SHOCK ECONOMY
Riforme per la Crescita un Problema ineludibile
Giuseppe Pennisi
Premessa
Al momento in cui viene scritto questo articolo, non si sa se ci sarà un Decreto Sviluppo e quali saranno i suoi contenuti. Pullulano idee e proposte, nonché diverbi tra componenti di un Esecutivo, che ha appena ottenuto un rinnovo della fiducia parlamentare per pochi voti.
Nel delineare gli elementi di una possibile strategia pluriennale mi sono , quindi, basato su due ipotesi: a) la prima che l’Italia intenda restare nell’unione monetaria europea e che (come analizzato su Charta di settembre/ottobre 2011) per almeno i prossimi dieci anni (più probabilmente venti) si dovranno attuare forti restrizioni alla finanza pubblica; la seconda è che qualsiasi altra cosa ci sia e quale che sia il Governo che lo confeziona e il Parlamento che lo valuta dovranno far parte su ciò che qualsiasi persona razionale vorrebbe trovare nel programma di crescita (qualsiasi altra componente vi si voglia includere). Questa ipotesi è il problema della identificazione dei “beni primari” (quelli che tutti i raziocinanti vogliono avere qualsiasi altra cosa essi vogliano) quale esposto nella “Teoria della Giustizia”di John Rawals nel lontano 1971. Riprendendo in mano la letteratura sulla crescita economica degli ultimi vent’anni ci si accorge che c’è un filone comune: crescono i Paesi e le regioni con i costi di transazione più bassi, ossia quelli ove le transazioni possono essere fatte pagando meno in perditempo, mano morte, procedure, bolli e quant’altro e dove, quindi, c’è una forte fiducia reciproca, essenziale per effettuare transazioni senza troppi marchingegni che ne aumentano il costo. È questo il filo conduttore nel rigoglio di nuovi approcci (molti ancora in nuce, alcuni a livello solo teorico ed altri ancora non molto più di uno slogan o di mera affabulazione). Ciò implica il rilancio del neo-istituzionalismo, utilizzando, però, i metodi quantitativi d’analisi sviluppati nei decenti precedenti.
È il nesso che collega le teorie dello sviluppo endogeno a quelle basate sull’applicazione della teoria economica dell’informazione allo sviluppo, a quelle ancora ancorate all’analisi dei costi economici e politici di transazione, alla revisione di alcuni paradigmi di base dell’economia internazionale, all’utilizzazione, a fini esplicativi, di alcuni paradigmi tecnico-economici derivanti dalle nuove tecnologie dell’informazione e della comunicazione. Ad esempio, sono marcatamente e chiaramente neo-istituzionalisti i concetti di fondo degli ultimi “World Development Reports” con i quali si cerca di sistematizzare il fiorire di nuovi approcci. È anche neo-istituzionale il concetto di “social capital”, inteso come il complesso di norme e di reti che consentono agli individui di agire collettivamente. Siamo alle prese – dice acutamente O.E. Williamson – con un “calderone di idee”, molte in competizione le une con le altre, sia in materia di storia economica e sviluppo di norme sociali e quindi di capitale sociale sia in materia di costi di transazione, sia nel campo della comprensione e modellizzazione dei rapporti semi-contrattuali informali sia in quello dell’economia evoluzionista.
E’ pure un concetto di base sia alle teorie dello sviluppo endogeno sia ai vari filoni dell’economia neo-istituzionale, quale quello del “sentiero pre-determinato” (“path dependence”), viene interpretato in modo giustapposto e divergente dalle varie scