da renderlo più sicuro di quello d’Oltralpe.
Per la Gran Bretagna, la Svezia, la Danimarca e gli altri Stati del Nord Europa, la fonte della crescita deve essere l’aumento della concorrenza e un migliore funzionamento del mercato unico, nonché il perseguimento di accordi per la liberalizzazione del commercio con il resto del mondo. Per molti Stati neo-comunitari il segreto della crescita consiste in maggiori trasferimenti dalle istituzioni Ue alle loro casse. Per l’area mediterranea, le ricette divergono anche all’interno dello stesso gruppo di Stati tra varie combinazioni di liberalizzazioni e, al tempo stesso, di ritorno in auge delle partecipazioni statali del non lontano tempo che fu.
In breve, una vera e propria Babele di lingue e di idee. The Economist ha ricordato che in questo bailamme non si riesce neanche a definire in quale lingua, o in quali lingue, redigere i brevetti europei (una risposta dovrebbe arrivare, secondo quanto deciso a Bruxelles, entro giugno). E senza brevetti europei è difficile pensare a una politica europea della scienza e della tecnologia e, quindi, a una politica industriale europea. Un rapporto della Banca mondiale diramato alla vigilia del vertice tenta di essere ottimista sul futuro dell’Europa, ma non cela che senza una drastica riduzione del settore pubblico (e della spesa a esso attinente) difficilmente il continente vecchio potrà avere tassi di crescita tali da consentirle sviluppo dell’economia reale nella stabilità finanziaria.

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lunedì 30 gennaio 2012

Al Teatro dell'Opera la bambola misteriosa in Il Sussidiario 30 dicembre

Roma
COPPE'LIA/ Al Teatro dell'Opera la bambola misteriosa
Giuseppe Pennisi
lunedì 30 gennaio 2012
Coppelia
Approfondisci
TEATRO REGIO DI PARMA/ Aida e quel sogno d'Egitto di fine Ottocento
OPERA/ Una Carmen semplice, come la voleva Bizet
È alla Scala sino al 5 febbraio, ma arriva a Roma il 3. Ovviamente in due edizioni totalmente differenti. Alla Scala è in scena “Les Contes de Hoffman”, capolavoro incompiuto di Jacques Offenbach in cui “Coppelia” la bambola meccanica cha danza, canta e soprattutto seduce è la protagonista del primo dei tre atti.


A Roma, arriva Coppélia. balletto pantomimico di Léo Delibes in tre atti, su libretto di Charles Nuitter e Arthur Saint-Léon. Ambedue i lavori hanno la loro origine in un racconto del proto-romantico poeta e scrittore tedesco E.T.A Hoffmann, Der Sandmann.


Ma il trattamento è molto differente. Nell’opera di Offenbach, la vicenda è vista con un sogno sofferto: l’amore impossibile del protagonista per una donna che si rivelerà essere una bambola. Negli altri due atti dell’opera, d’altronde, Hoffman è alle prese con altri due amori impossibili, sempre con finale amaro ove non tragico. Léo Delibes prolifico compositore del Secondo Impero e della Terza Repubblica, introduce la Francia elegante dell’aristocrazia e dell’alta borghesia in un mondo di fantocci, automi e bambole meccaniche, in cui gli spunti drammatici si risolvono nel grottesco personaggio di Coppelius.


Nell’edizione in programma a Roma, la messa in scena è interpretata dal francese Eric Vu-An, autore anche della coreografia, ha debuttato lo scorso dicembre all’Opéra de Nice e viene riproposta con i danzatori del Corpo di Ballo dell’Opera, diretto da Micha van Hoecke. Le luci sono di Patrick Méeüss. Una scelta appropriata perché i francesi meglio di altri possono filtrare la delicata musica di Delibes.


Ambientata in una immaginaria Galizia, la vicenda narra di Swanilda, gelosa del fidanzato Franz che sospetta innamorato di una misteriosa creatura, Coppelia, ignorando che si tratta semplicemente di una bambola. Per il coreografo Eric Vu-An è il secondo incontro con Coppélia, dopo la creazione per Avignone del 2004 in cui era Franz. “E’ un capolavoro compiuto – afferma durante una prova – Parto da Arthur Saint-Léon e Léo Delibes per ritrasmettere il balletto nella sua essenza, tenendo conto però dell’evoluzione dei fisici dei danzatori e del nostro gusto, rispettandone scrupolosamente l’umanità e la tenerezza che gli hanno permesso di essere applaudito fin dalla sua creazione, nel 1870”.
La prima rappresentazione assoluta dello spumeggiante balletto, con la coreografia di Arthur Saint-Léon, ebbe luogo all’Opéra di Parigi il 25 maggio 1870. Protagonista la quindicenne Giuseppina Bozzacchi, particolarmente adatta al ruolo di Swanilda per vivacità e freschezza. Il successo fu immediato. Dopo diciotto rappresentazioni l’Opéra fu però costretta a chiudere i battenti a causa della guerra franco-prussiana che premeva alle porte con l’assedio di Parigi, ma il celebre balletto, nelle sue numerose rivisitazioni, sopravvive ancora oggi nei cartelloni delle migliori compagnie.

I giovani danzatori del Ballet Nice Méditerrannée, l’uruguaiana Paola Acosta e l’italiano Alessio Passaquindici si alterneranno con la prima ballerina Gaia Straccamore e Alessio Rezza per dar corpo alla storia d’amore carica di contrasti e vitalità, di Swanilda e Franz dall’inevitabile lieto fine, molto differente quindi da quello di Offenbach. Nel ruolo del fabbricante di bambole Coppelius, lo stesso Eric Vu-An si alternerà con l’étoile dell’Opera di Roma Mario Marozzi

Per la prima volta sul podio del Teatro dell’Opera l’olandese Koen Kessels che farà rivivere la geniale partitura di Léo Delibes, piena di trovate e capace di ritrarre i personaggi con temi musicali ben caratterizzati.

A Roma la docezza di Coppélia in QuotidianoArte 30 gennaio

Il balletto del poeta e scrittore tedesco E.T.A Hoffmann


A Roma la dolcezza di Coppélia
Giuseppe Pennisi
Della vasta produzione di Leo Delibes (tre balletti , una mezza dozzina di opere, un vasto numero di composizioni per cameristica e sinfonica), il balletto Coppélia, in arrivo a Roma, e l'opera Lakmé sono i soli due lavori oggi ancora rappresentati. Eppure fu uno dei musicisti più importanti del Secondo Impero e della Terza Repubblica ed esercitò una grande influenza su Ajkovskij, Saint-Saëns e Debussy. Soprattutto, espresse meglio di molti altri l'atmosfera e i colori della Francia nell'ultimo parte del XIX secolo quando si preparava quella che sarebbe stata chiamata la Belle Époque.
Per questo motivo, benché tratta da un racconto non certo lieve del proto-romantico poeta e scrittore tedesco E.T.A Hoffmann, Der Sandmann, Coppélia è un delizioso balletto a lieto fine.
La stessa vicenda assume tinte tragiche in Les Contes de Hoffman, capolavoro incompiuto di Jacques Offenbach alla Scala sino al 5 febbraio.
In Coppélia l'alta borghesia viene portata in un mondo di fantocci, automi e bambole meccaniche, in cui gli spunti drammatici si risolvono nel grottesco personaggio di Coppelius.
Nell'edizione in programma a Roma, la messa in scena è interpretata dal francese Eric Vu-An, autore anche della coreografia, ha debuttato lo scorso dicembre all'Opéra de Nice e viene riproposta con i danzatori del Corpo di Ballo dell'Opera, diretto da Micha van Hoecke. Le luci sono di Patrick Méeüss.
Una scelta appropriata perché i francesi meglio di altri possono filtrare la delicata musica di Delibes.
La prima rappresentazione assoluta dello spumeggiante balletto, con la coreografia di Arthur Saint-Léon, ebbe luogo all'Opéra di Parigi il 25 maggio 1870. Protagonista la quindicenne Giuseppina Bozzacchi, particolarmente adatta al ruolo di Swanilda per vivacità e freschezza. Il successo fu immediato. Dopo diciotto rappresentazioni l'Opéra fu però costretta a chiudere i battenti a causa della guerra franco-prussiana che premeva alle porte con l'assedio di Parigi, ma il celebre balletto, nelle sue numerose rivisitazioni, sopravvive ancora oggi nei cartelloni delle migliori compagnie.


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sabato 28 gennaio 2012

Se l’Eurozona dei bilanci parla già in tedesco in Avvenire 29 gennaio

Se l’Eurozona dei bilanci
parla già in tedesco
Giuseppe Pennisi
DI

Quando si apriva il cantiere dell’euro, economisti e politologi
di varie scuole (Alberto Alesina, Martin Feldstein,
Enrico Spolaore, Romain Wacziarg) indicarono che sarebbero
sorti conflitti a ragione della creazione di un’unione
economica e monetaria tra Paesi profondamente diversi
per struttura economica e propensioni al risparmio, nonché
avvezzi a politiche economiche molto differenti. Alcuni congetturavano
addirittura che le tensioni avrebbero provocato
guerre non solo economiche, ma anche militari.
Fortunatamente non si è giunti a tanto, o meglio: non ancora.
I conflitti su come affrontare il nodo del debito sovrano in
Europa, tuttavia, indicano un confronto economico molto
serrato. Cosa lo determina e quali sono i suoi effetti?
Il debito sovrano è la punta di un iceberg molto vasto e molto
profondo. Dalla fine del ventesimo secolo l’Europa non ha
più il monopolio del progresso tecnologico condiviso per circa
150 anni con gli Stati Uniti. È in atto un profondo riassetto
dell’economia mondiale: mezzo miliardo di uomini e donne
sono usciti dalla povertà assoluta grazie a strutture di produzione
e livelli di consumo impensabili sino a trent’anni fa.
Gli Stati Uniti danno prova di una buona dose di “efficienza
adattiva” (di sapersi ricollocare nel nuovo contesto). L’Europa,
specialmente l’Eurozona, non ha invece ancora trovato una
risposta condivisa. Al contrario, le euro–differenze si stanno
acuendo.
Un libro di Anke Hassel, una delle maggiori economiste europee
della giovane generazione (”The Paradox of Liberalization
– Understanding Dualism and the Recovery of the German
Political Economy”) illustra le trasformazioni realizzate
oltre Reno per rispondere al nuovo contesto mondiale. Dimostra,
in particolare, come sono state guidate da una coalizione
di leader industriali e sindacali (specialmente
di imprese orientate all’esportazione)
che hanno metabolizzato il significato
dell’integrazione economica
internazionale e come sono andate avanti
nonostante il cambiamento dei governi
(dal “rosso–verde” di Schröder, alla
“grande coalizione” di Merkel, fino
all’alleanza democristiana–liberale
ancora di Merkel).
Quindici anni di profonde riforme
pongono oggi la Germania, e un piccolo
gruppo di Paesi satelliti, in una
posizione che in Europa (e nel mondo)
non questa potenza non aveva dai
tempi di Bismarck. Gran parte degli altri Paesi hanno
piuttosto seguito strategie “difensive”: invece di “aggredire”
la nuova situazione mondiale (peraltro ancora in corso
di definizione) si sono posti l’obiettivo di tutelare i propri
modi di vivere, le proprie prassi, le proprie tradizioni. Mostrando
poca “efficienza adattiva”. Quindi, in Europa ci sono,
da anni, politiche economiche divergenti.
L’effetto più appariscente è l’aggravarsi del debito sovrano
dove si sono seguite strategie “difensive”. Quello più concreto
è la stagnazione di un’Eurozona in gran misura integrata,
ma i cui protagonisti seguono ancora politiche economiche
che si neutralizzano a vicenda. La domanda di fondo è: sarà
possibile uscire da questa crisi, teatro e frutto di grandi operazione
offensive a carattere speculativo, con un accordo in
cui si ipotizza che, nel giro di un lustro o poco più, gli Stati cosiddetti
“difensivi” dovranno ribaltare le loro economie come
un calzino, come ha fatto la Germania? Il dubbio è lecito, considerato
che Berlino ci ha messo vent’anni. E gli attacchi all’irresoluta
Europa, ormai, si susseguono
senza sosta.
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Per abbattere il debito pubblico bisogna fare un fondo ad hoc come in Germania in L'Occidentale 28 gennaio

Come rimettere in sesto le finanze pubbiche
Per abbattere il debito pubblico bisogna fare un fondo ad hoc come in Germania

Giuseppe Pennisi
28 Gennaio 2012

Il 26 gennaio si è volta a Palazzo Mezzanotte a Milano un’assemblea su come ridurre lo stock di debito pubblico. E’ un’iniziativa meritoria ma che, al pari delle notizie di stampa, su programmi che starebbe mettendo a punto il Ministero dell’Economia e delle Finanze va posta nel contesto appropriato.
In primo luogo, vale la pane parafare una celebre battuta di Tiwie, il protagonista della commedia musicale Fiddler on the Roof : “del debito (privato o pubblico che sia) non bisogna vergognarsi ma neanche esserne fieri”. Il debito pubblico italiano è senza dubbio una palla di piombo alla nostra finanza pubblica ed alle nostre potenzialità di crescita reale, ma proprio in questi giorni, giovani econometristi disputano le stime di Reinhart e Rogoff secondo cui il nostro debito rallenterebbe di un punto percentuale l’anno. Lo storia economica ci insegna che nei 150 dalla proclamazione del Regno d’Italia, in 111 anni il debito pubblico italiano ha superato il 60% del Pil ed in 54 il 100%. Ciò nonostante sino al 1990, quando demmo un cambio sovrapprezzato alla lira, siamo cresciuti gagliardamente. Quando abbiamo firmato il Trattato di Maastricht (imponendoci di portare lo stock di debito pubblico dal 120 al 60% e di non superare questo ultimo limite), né noi né gli altri sapevamo quel che facevamo. Forse il vino della Mosella aveva inebriato tutti coloro al tavolo della trattativa. Speriamo che non lo faccia la birra di Bruxelles “Stella” nel negoziato ora in corso.
In secondo luogo, i mercati non si aspettano un “taglia debito” ma politiche che facciano aumentare produttività e competitività e, quindi, rimetterci su un sentiero di crescita. In Italia, Einaudi portò, nel giro di tre anni, il debito pubblico dal 120% al 24% del Pil utilizzando, però, la più iniqua delle tasse (la maxinflazione) e la riforma monetaria; dopo meno di dieci anni il debito pubblico già superava il 60% del Pil. Nel 1992-93, Amato ridusse di un sol colpo del 10% lo stock di debito con una gamma di strumenti dalla patrimoniale sui conti correnti alla svalutazione: tre anni dopo eravamo al livello di prima poiché il Governo Ciampi ed il Parlamento sotto elezioni ridussero la morsa. Nel quadro di politiche per la produttività e la competitività, i mercati (e speriamo l’UE) si aspettano una riduzione del tasso d’interesse (che di per se stesso fa crescere il debito). Lo dicono a tutto tondo a PIMCO , il maggior trader mondiale in obbligazioni, anche nelle newsletter (a pagamento) ai propri iscritti. La stampa italiana ed i decision-maker dovrebbero leggerle con più frequenza ed attenzione.
Una possibilità concreta potrebbe essere un fondo per riscattare il debito, a bassi tassi d’interesse basato su esperienze fatte in America Latina (per alleviare il debito previdenziale) ed in Germania (per l’unificazione). In una nota al Cnel (di cui sono Consigliere) ho proposto un fondo con tre “sottostanti” (ossia attività reali e finanziarie a garanzia di nuovi titoli): a) parte del patrimonio immobiliare pubblico (come nella proposta governativa); b) parte del patrimonio immobiliare privato su base volontaria e in cambio di un’esenzione fiscale permanente da eventuali imposte patrimoniali (sempre che tali esenzioni siano credibili) ; e c) parte dei veri di gioielli di famiglia (Enel, Eni, Finmeccanica, Poste Italiane, Sace, St-Microelectronics, Terna, Poligrafico, Sogin, Inail). Rai, Ferrovie, Fincantieri e altre imprese da denazionalizzare non verrebbero incluse poiché non sono certo “gioielli di famiglia”, ma fardelli da rimettere in sesto o da liquidare.
Con un tale “sottostante” in garanzia, il fondo potrebbe emettere titoli a tassi molto bassi (quelli di sconto del Bce) per a) riscattare il debito pubblico e, in secondo ordine, b) finanziare investimenti a lungo termine di interesse collettivo. Il fondo sarebbe un veicolo per denazionalizzare/privatizzare le società /gli enti le cui azioni sarebbero il suo “sottostante”. Perché l’operazione funzioni, il “sottostante” dovrebbe essere aggregato (con qualche forma di cartolarizzazione - ne esistono molteplici) e non dovrebbe essere quotato in Borsa per un certo numero di anni (al fine di essere una garanzia solida). Potrebbe essere collocato presso fondi pensioni per dare corpo a una efficace ed efficiente previdenza integrativa. Ciò richiederebbe una preventiva riduzione del numero dei fondi pensione operanti in Italia da 700 a una diecina con effettiva portabilità (ossia che gli iscritti possano votare con le gambe e migrare verso quelli meglio gestiti).Un passo che va comunque fatto se non si vuole che la previdenza integrativa dei nostri figli sia una chimera.
La proposta non è stata accolta con entusiasmo soprattutto da parte imprenditoriale. Dopo che la Fiat ha lasciato la Confindustria , Enel, Eni, Finmeccanica, Poste Italiane, Sace, St-Microelectronics, Terna, Poligrafico, Sogin, Inail sono i veri proprietari di casa in un Viale dell’Astronomia che assomiglia sempre di più all’Intersind (ve la ricordate? Era l’associazione di categoria delle partecipazioni statali). Good bye, Friederich Hayek!

In Emilia e Milano l'Aida ritorna colossal in Milano Finanza 28 gennaio

Dopo lustri in cui l'Aida è stata presentata con regie intimiste (John Dexter a New York, Bob Wilson a Roma, Giancarlo Del Monaco a Washington, lo stesso Franco Zeffirelli a Busseto), il lavoro composto per il Khedivé d'Egitto torna in versioni colossal. A Parma, Modena e Reggio Emilia è in scena fino ad aprile lo spettacolo ideato da Alberto Fassini riproposto dal regista Joseph Franconi Lee, con la giovane bacchetta di Antonino Fogliani sul podio.
Qui è in scena un Egitto visionario, mentre alla Scala dal 14 febbraio al 10 marzo torna la grandiosa Aida del 1962 con la regia di Franco Zeffirelli e gli eleganti costumi di Lia De Nobili. Si alternano tre cast guidati dalla bacchetta del trentenne Omer Meir Wellber. L'Aida emiliana ha inaugurato la stagione del Regio di Parma il 27 gennaio. Ancora efficaci (anche se ipertradizionali) le scene di Mauro Carosi e le coreografie di Marta Ferri con la loro patina di decadentismo incipiente. Fogliani tiene bene l'equilibrio tra orchestra e voci, ma non coglie tutte le finezze di una partitura tra le più raffinate di Verdi. Mariana Pentcheva (Amneris) e Susanna Branchini (Aida) si contendono abilmente un Walter Fraccaro (Radamès) un po' legnoso. Alberto Gazale (Amonasro) conferma di essere uno dei migliori baritoni verdiani su piazza. Ottimo il coro guidato da Martino Faggiani. Tanto la versione emiliana quanto l'imminente edizione scaligera sono per chi ama l'opera come si faceva una volta. (riproduzione riservata)

I SEGNALI DA DAVOS in Il Velino 27 gennaio

I SEGNALI DA DAVOS (2)
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Roma - È su questo punto che è utile soffermarsi alla vigilia di un importante vertice europeo che potrebbe dare una svolta positiva al negoziato sull’“unione fiscale”, un anglicismo quanto mai improprio in italiano dove dovrebbe parlarsi di “unione delle politiche di bilancio”. Un passo ulteriore, quindi, rispetto al “coordinamento delle politiche di bilancio” previsto dal Trattato di Maastricht e dai suoi successivi aggiornamenti. Il cancelliere ha ammesso che tale “unione” può reggersi unicamente sulla crescita economica. Non poteva andare oltre e avventurarsi a parlare di ampliamento del fondo salva Stati oppure di ‘eurobonds’. Il Parlamento, e gli elettori tedeschi, non accetterebbero mai un’“unione di trasferimenti di risorse” (dalle formiche alle cicale per salvare quest’ultime dopo i loro stravizi). Per la prima volta, però, la Germania riconosce che ove venga raggiunta la stabilità finanziaria (specialmente in Grecia, Italia, Portogallo e Spagna) sarebbe impossibile mantenerla senza adeguati tassi di crescita. Merkel ha letto il libro di Anke Hassel, una delle maggiori economiste europee della giovane generazione (“The Paradox of Liberalization-Understanding Dualism and the Recovery of the German Political Economy"): lo studio illustra le trasformazioni realizzate oltre Reno per rispondere al nuovo contesto mondiale e dimostra come sono state guidate da una coalizione di leader industriali e sindacali riformisti e illuminati (specialmente di imprese orientate all’esportazione) che hanno metabolizzato il significato dell’integrazione economica internazionale. Si augura che alleanze analoghe si formino in Paesi oggi in seria difficoltà
.

Ha detto bene il presidente della Banca Mondiale, Robert Zoellick: “Per 60 anni la Germania ha avuto un ruolo di leadership nella modernizzazione dell’Europa; oggi la sua responsabilità consiste nel salvare l’Europa. Il cancelliere Merkel sa che i tedeschi non vogliono sprecare risorse ma sono profondamente impegnati nella difesa e nella valorizzazione della loro identità europea, nonché a fornire il supporto necessario se presentati con un programma realistico che coniughi stabilità finanziaria, riforme strutturali e crescita”. È alla luce di questi criteri che viene giudicata ogni giorno, ogni ora, ogni minuto l’Italia e chi ha la responsabilità di governarla.

Da questo Forum annuale di Davos dei “best & brightest” (e wealthiest) arrivano segnali più discordanti del solito. Da un lato, le analisi quantitative del recente passato mostrano un preoccupante aumento del divario tra “chi ha” e “chi non ha” (fatta eccezione dell’uscita dalla povertà assoluta di oltre mezzo miliardo di uomini e donne soprattutto in Asia). Da un altro, le previsioni sul futuro dell’economia mondiale sono, a dir poco, inquietanti: prevalgono alla lunga i catastrofisti (che vedono una lunga recessione, lo scollamento dell’integrazione economica internazionale, il “de profundis” per l’unione economica e monetaria europea, e pure la trasformazione di conflitti economici in guerre guerreggiate). Da un altro ancora, proprio sul terreno più difficile (la crisi del debito sovrano europeo), ci sono stati presagi positivi da cogliere nelle finezze, anche linguistiche, del discorso del cancelliere Angela Merkel (nonché nell’intervista apparsa il 26 gennaio su sette quotidiani dell’Ue). (ilVelino/AGV)
(Giuseppe Pennisi) 27 Gennaio 2012 14:45

COLLABORAZIONE E FLESSIBILITA’ , LA RICETTA TEDESCA in Il Riformista 27 gennaio

I LIBRI DEI MINISTRI-MICHEL MARTONE
COLLABORAZIONE E FLESSIBILITA’ , LA RICETTA TEDESCA
Giuseppe Pennisi
Mentre il Decreto Legge sulle liberalizzazioni inizia un percorso non privo di trabocchetti tra Camera e Senato, il Governo è alle prese con la messa a punto di uno degli aspetti più difficili del proprio programma: la riforma del mercato del lavoro. Il ‘dossier’, per utilizzare il lessico comunitario che ormai circola a Palazzo, è , in gran misura, nelle mani del Vice Ministro Michel Martone, un giuslavorista.
In questi giorni, la sua scrivania è piena di testi di letteratura economica. In primo luogo, un’analisi di Bruno Frey su cosa abbiamo imparato in 60 anni di political economy (la disciplina che studia l’interazione tra pensiero economica ed azione politica)- è il CESifo Working Paper No. 3684. Amare le conclusioni; mentre il successo disciplinare è innegabile, i risultati pratici sono stati modesti. Quindi. Potrà essere di poco aiuto nella messa a punto della riforma.
Eppure è proprio un testo di political economy che meglio illustra ed interpreta le riforme attuate nella Repubblica Federale Tedesca negli ultimi vent’anni: “The Paradox of Liberalization – Understanding Dualism and the Recovery of the German Political Economy" di Anke Hassel , una delle maggiori specialiste tedesche di economia del lavoro . Lo studio è stato diramato lo scorso settembre come LEQS Paper No. 42/2011 in attesa di essere pubblicato. Dimostra come le trasformazioni realizzate oltre Reno a livello sia di normativa generale sia delle singole imprese sono state guidate da una coalizione di leader industriali e sindacali (specialmente di imprese orientate all’esportazione) che hanno metabolizzato il significato dell’integrazione economica internazionale.
Conclusioni nella stessa direzione sono quelle di Ulf Rinne e Klaus F. Zimmermann nell’IZA Discussion Paper No. 650 :”Another Economic Miracle ? The German Labor Market and the Great Recession”. In risposta alla crisi, la Germania ha mostrato un alto grado di flessibilità grazie alla collaborazione tra parti sociali e tra esse ed i Governi che si sono succeduti dall’unificazione. E’ sempre la coalizione tra imprese all’avanguardia e sindacalisti riformisti al posto del conducente:

C’è , o si può costruire, una coalizione analoga in Italia? Od altrove? Pessimista P.N. Raja Junankar dell’Università di Sidney Occidentale: dalla lontana Australia tratteggia un quadro fosco della disoccupazione di lunga durata e delle rigidità normativa (che favoriscono pochi e danneggiano i giovani) in un saggio sulle ricadute economiche occupazionali nell’Ocse della crisi economica globale.

mercoledì 25 gennaio 2012

Aida e quel sogno d'Egitto di fine Ottocento in Il Sussidiario 26 gennaio

TEATRO REGIO DI PARMA/ Aida e quel sogno d'Egitto di fine Ottocento
Giuseppe Pennisi
giovedì 26 gennaio 2012
Immagine d'archivio
Approfondisci
OPERA/ Una Carmen semplice, come la voleva Bizet, di G. Pennisi
OPERA/ Un’insolita "damnation de Faust" di Berlioz, senza spazio per la redenzione, di G. Pennisi
Si apre il sipario venerdì 27 gennaio sulla Stagione Lirica 2012 del Teatro Regio di Parma, che inaugura con Aida, nel sontuoso spettacolo ideato da Alberto Fassini per il Festival Verdi e riproposto dal regista Joseph Franconi Lee, con la giovane bacchetta di Antonino Fogliani sul podio dell’Orchestra e del Coro del Teatro Regio di Parma.

Dopo il debutto e una serie di recite a Parma sino all’11 febbraio, la produzione sarà, sino a fine marzo, a Reggio Emilia e a Modena - un’ottima idea in questi periodi di ristrettezze finanziarie e di esigenze di sinergie ed economie.


Con le scene e i costumi creati da Mauro Carosi, le luci firmate da Guido Levi e le coreografie immaginate da Marta Ferri, a dar vita alla locandina del lavoro verdiano saranno Carlo Malinverno (Il re d’Egitto), Mariana Pentcheva (Amneris), Susanna Branchini (Aida), Walter Fraccaro (Radamès), Giovanni Battista Parodi (Ramfis), Alberto Gazale (Amonasro), Yu Guanqun (Sacerdotessa) e Cosimo Vassallo (Messaggero). Maestro del Coro è Martino Faggiani.

È un allestimento che non può non piacere a chi ama i film di Cecil B. DeMille; scene grandiose, danze spettacolari e quant’altro in un Egitto visto come poteva immaginarlo Giuseppe Verdi nella tenuta di Sant’Agata attorno al 1870.

«Ho letto il programma egiziano. È ben fatto; è splendido di mise en scène, e vi sono due o tre situazioni, se non nuovissime, certamente molto belle. Ma chi l’ha fatto? Vi è là dentro una mano molto esperta, abituata a fare, e che conosce molto bene il teatro». Così scriveva Verdi in una delle lettere che avviano il progetto di comporre una nuova opera su invito del Viceré d’Egitto, progetto che si concretizzerà con il varo di Aida al Teatro del Cairo, il 24 dicembre 1871, coronato da un enorme successo, destinato a ripetersi nei teatri di tutto il mondo.


«Mostrare l’Egitto non è un compito facile perché le sole testimonianze che abbiamo di questa civiltà riguardano la cultura funeraria – ci dice il regista John Franconi Lee. Le piramidi erano tombe e a questo noi associamo la millenaria civiltà egiziana. Anche Verdi ha immaginato una tomba dove far concludere il dramma. Così questa Aida comincia e finisce in un clima tenebroso, sepolcrale. È un’opera tutta interni, un’opera notturna, dove in molti quadri prevale un blu profondo, cobalto. La scena disegnata da Carosi è divisa in due livelli a separare due mondi, quello dei forti e quello dei vinti. A questi due, già previsti da Verdi, ho aggiunto un terzo livello che si spinge sul proscenio, dove i personaggi svelano il loro lato più umano, più intimo».
In effetti, il vostro “chroniqueur”, melomane errante dall’età della pubertà (o giù di lì), ha avuto modo di assistere a una rappresentazione al Teatro dell’Opera del Cairo nel lontano gennaio 1969, in occasione del centenario dell’apertura dell’edificio – un grazioso teatro all’italiana di 700-800 posti con tre ordini di palchi e barcacce, distrutto da un incendio all’inizio degli Anni Settanta. La prima impressione che dava il teatro era il suo carattere intimo (e un’acustica magnifica, ai livelli di quel prodigio che è il Massimo Bellini di Catania). Lo stesso palcoscenico era poco profondo e con un boccascena di dimensioni tutt’altro che grande; se sulla scena le masse (coro e comparse) potevano essere una cinquantina, il golfo mistico poteva ospitare 50-60 orchestrali al massimo.

Una visita, anche una sola, al teatro che l'ha commissionata rende immediatamente evidente che l’”Aida” (quale pensata da Verdi) era molto differente dai magniloquenti allestimenti correnti. Lo chiarisce la lettura della partitura: un esempio, non si richiedono quattro (o addirittura sei) arpe, ma due (di cui una in scena, in modo in effetti da potere essere suonate da una sola arpista). “Aida” è, in effetti, un’opera intimista (anche se le scene a due o tre personaggi sono incastonate in momenti corali) .

È la prima delle tre opere “perfette” di Verdi, che non aveva ancora assistito al “Lohengrin”, ma aveva già superato il melodramma e si era posto su un sentiero non molto differente dal musikdrama wagneriano: flusso orchestrale ininterrotto nelle sette scene (ma divise in “numeri”), equilibrio mirabile tra golfo mistico e voci, integrazione completa dei ballabili nelle singole scene, impiego del declamato, e utilizzazione di motivi conduttori in forma non mnemonica, ma sintattica (si pensi alle “riprese” del notturno d’archi ascoltato inizialmente nel preludio e ripetuto, con varie modificazioni, in più momenti dell’opera).

Una decina d'anni fa, la Fondazione Toscanini porta in giro un’”Aida” quasi come la avrebbe voluta Verdi; il “quasi” è d’obbligo a motivo di alcuni tagli ai ballabili (per ragioni di economia e di trasportabilità). L’allestimento era nato da un’idea geniale di quel diavolaccio di Franco Zeffirelli (autore di regia e scene; i bei costumi sono di Anna Anni). Scene dipinte di un Egitto vagamente art déco, una recitazione accuratissima da parte di un cast giovane (se ne alternano tre) scelto tramite una selezione internazionale, cinquanta brillanti (e giovani) orchestrali, danze ridotte al minimo.

Non era un “Aida” iconografica: punta sul dramma d’amore e gelosia (con un Amneris principessina capricciosa e impudente) più sul contesto politico-spettacolare. Questa lettura fa sì che si comprenda ciascuna parola (anzi ciascuna intonazione) di un libretto meno banale di quanto presentato nella vulgata su Verdi. E lontana dal “colossal” che si vedrà a Parma, Modena e Regio Emilia.


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Quanto conviene davvero ospitare i Giochi a Roma? Il Sussidiario 26 gennaio

OLIMPIADI 2020/ Quanto conviene davvero ospitare i Giochi a Roma?
Giuseppe Pennisi
giovedì 26 gennaio 2012
Gianni Alemanno (Foto InfoPhoto)
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OLIMPIADI 2020/ Cochi (Pdl): rinviare i Giochi di 4 anni? Ecco perchè è impensabile
OLIMPIADI 2020/ Ecco perchè conviene a tutti, non solo a Roma...
Vale la pena scendere i campo per le Olimpiadi del 2020? La gara inizia molto prima della cerimonia di apertura: con la discesa in campo per essere scelti come sede. L’Università di Amburgo ha esaminato (Hamburg Contemporary Economic Discussions, n. 2, 2007) 48 candidature nell’arco di tempo 1992-2012 e costruito un modello che tiene conto della logistica, della situazione climatica, e del tasso di disoccupazione. Lo strumento si è rivelato efficace nello individuare canditure che sono state effettivamente bocciate (un tasso del 100%) e nel 50% ha azzeccato quelle che hanno vinto. A ragione del clima e della logistica, Roma potrebbe superare questo primo stadio.
Le Olimpiadi, inoltre, non sono necessariamente “un affare” in termini di ricavi finanziari (giustapposti a costi finanziari) per la città, o le città, che ospitano, i loro alberghi, ristoranti, negozi e via discorrendo. Tre economisti greci hanno condotto una valutazione ex-post delle Olimpiadi di Atene del 2004 (è pubblicata sulla rivista Applied Financial Economics, Vo. 18 n. 19 del 2008); finanziariamente, hanno guadagnato solo gli sponsor ma non quando si sono svolti le gare o dopo l’evento: le loto azioni hanno avuto una rapida ma breve impennata quando la capitale greca è stata scelta- quindi, un effetto annuncio. Interessante una dettagliata valutazione ex-ante dei giochi invernali appena iniziati a Vancouver (disponibile a http://ssrn.com/abstract=974724): i costi superano i benefici, anche senza contabilizzare le spese per l’infrastruttura (perché permanenti e non connesse solo all’evento) e quantizzando l”orgoglio della città e della Provincia” di ospitare le gare. In effetti, stime analitiche dei probabili flussi turistici sono modeste (ed i costi associati al turismo olimpico superano i ricavi)- come peraltro già rilevato in occasione di altre Olimpiadi , ad esempio di quelle tenute nel 1996 ad Atlanta in Georgia). Uno dei lavori sugli esiti economici non brillanti delle Olimpiadi di Atlanta è intitolato: “Perché gareggiare per essere sede di Giochi?” .

La risposta viene data da due saggi relativi uno alle Olimpiadi di Pechino del 2008 (pubblicato nello Sports Lawyer Journal Vol. 15 del 2008) e l’altro alla Coppa del Mondo giocata in Germania nel 2006 (CESifo Working Paper No. 2582 del 2009). I costi alla collettività vengono in questi casi superati, anche di molto, dai benefici alla collettività perché l’evento riguarda l’intera Nazione. Le Olimpiadi di Pechino sono state, afferma lo studio, “un’opportunità d’oro per essere accettati a livello mondiale”. La Coppa del 2006 ha accelerato di 20-40 anni il processo di integrazione sociale tra le Germanie dell’Ovest e dell’Est. Le stime quantitative (effettuata attraverso il metodo delle valutazioni contingenti) non sono state messe in discussione da nessun statistico
Quindi, il quadro non è così chiaro ma questi elementi possono essere utili a chi deve assumere una decisione.

martedì 24 gennaio 2012

Ecco i conti che smascherano il "bluff" di Monti in Il Sussidiario 25 gennaio

Ecco i conti che smascherano il "bluff" di Monti
Giuseppe Pennisi
mercoledì 25 gennaio 2012
Infophoto
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LIBERALIZZAZIONI/ Ecco i "poteri forti" salvati da Monti, di M. Arnese
LIBERALIZZAZIONI/ Sapelli: vi spiego i tre errori del Prof. Monti
vai allo speciale Liberalizzazioni, cosa cambia?
Occorre dare merito al Governo Monti di avere realizzato, in materia di liberalizzazioni, quanto gli esecutivi precedenti degli ultimi vent’anni non sono riusciti non dico a mettere in atto, ma neanche in cantiere. Chi ha letto con attenzione il Trattato di Maastricht sa che un forte e deciso programma di liberalizzazioni si sarebbe dovuto attuare subito dopo la firma del documento. Qualcosa tentò, nel mezzo della crisi finanziaria del 1992, il Governo Amato, ma da allora non se ne è fatto più nulla (pur parlandone e stra-parlandone a iosa).
Occorre ammettere che, una volta deciso di comportarsi da Governo “politico” (e quindi iniziando i riti “concertativi”) su alcuni campi essenziali (concessioni autostradali, ferrovie, banche, benzina, scorporo Snam), l’esecutivo ha fatto marcia indietro o rinviato “a tempi migliori”. In altri (taxi, servizi pubblici locali) è sceso a compromessi che un Governo “tecnico” avrebbe potuto, e dovuto, evitare. L’Istituto Bruno Leoni sta diramando note dettagliate che possono, utilmente, indurre a discutere sulla portata di un provvedimento che con tutti i suoi limiti fa uscire l’Italia da quell’economia “corporativa”, fonte di progresso nelle Repubbliche Comunali e nelle Signorie del Medioevo e del Rinascimento, non da decenni più al passo con i tempi e, quindi, freno alla crescita.
Tuttavia, il Professore Mario Monti è un economista e ha altri validi economisti nella sua squadra. Non si adombri quindi se un economista molto semplice ha due-tre cosette da chiedergli sui benefici del programma appena varato. Sono stati quantizzati in un’accelerazione della crescita del Pil di un punto percentuale l’anno per un totale di undici punti su undici anni e nel conseguente incremento (sempre nell’arco di undici anni) di otto milioni di occupati.
Nell’interesse della trasparenza sarebbe utile sapere come si è arrivati a queste stime. Consultando il Social science research network (Ssrn), la maggiore biblioteca telematica in materia economica, se si chiede “effetti e impatti di liberalizzazioni” si ottengono 349 papers scientifici, in gran misura monografici (relativi a un settore in un Paese specifico), ma non si trova nessun testo che fornisca un metodo per quantizzare effetti e impatti di un programma quale quello appena varato. Il lavoro più recente è stato prodotto dall’Università di Praga (CERGE-EI Working Paper No. 452): una lettura attenta mostra che si tratta di uno studio empirico ex-post sull’aumento di produttività conseguente la liberalizzazione della telematica nella Repubblica Ceca, tema che poco ha a che fare con il programma appena varato in Italia. Ci sono numerosi studi-Paese (in gran misura o di paesi in via di sviluppo o di paesi in transizione dalla pianificazione al mercato) non certo attinenti all’Italia e privi di stime econometriche quantitative.
Lo studio forse più pertinente è la monografia di Anke Halle “The Paradox of Liberalization - Understanding Dualism and the Recovery of the German Political Economy”, in quanto tratta delle politiche di liberalizzazione in Germania per “adattarsi” a globalizzazione e a moneta unica. È un lavoro affascinante ma di political economy, non di analisi quantitativa: mostra come una coalizione di grandi imprese e di leader sindacali abbia guidato il processo (anche la liberalizzazione del mercato del lavoro) appena resosi conto che Europa e Usa non avevano più il monopolio del progresso tecnologico - un processo iniziato con governi socialdemocratici e continuato con grandi e piccole coalizioni.
Si giustappone a un’analisi appena pubblicata sul Vol. 49, n. 5, pp. 923-947 del Journal of Common Market Studies: sulla base di interviste con 200 alti funzionari della Commissione europea conferma che il loro DNA è più statalista che liberalizzatore. Quindi, da un lato, viene da chiedersi se ci sia e dove in Italia una coalizione analoga a quella che ha reso possibili le liberalizzazioni in Germania, e, da un altro, la conclusione di non dare troppo ascolto a Bruxelles.
Ciò, però, non risponde alla domanda di fondo: come sono stati stimati gli aumenti di Pil e di occupazione delle liberalizzazioni di Monti? Gran parte dei modelli macro-econometrici dinamici sono aggregati e riguardano un lasso di tempo di 24-36 mesi, poiché è in pratica poco corretto stimare identità ed equazioni di comportamento per un lasso di tempo più lungo. Il Prof. Monti boccerebbe studenti che all’esame di econometria proponessero di estrapolare a dieci-undici anni stime di due-tre anni. Non si conoscono ancora, poi, modelli macroeconomici dinamici che consentano di parametrizzare liberalizzazioni e i loro effetti e impatti sul tipo di quanto previsto nel decreto legge. Lo si può fare costruendo scenari contro-fattuali dell’economia italiana oggi, domani e dopodomani con esercizi di statistica comparata basati su matrici di contabilità sociale e utilizzando modelli computabili di equilibrio economico generale.
Ma all’Istat, richiesti, affermano che il lavoro sull’aggiornamento della matrice di contabilità sociale dell’Italia (ferma al 1994) sta appena iniziando. Ove per alcuni comparti - nel 2003-2004 lo si fece per editoria ed economia dell’informazione e comunicazione - fossero stati fatti aggiornamenti, sarebbe non utile ma doveroso pubblicarli, specificare quale modellistica di equilibrio economico è stata utilizzata e, al fine di tener conto dell’incertezza (inevitabile in un lasso di undici anni), quale metodo è stato impiegato - quello di Black e Scholes, quello di Dixit e Pindyk, quello di Graham, il calcolo binomiale, e via discorrendo.
Sono domande tecniche, ma di un economista semplice che non vuole e non può credere che un Governo tecnico abbia dato numeri a vanvera o si sia affidato ai soliti barracuda-esperti che pullulano nei corridoi del potere. Si confida che arriveranno risposte dettagliate e circostanziate.

lunedì 23 gennaio 2012

Euro, ecco il cambio effettivo che frena l’Italia in Avvenire 24 gennaio

Euro, ecco il cambio effettivo che frena l’Italia

l’analisi

Sopravvalutando la moneta unica, si è in realtà aggravato il disavanzo commerciale del nostro Paese


DI GIUSEPPE PENNISI

S aranno le liberalizzazioni appena approvate dal Consiglio dei ministri in grado di rimettere in marcia l’I¬talia, ossia di riportarci, senza essere ec¬cessivamente ambiziosi, a quel tasso di crescita del 2,5% che dovrebbe essere «normale» per un’economia matura ed a demografia anziana come la nostra?

Dall’inizio degli Anni Novanta il tasso di aumento del Pil è o raso¬terra oppure negativo.

Nella Repubblica Ceca , in alcune imprese ad alta tecnologia, la liberalizza¬zione delle reti ha porta¬to ad aumenti di produt¬tività sino al 38% (come hanno documentato in u¬no studio Jan Bema e E-vangelia Vourvache del¬l’Università di Praga). Possiamo sperare su qualcosa che vada alme¬no nella stessa direzione? Il problema per l’Italia è quello che gli economisti Emmanuel Farhi e Gita Gopinath dell’Università di Harvard e Oleg Itskhoki dell’Università di Prince¬ton hanno dimostrato in uno studio d’imminente pubblicazione e che sarà di certo all’attenzione dell’Ecofin: anche all’in¬terno di un’Unione mo¬netaria ci possono essere «fiscal devaluations», in parole povere «svaluta¬zioni » della stessa mone¬ta.

Le politiche economiche possono por¬tare cioè ad «apprezzamenti» e «deprez¬zamenti » con perdita di competitività e freni alla crescita.

Nel caso dell’Italia il problema, rispetto al resto dell’Eurozona, viene da lontano. Al¬meno dalla fine degli Anni Ottanta. Biso¬gna allora fare un salto indietro nel tem¬po.

Allora vigevano gli accordi europei di cambio (una rete di intese e prestiti reci¬proci tra Banche centrali colloquialmen¬te chiamata Sme) e le monete di chi fa¬ceva parte dell’intesa fluttuavano del 2.25% attorno a 'parità centrali' (il tasso di cambio gestito collegialmente). La lira italiana e la peseta spagnola potevano fluttuare del 6%, poiché Italia e Spagna avevano una maggiore propensione al-l’inflazione e mantenevano restrizioni va¬lutarie. Nel dicembre 1989 venne annun¬ciata l’abolizione delle ultime barriere va¬lutarie e simultaneamente l’ingresso del¬la lira della fascia 'stretta' dello Sme.

Buon senso avrebbe richiesto di atten¬dere qualche mese tra l’abolizione delle restrizioni valutarie e l’ingresso della fa¬scia stretta al fine di toccare con mano quale fosse il cambio della lira che i mer¬cati considerassero espressione e delle parità di potere d’acquisto (quanto, cioè, con 10mila lire si poteva comprare nel re¬sto del mondo) e del valore della valuta estera.

In breve: l’Italia si «auto-sovrapprezzò» con le sue mani, tanto che quando il 17 settembre 1992 sospese temporanea¬mente l’applicazione degli accordi di cambio la lira fece un tonfo del 30%. Non potemmo però che tornare al cambio del primo gennaio 1990 quando, a fine 1996, rientrammo nello Sme allo scopo di fare parte della «pattuglia di testa dell’euro». Non avevamo altra scelta: le regole di Maastricht congelavano i cambi al 1990. Dal 1990 non solo l’Italia non cresce, ma la quota del nostro Paese sull’export mon¬diale si è contratta dal 6% a meno del 3%. Il «sovrapprezzamento», infatti, si è ina¬sprito da quando siamo entrati nell’Eu¬rozona (vedi grafico a fianco, ndr ). Una determinante è data dai conti pubblici, un’altra dalla dinamica salariale. Conse¬guenza immediata: l’inasprirsi dei conti con l’estero e l’aggravarsi del disavanzo commerciale. Un problema non solo no-stro ma, in vario modo, di tutti i Paesi me¬ridionali dell’Eurozona. Il disavanzo com¬porta un aumento più rapido (che in al¬tri Paesi) del credito totale interno e, quin¬di, una maggiore inflazione.

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Aida colossal in Emilia QuotidianoArte 24 gennaio

venerdì 27 gennaio si inaugura la Stagione Lirica 2012


Aida colossal in Emilia
Giuseppe Pennisi
Per il bicentenario della nascita di Verdi (2013), il Teatro Regio di Parma sta predisponendo l’integrale delle opere del compositore in un cofanetto con 27 DVD destinato a una vasta distribuzione internazionale. Quindi, oltre al Festival Verdi di ottobre anche le stagioni invernali propongono allestimenti nuovi o rivisitati dei lavori per la scena del Cigno di Busseto.
Venerdì 27 gennaio, la Stagione Lirica 2012 inaugura con Aida, nel colossale spettacolo ideato da Alberto Fassini riproposto dal regista Joseph Franconi Lee, con giovane bacchetta di Antonino Fogliani sul podio dell’Orchestra e del Coro del Teatro Regio di Parma e un cast di livello.
Dopo il debutto e una serie di recite a Parma sino all’11 febbraio, la produzione sarà, fino a fine marzo, a Reggio Emilia e a Modena, un’ottima idea in questi periodi di ristrettezze finanziarie e di esigenze di sinergie ed economie. Con le scene e i costumi creati da Mauro Carosi, le luci firmate da Guido Levi e le coreografie immaginate da Marta Ferri, a dar vita alla locandina del lavoro verdiano saranno Carlo Malinverno (Il re d’Egitto), Mariana Pentcheva (Amneris), Susanna Branchini (Aida), Walter Fraccaro (Radamès), Giovanni Battista Parodi (Ramfis), Alberto Gazale (Amonasro), Yu Guanqun (Sacerdotessa) e Cosimo Vassallo (Messaggero). Maestro del Coro è Martino Faggiani.
È un allestimento che non può non piacere a chi ama i film di Cecil B. De Mille; scene grandiose, danze spettacolari e quant’altro in un Egitto visto come poteva immaginarlo Giuseppe Verdi nella tenuta di Sant’Agata attorno al 1870.
“Mostrare l’Egitto non è un compito facile perché le sole testimonianze che abbiamo di questa civiltà riguardano la cultura funeraria – ci dice il regista John Franconi Lee -. Le piramidi erano tombe e a questo noi associamo la millenaria civiltà egiziana. Anche Verdi ha immaginato una tomba dove far concludere il dramma. Così questa Aida comincia e finisce in un clima tenebroso, sepolcrale. È un’opera tutta interni, un’opera notturna, dove in molti quadri prevale un blu profondo, cobalto. La scena disegnata da Carosi è divisa in due livelli a separare due mondi, quello dei forti e quello dei vinti. A questi due, già previsti da Verdi, ho aggiunto un terzo livello che si spinge sul proscenio, dove i personaggi svelano il loro lato più umano, più intimo”.


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sabato 21 gennaio 2012

"AIDA" SFIDA "AIDA" in Il Velino 21 gennaio

"AIDA" SFIDA "AIDA"
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Roma - Ho avuto modo di assistere a una rappresentazione al Teatro dell’Opera del Cairo nel lontano gennaio 1969, in occasione del centenario dell’apertura dell’edificio – un grazioso teatro all’italiana di 7-800 posti con tre ordini di palchi e barcacce, distrutto da un incendio all’inizio degli anni Settanta. Molto simile a quel gioiello che è il Teatro Valle a Roma. Il Teatro dell’Opera del Cairo – si sa - non era stato inaugurato dall’opera commissionata, in seguito ad una gara internazionale, per la bisogna (per l’appunto “Aida” di Giuseppe Verdi) ma con “Rigoletto”. La guerra franco-prussiana aveva reso impossibile il trasporto, via mare, di scene e costumi di “Aida” (confezionati a Parigi). La prima impressione che dava il teatro era il suo carattere intimo (ed un’acustica magnifica, ai livelli di quel prodigio che è il Massimo di Bellini). Lo stesso palcoscenico era poco profondo e con un boccascena di dimensioni tutt’altro che grande; se sulla scena le masse (coro e comparse) potevano essere una cinquantina, il golfo mistico poteva ospitare 50-60 orchestrali al massimo. Nel gennaio 1969 non si rappresentava “Aida”, ma un allestimento russo di un’opera minore del repertorio tedesco portata in tournée in “Paesi amici” (si era in piena guerra fredda e l’Egitto – pardon, la Repubblica Araba Unita era chiaramente schierata). Una visita, anche una sola, al teatro che l’ha commissionata rende immediatamente evidente che l’”Aida” (quale pensata da Verdi) era molto differente da quella degli allestimenti correnti. Lo chiarisce la lettura della partitura: un esempio, non si richiedono quattro (od addirittura sei) arpe, ma due (di cui una in scena, in modo in effetti da potere essere suonate da una sola arpista). “Aida” è, in effetti, un’opera intimista (anche se le scene a due o tre personaggi sono incastonate in momenti corali). Franco Zeffirelli ne ha allestito una versione intimista per il piccolo Teatro Verdi di Bussetto e l’ha portata in giro per vari teatri italiani di dimensioni ridotte. Tra breve si sfideranno due versioni “colossal” del capolavoro verdiano, una parte da Parma e va a Modena e Reggio Emilia; l’altra alla Scala. Venerdì 27 gennaio, Stagione Lirica 2012 viene inaugurata con Aida, nel colossale spettacolo ideato da Alberto Fassini riproposto dal regista Joseph
Franconi Lee, con giovane bacchetta di Antonino Fogliani sul podio dell’Orchestra e del Coro del Teatro Regio di Parma ed un cast di livello. Dopo il debutto e una serie di recite a Parma sino all’11 febbraio, la produzione sarà, sino a fine marzo, a Reggio Emilia e a Modena - un’ottima idea in questi periodi di ristrettezze finanziarie e di esigenze di sinergie ed economie. Con le scene e i costumi creati da Mauro Carosi, le luci firmate da Guido Levi e le coreografie immaginate da Marta Ferri, a dar vita alla locandina del lavoro verdiano saranno Carlo Malinverno (Il re d’Egitto), Mariana Pentcheva (Amneris), Susanna Branchini (Aida), Walter Fraccaro (Radamès), Giovanni Battista Parodi (Ramfis), Alberto Gazale (Amonasro), Yu Guanqun (Sacerdotessa) e Cosimo Vassallo (Messaggero). Maestro del Coro è Martino Faggiani. È un allestimento che non può non piacere a chi ama i film di Cecil B. De Mille; scene grandiose, danze spettacolari e quant’altro in un Egitto visto come poteva immaginarlo Giuseppe Verdi nella tenuta di Sant’Agata attorno al 1870. “Mostrare l’Egitto non è un compito facile perché le sole testimonianze che abbiamo di questa civiltà riguardano la cultura funeraria – ci dice il regista John Franconi Lee. Le piramidi erano tombe e a questo noi associamo la millenaria civiltà egiziana. Anche Verdi ha immaginato una tomba dove far concludere il dramma. Così questa Aida comincia e finisce in un clima tenebroso, sepolcrale. È un’opera tutta interni, un’opera notturna, dove in molti quadri prevale un blu profondo, cobalto. La scena disegnata da Carosi è divisa in due livelli a separare due mondi, quello dei forti e quello dei vinti. A questi due, già previsti da Verdi, ho aggiunto un terzo livello che si spinge sul proscenio, dove i personaggi svelano il loro lato più umano, più intimo”. La versione scaligera è firmata da Franco Zeffirelli ma non è una ripresa di quella del 2006 ma la riproposizione dell’allestimento del lontano 1962 con i magnifici costumi di Lilia De Nobili ed un cast di grandi voci, tra cui Roberto Tagliavini, Marianne Cornetti,Oksana Dyka, Jorge De Leon. Un sfida tra Cecil B. Demille e King Vidor – due “colossal”. (ilVelino/AGV)
(Hans Sachs) 21 Gennaio 2012 19:47

venerdì 20 gennaio 2012

Candide, l'Opera di Roma riparte da Bernstein in Milano Finanza 21 gennaio

Candide, l'Opera di Roma riparte da Bernstein
di Giuseppe Pennisi

Al Teatro dell'Opera di Roma è in scena Candide fino al 24 gennaio, in un allestimento proveniente dal San Carlo. L'opera principale di Leonard Bernstein è stata scritta per voci rigorosamente liriche, una grande orchestra, un'esemplare ouverture e numeri molto complessi. Non mancano, infatti, arie di fioritura, duetti e concertati con cui si trattano con una punta di ironia le convenzioni del teatro in musica.
La regia di Lorenzo Mariani situa le peripezie del protagonista in Europa e in America (seguendo il romanzo di Voltaire) in uno studio televisivo dove verrebbero filmate come parte di una telenovela. Il regista ha affidato ad Adriana Asti il ruolo del filosofo-narratore che racconta la vicenda, riassumendo e sostituendo (in italiano) gli originali dialoghi parlati che rallentano l'azione. Efficaci le proiezioni, specialmente quelle in bianco e nero stile anni Cinquanta (l'opera è del 1956). Di gran livello il cast vocale, Jessica Pratt ha eseguito splendidamente l'aria di coloratura di Cunegonda e i duetti con il suo partner e protagonista, Candide, interpretato dal tenore Michael Spyres. Bravi tutti gli altri (il Pangloss di Derek Welton, la vecchia lady di Jane Henschel, il coro diretto Andrea Gabbiani). Dalla buca d'orchestra Wayne Marshall lega bene orchestra e palcoscenico, ma rallenta i tempi per mettere in risalto il senso armonico di Bernstein e dare un tocco malinconico al finale. (riproduzione riservata)

Non conviene tagliare in L'Osservatore Romano del 21 gennaio

Non conviene tagliare
E l’Asia emergente investe nel teatro
Molti teatri d’opera attraversano una difficile crisi finanziaria. Specialmente in Italia e in particolare i più importanti. Nel 2010, ultimo esercizio per il quale si dispone di dati, soltanto tre delle tredici fondazioni liriche (che gestiscono teatri come La Scala, il San Carlo, l’Opera di Roma, il Massimo di Palermo) hanno chiuso i loro bilanci consuntivi in attivo. Leggermente migliore la situazione dei 28 «teatri di tradizione», in città oggi di media importanza, ma che in passato furono capitali di granducati, ducati, e pure piccoli regni. Sono finanziati principalmente dagli enti locali — gravano sul Fondo Unico per lo Spettacolo (Fus), unicamente per il 4 per cento circa del totale del fondo medesimo — le risorse statali sono meno della metà del finanziamento complessivo. Le imprese, spesso dell’area, forniscono mediamente il 24 per cento delle risorse totali per il loro funzionamento. Numerosi «teatri di tradizione» hanno formato efficienti circuiti per condividere i costi delle produzioni. La loro situazione debitoria è sotto controllo, con qualche eccezione.
Nonostante alcune recenti inchieste giornalistiche presentino una situazione rosea nel resto d’Europa, la riduzione dei finanziamenti pubblici alle arti dal vivo — conseguenza delle politiche di bilancio per contenere disavanzi e ridurre il debito pubblico — sta incidendo anche su Paesi con profonda e diffusa cultura musicale come la Germania. A Berlino si discute se porre sotto un’unica gestione i tre maggiori teatri d’opera del Land allo scopo d’effettuare economie. In Francia, dove il finanziamento pubblico ai teatri d’opera è rimasto tendenzialmente costante tra il 2000 e il 2009, dal 2010 sono in atto restrizioni.
Negli Stati Uniti, il quadro è marcatamente differenziato. A New York da una parte la Metropolitan Opera sta ottenendo nuovo pubblico e nuovo supporto (privato) grazie all’utilizzazione di tecnologie avanzate che consentono dirette in alta definizione in 1.700 cinema in tutto il mondo (60 in Italia), dall’altra la New York City Opera, travolta dai debiti, ha una stagione di pochi titoli in sale secondarie. Ad ogni modo nel 2010 (anno di crisi economica) negli Stati Uniti ci sono state ben dodici prime mondiali di lavori spesso tratti da romanzi o anche film di successo (quali Il giardino dei Finzi Contini e Il postino).
In Asia, invece, il mercato è in piena espansione: sono stati completati nuovi teatri a Pechino, Shanghai, Hong Kong, Singapore; altri sono in costruzione; il pubblico, anche giovane, gareggia per riempirli. Non fanno difetto i finanziamenti, sia pubblici sia privati.
Questa rapida carrellata ripropone non solo gli ormai frequenti interrogativi sui problemi delle fondazioni liriche italiane (caratterizzate da alti costi e bassa produttività) e su come sanarli, ma domande (poste peraltro di rado) sul ruolo del teatro in musica nello sviluppo economico.
La storia economica riconosce che ci sono stati periodi e Paesi — la Gran Bretagna nella prima metà del Settecento, Venezia nel Seicento, Italia e Germania nell’Ottocento in generale — in cui l’opera lirica non è stato un fardello per le casse dello Stato ma un comparto remunerativo per chi vi investiva e che, tramite l’imposizione fiscale, contribuiva alla finanza pubblica. Di norma, però, l’impressione generale è che «la musa bizzarra e altera» (secondo l’acuta definizione del musicologo tedesco Herbert Lindenberger) sia stata offerta dal principe o considerata come «bene posizionale» di comunità affluenti e in gara tra loro per prestigio e sfarzo. Ciò spiega, ad esempio, il pullulare di teatri lirici in regioni italiane relativamente piccole (come l’Umbria e le Marche) ma con città molto competitive.
Nella letteratura convenzionale, il teatro d’opera è stato in certi periodi l’uovo che nasceva da galline prospere: ossia in aree già sviluppate sotto il profilo economico e sociale. Questa tesi viene ribaltata da un interessante studio di Olivier Falck (dell’Ifo, il maggior centro di ricerca economica della Repubblica Federale), Michael Fritsch (dell’università di Jena) e di Stephan Heblich (del Max-Planck-Institut) e pubblicato dall’Iza (l’istituto tedesco di studi sul capitale umano) come Discussion Paper No. 5065.
Il lavoro utilizza una complessa strumentazione statistica per studiare i nessi tra musica lirica e sviluppo utilizzando come campione ventinove teatri costruiti in età barocca in differenti località di un’area che va dalla Renania alla Silesia (regione oggi parte della Polonia). La ricerca impiega una vasta gamma di indicatori per comprendere se i teatri sono stati localizzati in aree già in fase di sviluppo prima della decisione di costruirli (l’ipotesi dominante) o se invece, nati in contesti non più avanzati della media dell’area di espressione tedesca, abbiano innescato un processo di espansione economica. I dati disponibili permettono di affermare che Trier, Bautzen, Stralsund, Rostock, Dessau, Passau, Regensburg — per non citare che alcuni dei luoghi dove sono localizzati teatri del campione — non avevano indici di sviluppo economico e sociale migliori del resto dei territori di quello che sarebbe diventato nel 1870 l’impero tedesco. In molti casi, nel periodo precedente la costruzione e la messa in funzione del teatro esponevano indicatori inferiori alla media.
L’analisi non si limita a offrire una fotografia di quella che era la situazione quando la comunità decise di darsi un teatro con le caratteristiche specifiche per rappresentare opere liriche. Affronta il tema centrale: se e perché il teatro ha contribuito allo sviluppo della zona circostante.
Alla prima domanda, i dati forniscono una risposta positiva. Per affrontare la seconda, lo studio fa ricorso alle scuole economiche più recenti relative allo sviluppo endogeno e al capitale umano. In gran parte delle 29 aree, l’esistenza del teatro dedicato alla musica ha comportato, da un lato, una concentrazione di capitale umano (lavoratori specializzati, musicisti, orchestrali, cantanti) e, da un altro, un’apertura al resto del mondo (tramite le compagnie di giro impiegate per numerosi spettacoli). In effetti, il capitale umano attira altro capitale umano e avvia e sostiene il processo di sviluppo.
Questo chiarisce che la decisione dell’Asia emergente di investire in teatri d’opera è razionale anche dal punto di vista strettamente economico e non solo culturale. Alla luce delle conclusioni dello studio, forse andrebbero riconsiderate le poliche di restrizione al supporto pubblico di teatri d’opera. Soprattutto nei confronti delle realtà efficienti in termini di costi e produzione.
Giuseppe Pennisi, Presidente del Comitato tecnico-scientifico per l’economia della cultura (ministero italiano dei Beni e delle Attività culturali)
21 gennaio 2012
[parola chiave: Arte e cultura | Economia e Finanza]




Giuseppe Pennisi insegna economia all’Università Europea di Roma, è Consigliere del Cnel e presiede il Comitato Tecnico-Scientifico per l’Economia delle Cultura al Ministero dei Beni e delle Attività Culturali.

giovedì 19 gennaio 2012

DUBBI AMLETICI A PALAZZO. BANCHIERI E CRESCITA NELL’OCSE, Il Riformista 20 gennaio

I LIBRI DEI MINISTRI – IL GABINETTO
DUBBI AMLETICI A PALAZZO. BANCHIERI E CRESCITA NELL’OCSE
Giuseppe Pennisi
Sono numerosi i Ministri che alla vigilia (pare) di un CdM in cui si dovrebbero prendere decisioni cruciali sul futuro della crescita del Paese (puntando sulle liberalizzazioni), si passano testi rari, ma sul punto di uscire dalle curiosità “accademiche” (da non considerarsi in tono dispregiativo) e finire sulle pagine dei giornali (non sempre un privilegio). Mentre l’Italia è paralizzata dalle proteste tassisti.
In breve, negli ultimi giorni circolano lavori che sfidano un testo fondamentale di tre economisti italiani expratriés: Antonio Merlo dalla University of Pennsylvania, Vincenzo Galasso del CESifo di Monaco (ma in cattedra alla Bocconi), Massimiliano Landi della Singapore Management University, e Andrea Mattozzi dell’Istituto Universitario Europeo. Per anni hanno studiato il mercato del lavoro dei politici italiani (si veda il loro PIER Working Paper N.09-024) con analisi statistiche che partono dal lontano 1948 ed arrivano ai giorni nostri. Con conclusioni poco entusiasmanti sulla selezione del ceto politico italiano e sulle sue trasformazioni (non in meglio) nel passare dei decenni. A risultati simili sono arrivati Raymond Fishman, Nikolai Harmon , Emir Kamenika e Inger Munk nel NBER Working Paper No. W17726 appena pubblicato in cui il campione riguarda i Parlamentari Europei. Se il problema è europeo (e non solo) parte spalancate ai tecnici selezionati da rigorosi concorsi accademici e da dimostrate capacità d’impresa.
Un lavoro di Gunther Capelle-Blancard e di Claire Labonne, che l’Ocse ha diramato in versione ristretta, ha inserito un forte dubbio in quella che sembrava essere una certezza: la società civile ed il mondo della finanza farebbero molto meglio. Il titolo è eloquente: “More Bankers, More Growth? Evidence from OECD countries” (“Banchieri e crescita nell’OCSE). Il quadro che se ne trae è scoraggiante: non c’è affatto una correlazione positiva tra l’espansione e l’approfondimento del settore bancario e la crescita. Ergo, i banchieri non sono necessariamente buoni piloti delle politiche di sviluppo.
Specialmente se direttamente o indirettamente cedono alle lobby, come conferma Martin Gregor nella rassegna della letteratura sui gruppi di pressione appena apparsa nell’IES Working Paper No. 32/2011. In particolare, se si cede su liberalizzazioni di aziende o categorie protette. Dalla lontana ma prestigiosa Charles University di Praga è giunto questa settimana un lavoro di Jan Bena e Evangela Vourvachaki – CERGE –EI Working Paper No. 452 in cui, sulla base di uno studio empirico, si giunge a stimare che un ben modulato programma di liberalizzazioni può portare in alcune aziende aumenti di produttività sino al 38%

CANDIDE: LA SATIRA POLITICA ARRIVA ALL’OPERA. Il Riformista 20 gennaio

CANDIDE: LA SATIRA POLITICA ARRIVA ALL’OPERA
Beckmesser

Leonard Bernstein ha dovuto aspettare quasi un quarto di secolo dopo la morte perché la sua principale opera per il teatro Candide arrivasse, il 18 gennaio, al Teatro dell’Opera. La si era ascoltata in forma di concerto all’Auditorium di Via della Conciliazione nel 1998 e, nell’ambito di una tournée di una compagnia californiana, al Teatro Argentina nel 2003. Tuttavia, Candide richiede un grande allestimento scenico e voci, orchestra e coro di livello. E’ una doppia satira; tratta dal romanzo di Voltaire e scritta nell’America maccartista, è corrosiva contro l’arroganza del potere politico ed ecclesiastico ed è ironica nei confronti delle convenzioni dell’opera lirica – dalle arie di coloratura, ai duetti appassionati, ai concertati. Ultima raffinatezza un finale in “diminuendo”.
Nell’ambito di una politica di efficienza, l’allestimento in scena Roma viene dal San Carlo di Napoli. E’ uno spettacolo di rilievo. Dalla regia (Lorenzo Mariani) che situa la vicenda in uno studio televisivo dove si svolge qualcosa a metà tra una telenovela ed un talk show, all’ottimo cast vocale agli spigliati balletti Efficaci le proiezioni, specialmente quelle in bianco e nero stile anni Cinquanta (l’opera è del 1956). Adriana Asti, nel ruolo di Voltaire, riassume la complicata vicenda, sostituendo (in italiano) gli originali dia¬loghi parlati che rallentano l’azione.
Tra le voci spiccano Michael Spyres,Bruno Taddia Jessica Pratt, Derek Welton Jane Henschel e il coro, vero protagonista del lavoro,Sul podio il britannico Wayne Marshall, forse un po’ troppo lento nei tempi e senza il brio di Lenny, ma con un tocco di malinconia nel finale.

I TAXI E LE LIBERALIZZAZIONI il Velino 19 gennaio

I TAXI E LE LIBERALIZZAZIONI
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Roma - Glocus e Istituto Bruno Leoni hanno presentano il rapporto "Liberalizzare e crescere. Dieci proposte al governo Monti" che contiene una serie di proposte di liberalizzazioni a costo zero per il bilancio dello Stato. Il rapporto, illustrato dai curatori Linda Lanzillotta (presidente di Glocus ed ex ministro degli Affari regionali) e Carlo Stagnaro (direttore ricerche e studi dell'IBL) sarà discusso da Marcello Clarich (LUISS Guido Carli), Carlo Scarpa (Università di Brescia) e dai responsabili economici dei maggiori partiti: Benedetto Della Vedova (Fli), Stefano Fassina (Pd), Gian Luca Galletti (Udc) e Claudio Scajola (Pdl). Il rapporto fornisce soluzioni tecniche per introdurre la concorrenza in dieci settori chiave dell'economia italiana: mercato del gas, poste, professioni, servizi pubblici locali, ferrovie, fondi pensione, welfare, lavoro, giustizia, istruzione e università. Il dossier fornisce inoltre i dettagli degli interventi normativi che, secondo i due think tank, sono indispensabili per rilanciare la crescita economica in un paese come l'Italia, il cui PIL è stagnante da un ventennio proprio per lo scarso dinamismo dell'economia dovuto all'eccesso di rendite monopolistiche che i settori produttivi devono sostenere. Come si legge nell'introduzione al rapporto, "Intendiamo piuttosto fornire elementi di approfondimento relativi al "come" intervenire, ossia su quali siano le tipologie di riforma che è necessario mettere in atto per restituire dinamismo e vivacità all'economia italiana. È infatti sul come che generalmente la decisione politica si è arenata o ha portato a soluzioni parziali e inefficaci".

Alla redazione del rapporto ha collaborato un team di studiosi composto da Silvio Boccalatte, Cristina Dell'Aquila, Piercamillo Falasca, Ivana Paniccia, Sara Perugini, Emilio Rocca, Serena Sileoni, Vincenzo Visco Comandini. Del coordinamento editoriale si sono occupati Claudia Cavalieri e Filippo Cavazzoni, mentre il rapporto è stato curato da Linda Lanzillotta e Carlo Stagnaro. Il testo integrale del dossier è disponibile sui siti di Glocus e dell'Istituto Bruno Leoni. Il documento, ampiamente riassunto sulla stampa quotidiana, è uno dei numerosi presentati su questo tema alla vigilia di un Consiglio dei ministri che avrà come argomento specifico all’ordine del giorno le liberalizzazioni per incoraggiare la crescita. È più documentato, nonché più aggiornato, di molti altri. E’ stato, però, chiuso in tipografia prima degli avvenimenti degli ultimi giorni: la rivolta dei tassisti che hanno preso in ostaggio le città presentando controproposte (se corrispondono a verità i riassunti sulla stampa del 19 gennaio) adatte più all’economia corporativa del Paraguay durante la dittatura di Alfredo Stroessner che ad uno Stato che fa parte dell’Ocse. Il Governo vigili: se le accetta, l’intero piano di liberalizzazioni va all’aria. I tassisti ormai sono diventati come i sindacati dell’industria carbonifera nella Gran Bretagna degli Anni Settanta. O il Governo vince questa battaglia (liberalizzazione, almeno raddoppio delle licenze nelle grandi città, “price cap” per tariffe per il resto libere, scioglimento delle “cooperative” corporative, società di capitali) o perde la guerra per tenere l’Italia in Europa. Dovrebbe, poi, scattare immediatamente la precettazione ed il ritiro delle licenze per chi non la osserva.

Ci sono ormai due convinzioni diffuse e profonde tanto nei maggiori partiti quanto nella società civile: a) l’aumento dei prezzi dei beni e servizi più frequentemente acquistati dalle famiglie è accentuato dalla ragnatela di regole protezionistiche a tutela di segmenti di mercati; b) senza un forte processo di liberalizzazioni, ulteriori privatizzazioni produrrebbero non un’offerta a prezzi più convenienti per individui, famiglie ed imprese ma rendite di posizione a favore di pochi. Non è un argomento solamente al centro della politica economica italiana. Proprio in questi giorni l’Istituto Max Planck ha pubblicato un’analisi comparata da cui si conclude – sulla base anche dell’esame di alcune direttive comunitarie (quella sul mercato unico dei servizi, quella sull’Opa, quella sulle regole societarie) – che senza un effettivo processo di liberalizzazione il futuro stesso dell’Ue rischia di essere messo in questione. Un altro lavoro del Max Planck classifica, su 39 Paesi, l’Italia tra quelli ad economia di mercato ed ad alto reddito in cui un giovane imprenditore si scontra con regole più complicate e tempi più lunghi per creare un’azienda. Quindi, se l’Ue non liberalizza scoppia. Se l’Italia non liberalizza ad un tasso più rapido della media Ue, resta indietro (dato che è già in ritardo rispetto agli altri). Risolto con decisionismo il nodo-simbolo dei taxi, si potrà affrontare meglio quello del comparto, molto vasto, dei servizi pubblici locali. Circa 400 aziende, con 200mila addetti ed un contributo al pil variamente stimato tra l’1 per cento al 6 per cento (molto marcate le differenze regionali). I tentativi di privatizzazione, che avrebbero dovuto avere un impulso con la finanziaria del 2012, sono stati più formali che sostanziali. Ci è mossi in modo discordante in materia di trasporto pubblico locale, gas, energia elettrica e acque. Ci vuole un “big bang” (liberalizzare tutto insieme per neutralizzare spinte particolaristiche) come proposto in Francia dalla Commissione Attali. (ilVelino/AGV)
(Giuseppe Pennisi) 19 Gennaio 2012 22:35
li.

mercoledì 18 gennaio 2012

Palemo: Faust va all’inferno in Quotidiano Arte 19 gennaio

giovedì 19 gennaio 2012

Al Teatro Massimo dal 22 al 29 gennaio 2012

Palemo: Faust va all’inferno
Giuseppe Pennisi
La conferenza stampa per la presentazione dell’opera che inaugurerà la stagione lirica del Teatro Massimo di Palermo, “La Damnation de Faust” di Hector Berlioz, è convocata in una sede quanto mai insolita: il Centro Sperimentale di Cinematografia di Roma. La ragione è che la regia dell’opera è affidata a Terry Gilliam, un mito del cinema, geniale innovatore del linguaggio televisivo, cinematografico e teatrale postmoderno, per la prima volta impegnato in un’opera lirica, un lavoro, in aggiunta, del tutto inusuale. L’allestimento è stato già visto a Londra, dove la Eno (English National Opera) lo coproduce con il Massimo di Palermo e la Vlaamse Opera di Anversa e Gent, e che vanta la firma di una celebrità come Terry Gilliam.
"La Damnation de Faust" di Hector Berlioz è tratta dalla prima parte del lavoro di Goethe che Berlioz rielabora e sfoltisce utilizzando il testo di Gérard di Nerval, riadatto da Almire Gandonnière e da lui stesso. Non un’opera per la scena in senso stretto. Chiamata dall’autore “leggenda drammatica in quattro parti e dieci quadri”, è stata concepita inizialmente come una “opera da concerto”.
Dopo due rappresentazioni disastrose alla Salle Favart di Parigi nel 1846 (grandi lodi dalla stampa, ma poco pubblico), il successo le arrise solo trent’anni più tardi, dopo il 1870 o giù di lì; da allora è entrata gradualmente nei programmi di complessi sinfonici e di teatri, diventando uno dei lavori più eseguiti (spesso in forma semplificata) di Berlioz.
La versione integrale viene eseguita raramente a ragione dell’imponente organico orchestrale e del doppio coro (di cui uno di voci bianche). Richiede anche difficoltà vocali ai tre protagonisti. Berlioz in pratica rinunciò a vederla eseguita tanto in scena quanto in forma di concerto. Nel 1983, fece scalpore una versione scenica di Giancarlo Cobelli come spettacolo inaugurale del Teatro Comunale di Bologna.
In questi ultimi anni si è vista sia in forma di concerto a Roma (da dove mancava da dieci anni) nell’autunno 2006 sia in una versione scenica che nel gennaio 2007 è salpata da Parma per andare verso altri teatri. Differisce da gran parte dei numerosi lavori musicali ispirati a Goethe per vari motivi. In primo luogo, Faust non viene redento (ed assolto) ma il patto con il diavolo lo porta diritto all’inferno. In secondo luogo, il patto viene concluso non a ragione delle pulsioni contrastanti nell’animo del protagonista (la tensione verso il futuro e le radici nel presente e nel passato) ma a ragione della noia proto-esistenziale, dell’ennui, che lo porta a sedurre Margherita e a fare di lei un’assassina.
Evidenti i riferimenti ad un altro lavoro di Berlioz: Lélio ou le retour à la vie, un melologo proto-esistenzialista sull’ennui de vivre, composto come seguito della Symphonie Fantastisque. Non segue, poi, una vicenda lineare ma, ipotizzando che l’ascoltatore già conosca la trama, propone un vasto numero di scene musicali (non dieci come i quadri indicati nel libretto ma una ventina) in una vasta sinfonia quadripartita. È significativamente più breve delle maggiori opere di Berlioz per il teatro.
Terry Gilliam interpreta la “leggenda drammatica” come un’allegoria del declino spirituale e culturale della Germania dagli Anni Venti, al nazismo, ai campi di concentramento. Non mancano, nella regia, riferimenti a Thomas Mann oltre che a Marlowe e a Goethe in una fantasmagoria visiva in cui riferimenti alla pittura del romanticismo tedesco si fondono con nazionalismo militaresco, la prima guerra mondiale e filmati d’epoca sino alla catastrofe finale. In tale contesto, emerge la duplicità sia di Faust sia di Mefistofele.

martedì 17 gennaio 2012

Al Massimo di Catania va in scena una Carmen di passione e sangue Il Riformista 17 gennaio

Al Massimo di Catania va in scena una Carmen di passione e sangue
Beckmesser
Catania. Con la Carmen che il 15 gennaio ha inaugurato la stagione
lirica, il Massimo Bellini di Catania è tornato ai tempi in cui
(dato che dispone della migliore acustica in Italia) Dame Joan
Sutherland e Richard Bonynge lo consideravano la loro sala di registrazione
favorita.
Nell’allestimento in scena sino al 25 gennaio, l’opera viene offerta
in versione integrale in francese con i recitativi accompagnati
composti per l’edizione di Vienna del 1875. La messa in scena di
Vincenzo Pirrotta è a basso costo, innovativa e di grande efficacia.
Con l’odore del sangue (e di mafia) sin dalle prime battute dell’orchestra concertata con vigore da Will
Humburg. Altro elemento centrale è il “richiamo della carne”.
La dizione è accettabile. La concertazione curata nel dettaglio ed intercetta a pieno le finezze dell’orchestrazione
originale (che delizia l’assolo del flauto nell’intermezzo!). Carmen è una felina Rinat Shahan (già ascoltata
a Roma alcuni anni fa e “star” di un recente festival di Glyndebourne) , piena di temperamento e ardita nelle
tonalità gravi, Don José è il giovane e bel tenore lirico russo Vsevolod Grivnov (grande successo un anno fa
alla Scala in “Eugene Oneghin” di Tchaichosky). Maschio ed attraente, l’Escamillo di Homero Pérez-Miranda,
spagnolo. Viene dalla Moldavia Tatiana Lisnic (Micaëla) già affermata come buon soprano lirico di coloratura.
Bravi il coro ed i caratteristi. Grande successo per l’esecuzione musicale. Beckmesser

Un’insolita "damnation de Faust" di Berlioz, senza spazio per la redenzione in Il Sussidiario 16 gennaio

OPERA/ Un’insolita "damnation de Faust" di Berlioz, senza spazio per la redenzione
Giuseppe Pennisi
lunedì 16 gennaio 2012
Credit: Tristram Kenton
Approfondisci
OPERA/ "Candide" sbarca a Roma ed è tutto da ridere e da riflettere, di G. Pennisi
RITRATTI/ Ottorino Respighi e l'Orchestra del Duce, di G. Pennisi
Lunedì 16 Terry Gilliam e Roberto Abbado presenteranno, in un luogo inconsueto (il Centro Sperimentale di Cinematografia a Roma) l’opera con cui viene inaugurata la Stagione 2012 del Teatro Massimo di Palermo: “La damnation de Faust” di Hector Berlioz.
Terry Gilliam è noto come geniale innovatore del linguaggio televisivo, cinematografico e teatrale postmoderno, per la prima volta impegnato nell'opera; ciò spiega il luogo della presentazione e perché saranno presenti anche gli allievi della Scuola Nazionale di Cinema. L’allestimento è coprodotto dal Teatro Massimo con la ENO-English National Opera di Londra e la Vlaamse Opera di Anversa e Gent. Terry Gilliam interpreta la “leggenda drammatica” come un’allegoria del declino spirituale e culturale della Germania dagli Anni Venti, al nazismo, ai campi di concentramento. Non mancano riferimenti a Thomas Mann oltre che a Marlowe e a Goethe in una fantasmagoria visiva in cui riferimenti alla pittura del romanticismo tedesco si fondono con nazionalismo militaresco, la prima guerra mondiale e filmati d’epoca sino alla catastrofe finale. In tale contesto, emerge la duplicità sia di Faust sia di Mefistofele.


La Damnation de Faust di Hector Berlioz non è un’opera per la scena in senso stretto; chiamata, dall’autore “leggenda drammatica in quattro parti e dieci quadri”, è stata concepita inizialmente come un'“opera da concerto”. Dopo due rappresentazioni disastrose alla Salle Favart di Parigi nel 1846 (grandi lodi dalla stampa, ma poco pubblico), il successo le arrise solo trent’anni più tardi, dopo il 1870 o giù di lì; da allora è entrata gradualmente nei programmi di complessi sinfonici e di teatri, diventando uno dei lavori più eseguiti (spesso in forma semplificata) di Berlioz.

Si presta però a essere rappresentata in teatro. Nel 1983, fece scalpore una versione scenica di Giancarlo Cobelli come spettacolo inaugurale del Teatro Comunale di Bologna poiché nella scena finale compariva un ermafrodito. Più di recente un allestimento di Hugo De Ana, presentato a Parma, è stato concepito tenendo conto delle esigenze di uno spettacolo (co-prodotto con la Fondazione Arena di Verona) che avrebbe viaggiato a lungo.
n un ambiente unico a forma di globo, coglieva, con le proiezioni, l’ambiguità dell’opera: l'ossessiva giustapposizione di simboli cristiani con quadri violenti e orgiastici (unitamente all’abbondanza di nudi maschili) lo pone continuamente in bilico tra il religioso e il blasfemo. La noia di vivere del protagonista diventava decadenza.


Quella di Berlioz è una lettura particolare del lavoro di Goethe. E' l’ennui de vivre che porta il protagonista al peccato e al delitto, ed alla sua “dannazione” finale. In Goethe non c’è spazio per un’ennui de vivre così distante dal romanticismo tedesco; non solamente non la percepisce Faust (che si riscatta proprio con la sua vitalità e la sua operosità per il bene comune) ma neanche Werther i cui “dolori” portano al suicidio. In Berlioz, c’è, però, un’interessante novità: l’amore di Faust per la natura (sia nella pianura ungherese della prima parte sia nell’invocazione “Nature, immense, impénétrable et fière” nella quarta parte). Tale amore potrebbe riscattarlo al pari di come in Goethe lo salva il suo lavoro per il resto del genere umano. Ma nel pessimismo di Berlioz non c’è spazio per redenzione. Vedremo come Gilliam tratta questi aspetti.

Una Carmen «low cost» inaugura il Bellini in Avvenire 17 gennaio

Una Carmen «low cost» inaugura il Bellini


DI GIUSEPPE PENNISI

Carmen è una felina Rinat Shaham, piena di temperamento e ardita nelle tonalità gravi; ha già cantato il ruolo a Ro¬ma; ha trionfato nell’opera di Bizet al Festival Glynde¬bourne ed il successo si è ripetuto alla serata inaugu¬rale della stagione 2012 del Massimo 'Bellini' di Cata¬nia, ancora oggi il teatro li¬rico con la migliore acusti¬ca in Italia e forse in Euro¬pa. A tal punto che, per an¬ni, è stata la sala di regi¬strazione favorita di Joan Sutherland e suo marito, il direttore d’orchestra Ri¬chard Bonynge.

Rinat Shaham è un mezzo soprano israeliano in gra¬do di arrivare a tonalità da contralto (come voleva Bi¬zet), con la dizione perfet¬ta (in francese) e con la ver¬ve di una giovane siciliana. Fa girar la testa al giovane brigadiere Don José, Vse¬volod Grivnov; viene dalla scuderia del Mariinskij di San Pietroburgo e in Italia si è già fatto notare nel ruo¬lo di Lensky in Eugenio O¬negin

di Caicovskij; tenore lirico, Grivnov ha qualche difficoltà nei passaggio 'spinti'. Volitiva e volubile , Carmen perde la propria testa per il bel torero Esca¬millo, l’attraente e focoso Homero Pérez-Miranda, spagnolo 'comme il faut'. In questo cast giovane e in¬ternazionale non manca u¬na moldava: Tatiana Lisnic (Micaëla), affermata come buon soprano lirico di co¬loratura, nel ruolo della dolce ed innocente Micae¬la.

Carmen è opera polifo¬nica in cui i quattro prota¬gonisti sono affiancati da una mezza dozzina di soli-sti in ruolo minori, coro, danze e mimi. L’insieme regge bene grazie all’affia¬tamento tra l’esemplare re¬gia di Vincenzo Pirotta (che fa sentire odor di sangue sin dall’inizio) e la direzio¬ne musicale di Will Hum¬burg, intensa e drammati¬ca.

È stata scelta una versione ibrida, ma integrale del la¬voro, di Georges Bizet. Da¬to il cast internazionale (e le difficoltà che alcuni inter¬preti avrebbero avuto nel recitare in francese) l’or-chestrazione è quella ruvi¬da dell’originale di Bizet ma i recitativi sono quelli 'ac¬compagnati' da Ernest Guiraud per le rappresen¬tazioni a Vienna nel 1875.

Di particolare livello l’alle¬stimento scenico (un telo¬ne su cui vengono proiet¬tati colori in linea con lo spirito dei vari momenti musicali e unici elementi tavoli in legno e sedie di pa¬glia) e la regia molto tea¬trale di Vincenzo Pirrotta, noto per le sue interpreta¬zioni di tragedie greche ma per la prima volta alle pre¬se con la lirica: a basso co¬sto ma innovativa ed effi¬cace. Parte del pubblico, nostalgico di colossal folk¬loristici, ha mostrato di considerarla troppo 'pove¬ra'. Lo spettacolo dovrebbe dare la svolta di un teatro che ha avuto numerose dif¬ficoltà il cui 2012 inizia con un aumento del 20% degli abbonati e sette turni di ab¬bonamento, nonché con un cartellone di lavori co¬nosciuti dal grande pubbli¬co e con interpreti giovani. Il 'Massimo Bellini' si me¬rita i fervidi auguri.

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A Catania convince il debutto alla regia lirica di Vincenzo Pirotta col capolavoro di Bizet: messa in scena al risparmio, ma efficace e innovativa. Applausi al soprano israeliano Rinat Shahan

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La «Carmen» al Bellini di Catania

Merkel e Monti, una doppia bocciatura dai mercati in Il Sussidiario del 17 gennaio

Economia e Finanza
FINANZA/ 1. Merkel e Monti, una doppia bocciatura dai mercati
Giuseppe Pennisi
martedì 17 gennaio 2012
Mario Monti e Angela Merkel (Infophoto)
Approfondisci
SCENARIO/ Pelanda: ecco l'ultimatum dell'Italia alla Merkel
FINANZA/ C'è un piano di S&P’s e Usa per far crollare l’Europa (e l'Italia), di M. Bottarelli
vai allo speciale Euro e Italia: quale destino?
Tirez sur le pianiste è il titolo di uno dei più bei film di François Truffaut un nouvelle vague di classe spesso ripreso in televisione e di cui, grazie al Cielo, esiste un buon Dvd. “Chi ha studiato le tragedie greche sa tutto sull’animo umano”, amava ripetere un politico di razza della Prima Repubblica. Il film di Truffaut e una delle tragedie greche che più rivelano l’animo umano, Edipo Tiranno, non possono non venire in mente alla lettura dei commenti apparsi su molto quotidiani italiani in seguito al downgrade, da parte di Standard & Poor’s (S&P's), dei debiti di nove Stati dell’eurozona e alla vigilia del “mini-vertice” di ieri tra il Presidente del Consiglio, Mario Monti, e i leader dei partiti che sostengono il Governo. Mini-vertice che, a sua volta, si colloca nel quadro di un viaggio nelle capitali europee che si doveva concludere con un incontro, poi annullato, a tre (Merkel- Sarkozy -Monti) il 20 gennaio a Roma.
Gran parte dei commenti accusano le società di rating di essere un oligopolio, controllato, o quanto meno ispirato, da interessi “anti-europei” americani e sostengono che l’abbassamento del giudizio per i titoli di nove Stati dell’eurozona dovrebbe indurre a concludere al più presto l’accordo sull’“unione fiscale” (ossia sul rigore delle politiche di bilancio). Come nel film di Truffaut, se nel Far West due gruppi di pistoleri si azzuffano, devono evitare di sparare sul pianista del saloon, il quale non solo non c’entra niente, ma, con il suo strimpellare, può contribuire a rasserenare gli animi. Come in Edipo Tiranno, è il colpevole l’unico a non avere compreso di essere lui stesso l’autore del misfatto e della punizione delle agenzie di rating che a volte hanno il cipiglio di adirati dei.
Le agenzie fanno il loro lavoro: dando punteggi ai titoli riducono i costi di transazione dei singoli operatori, di solito rivelando agli altri quello che la grande maggioranza sa. I rating sono un po’ come le pagelle: servono a far sapere agli insegnanti dell’anno successivo come il singolo allievo è andato nell’anno precedente. Non sono vincolanti: i somari possono diventare primi della classe e viceversa. Le agenzie di rating vivono unicamente della loro reputazione. A volte prendono cantonate, ma se sbagliano spesso nessuno le prende sul serio e paga per i loro servigi. Il “nemico americano” non c’entra nulla, poiché in caso di sfaldamento dell’eurozona sarebbero i fondi Usa a essere seriamente colpiti. Vederlo dietro le agenzie è come pensare che gli analisti si comportano all’unisono come il marito che si castra per fare dispetto alla propria moglie.


Non è detto che S&P's sia andata fuori strada la sera del 12 gennaio quando ha bacchettato nove Stati dell’eurozona. E non è neanche detto che le bacchettate siano un incentivo a concludere al più presto l’euro-negoziato per l’accordo a 26 sull’“unione fiscale”. Chi conosce Edipo Tiranno - ripeto - sa che a volte l’autore del delitto è l’ultimo a rendersene conto.
La mattina del 12 gennaio solerti fonti ufficiose hanno diramato on line la terza bozza dell’accordo che si sta negoziando. Sono state recepite le proposte di Italia e altri in merito all’articolo 4 (quello relativo ai tempi e ai modi per ridurre il rapporto tra debito pubblico e Pil), ma tutto il “titolo” della bozza d’accordo relativo alla crescita è unicamente qualche auspicio con il suggerimento di intonare novene ai Santi Protettori dell’Unione europea.
Non solo i Santi Protettori hanno priorità e impegni di maggior momento (rispetto alla politica di crescita di una minuta parte dell’umanità), ma unicamente gli aztechi e gli antichi egiziani credevano che le preci e i sacrifici di agnelli portavano sviluppo. In effetti, l'agenzia di rating ha bocciato un “accordo” in base al quale verrebbero coordinate politiche deflazioniste accentuandone gli effetti. E rendono più difficile la crisi del debito sovrano europeo, poiché se non cresce il Pil il rapporto tra debito e prodotto non può che crescere. Commentatori, negoziatori, barracuda-esperti e, soprattutto, leader politici dovrebbero tenere conto questa lettura della “grande bocciatura”.
Il brutto voto dato anche ai titoli francesi ha, però, un aspetto positivo: a 100 giorni dalle elezioni, l’iper-Presidente Nicolas Sarkozy dovrebbe essere indotto all’umiltà, a comprendere che non può presentarsi come “il grande mediatore” e che un vertice europeo al mese può essere un boomerang, non uno spot elettorale. Pure il Presidente del Consiglio italiano, Mario Monti, può trarre lezioni per la diplomazia italiana nell’euronegoziato. Non è tanto importante che si arrivi a un accordo quanto che gli interessi legittimi dell’Italia vengano riconosciuti.
Ciò non vuole dire solamente commiserazione e clemenza in materia di riduzione del debito, ma sbloccare gli elementi che frenano la crescita, primo tra tutti la parità centrale definita a fine dicembre 1989 (nel quadro degli accordi europei sui cambi) e, in secondo luogo, l’apprezzamento dell’euro-Italia e il deprezzamento dell’euro-Germania. Alla Farnesina circola un grafico della Commissione europea secondo cui dal 1999 l’euro-Italia si è apprezzato del 30% e l’euro-Germania deprezzato dal 10%; nel contempo la quota italiana dell’export mondiale si è dimezzata. L’ha visto Palazzo Chigi? E che ne pensa?

lunedì 16 gennaio 2012

FONDAZIONI LIRICHE: NON E' PIU' TEMPO DI PIAGNISTEI in Il Riformista del 15 gennaio

FONDAZIONI LIRICHE: NON E’ PIU’ TEMPO DI PIAGNISTEI
Giuseppe Pennisi*
Che impatti avranno sulle fondazioni liriche le misure di finanza pubblica appena varate dal Governo? Per il momento nessuno o quasi ne parla. Eppure appena un anno fa, quasi tutte le 13 fondazioni erano in subbuglio, scioperi si succedevano a manifestazioni sino al Veni, Vidi, Capii dell’allora Ministro dell’Economia e delle Finanze Giulio Tremonti ad una rappresentazione del verdiano Nabucco al Teatro dell’Opera di Roma ed al successivo “ripienimento” (termine filologicamente più esatto di quello “ripianamento” utilizzato allora sulla stamp) del Fondo Unico per lo Spettacolo (FUS) tramite sia un incremento dell’apporto dello Stato sia un aumento delle accise su alcuni oli minerali, un’imposta di scopo finalizzata al FUS. La legge di “ripienamento” del Fus prevedeva un nuovo regolamento per le fondazioni entro il 31 dicembre 2011, termine prorogato di 12 mesi.
I problemi del settore sono stati tamponati, non risolti. Si è portata a termine la stagione 2010-2011 ma la stagione 2011-2012 è stata, per cosi dire, inaugurata dal “commissariamento” di una fondazione – quella di Trieste – che un tempo sembrava tra le più efficienti d’Italia (ed aveva ben nove turni d’abbonamenti) .Non solo poche settimane prima del cambio di Governo , l’allora Ministro dei Beni e delle Attività Culturali Giancarlo Galan (responsabile per il settore), si è chiesto , a voce alta, se “potremo ancora permetterci ” ,interrogativo tanto più amaro nell’anno in cui si celebrano quei 150 anni dall’istituzione del Regno d’Italia e quindi quel Risorgimento a cui l’opera ha dato un apporto non secondario (si veda Giovanni Gavazzeni, Armando Torno e Carlo Vitali in un libro – O mia Patria- Storia musicale del Risorgimento tra inni, eroi e melodrammi (Dalai Editore, 2011). Nell’occasione, Galan ha citato altri teatri a forte rischio: il Comunale di Bologna, il Teatro del Maggio Musicale Fiorentino . il Carlo Felice di Genova ed il San Carlo di Napoli. Uscendo dal perimetro delle fondazioni liriche ma restando nel settore, l’estate scorsa il Festival Puccini a Torre del Lago si è tenuto grazie a supporto in extremis dall’Estremo Oriente. A fine dicembre è stata annunciata la “stagione lirica” del “mitico” (un tempo) Teatro Regio di Parma: appena due titoli e, se le cose vanno bene, tre nel Festival Verdi in ottobre. In alcuni teatri riprendono gli scioperi a oltranza.

I provvedimenti adottati nella primavera 201quando molto sipari minacciavano di scendere per sempre (ponendo circa 6000 persone in cassa integrazione “in deroga”) sono stati unicamente un sollievo di breve durata – per i teatri e per gli appassionati di musica lirica - in quanto i nuovi trattati europei (se varati) implicano manovre di 50 miliardi di euro l'anno per i prossimi 15- 20 anni al fine di portare il debito pubblico al 60% del Pil. Tali manovre non potranno lasciare indenne un comparto che dal 2001 al 2010 ha accumulato perdite per oltre 216 milioni di euro e debiti per oltre 300 milioni di euro. Tra il 2001 ed il 2009, il totale dei contributi pubblici (FUS più enti territoriali) è passato da 332 a 344,7 milioni di euro; i privati hanno contribuito con una media di 42,5 milioni di euro l'anno; gli incassi da botteghino hanno raggiunto gli 84,5 milioni di euro (rispetto ai 72,2 milioni di euro nel 2001). I costi totali di produzione sono arrivati a 528.4 milioni di euro; quelli per il personale sono cresciuti da 280,5 a 316,6 milioni di euro. Una rappresentazione lirica in Italia costa il 140% della media dell'eurozona, il 250% della media dell'Unione Europeo, anche a ragione di inefficienze difficili da curare- non solo numero di dipendenti molto vasto rispetto alla produzione ma anche abitudini amministrative in certi casi pure ilari. Ad esempio, una ventina di anni fa in un teatro vennero presi a nolo i turbanti per il coro de I Pescatori di Perle a 100.000 lire per sera (ossia tra prova generale e recite) 800.000 lire a turbante; in un altro, agli inizi degli Anni Settanta, si preferì fittare (per non avere problemi di magazzino) le scarpe delle comparse piuttosto che utilizzare dei copriscarpa di stoffa nonostante il prezzo d’acquisto di un copriscarpa fosse inferiore al nolo per una sera di una scarpa.
Pur se tali distorsioni – si spera- appartengono al passato, nel 2009 i nostri teatri hanno messo in scena in media un’ottantina di recite d'opera ciascuno (dalle 125 della Scala alle 25 del San Carlo) contro le 226i recite della Staatsoper di Vienna, le 203 dell'Opernhaus di Zurigo, le 144 dell'Opéra di Parigi, le 177 della Bayerische Staatsoper di Monaco o le 161 della Royal Opera House di Londra. Quindi, la produzione dei 6.000 dipendenti e delle centinaia di artisti scritturati è molto bassa se raffrontata con il resto d’Europa.
Per individuare terapie, occorrono però dati certi ed aggiornati. Tentare di averli vuol dire addentrarsi in un vero e proprio labirinto. Pochissime fondazioni liriche (un paio su 13) pubblicano i bilanci preventivi e consuntivi sui loro siti web (come fanno gran parte dei teatri stranieri); un’unica istituzione – il Rossini Opera Festival – pubblica il “Bilancio Sociale” (con stime del valore aggiunto sociale e degli impatti della collettività). Dalla settimana prossima, sarà on line anche il Bilancio Sociale dell’Arena di Verona. Per dati completi e comparati, inutile rivolgersi all’associazione di categoria, l’Anfols in cui sito web pare in permanente costruzione. Sarebbe auspicabile che nell’”operazione trasparenza” che l’attuale Governo si è impegnato a intensificare , il sito del Ministero dei Beni e delle Attività Culturali (in quanto principale finanziatore delle fondazioni) abbia una specifica “finestra”con un’analisi dei bilanci e della produttività delle fondazioni od almeno un link ai dati dei singoli teatri. Il sito del Ministero –occorre sottolinearlo – è encomiabile per altri aspetti: è uno dei pochi a pubblicare ogni mese un aggiornamento della propria contabilità.
Da dati incompleti, peraltro, si ricava che nel 2010 solo quattro fondazioni non hanno chiuso i conti in perdita: Verona , Roma, Palermo e Napoli. Mentre, però, i saldi attivi di Verona (156.000 euro), Roma (23.000 euro) e Napoli (4.200 euro) sono quasi trascurabili, unicamente Palermo (sino al 2005 considerata un pozzo senza fondo) espone un solido attivo di 1,2 milioni di euro. Inoltre, alcuni delle fondazioni con un modesto saldo attivo hanno un forte debito iscritto sullo stato patrimoniale: Verona ( 14,8 milioni di euro), Roma (27,8 milioni di euro) e, soprattutto, Napoli (54,4 milioni di euro). Lo stesso Massimo palermitano ha un debito di 23,6 milioni di euro E La Scala, il più noto e più prestigioso dei nostri teatri? Il bilancio 2010 chiude con un forte passivo (9,6 milioni di euro).
La svolta effettuata da Palermo dimostra che è possibile mettersi su un sentiero virtuoso dopo essere stati, per lustri, su un sentiero peccaminoso. Non bastano, però, singoli esempi per elaborare una strategia; occorre un quadro completo della situazione finanziaria, della produttività, delle masse artistiche ed amministrative del settore. Se e quando dati completi e corredati da serie storiche verranno resi disponibili si potranno delineare strategie che non siano meramente di breve periodo, e definire parametri di valutazione e di selezione per distribuire nel modo più efficiente e più efficace le scarse risorse pubbliche ed incanalare, con incentivi, le elargizioni liberali di privati. Le difficoltà economiche e finanziarie possono essere la molla per una strategia di risanamento e sviluppo che manca da anni. E diventare, quindi, un’opportunità
I dati frammentari esistenti suggeriscono una riflessione su alcuni punti. In primo luogo, premiare (come è prassi ad esempio nell’attuazione dei programmi a valere sui fondi strutturali europei) le fondazioni che tengono i conti sotto controllo ed hanno alti indici di produttività. In secondo luogo, attuare meccanismi di matching grants (come è prassi nel resto del mondo): privilegiare chi ottiene maggiori risorse sul mercato. In terzo luogo, chiedere che almeno il 70% degli spettacoli sia in co-produzione per ridurre i costi di allestimenti e scritture (il cachet di un artista per 30 recita è ben differente da quello per 3 recite). In quarto luogo, prevedere che gli amministratori delle fondazioni che chiudono il bilancio in rosso per alcuni anni cambino mestiere (e siano passibili di azione di responsabilità). In quinto luogo, concentrare in una o due istituzioni, le numerose scuole d’opera create in questi ultimi anni.. In sesto luogo, rivedere le piante organiche e ridurre il personale in eccesso. In settimo luogo, concentrare le risorse per il balletto in un’istituzione come il Royal Ballet britannico o l’American Ballet Usa che operi in tutte le maggiori fondazioni.
L'opera si salva con dati certi e trasparenti e con azione concrete. Non è più tempo di piagnistei, come disse Piero Bargellini (allora Sindaco di Firenze) con il fango sino alle ginocchia nella Galleria degli Uffizi il 5 novembre 1966.
Al MIBAC Giuseppe Pennisi presiede il comitato tecnico-scientifico per l’economia della cultura ed è componente del Consiglio Superiore.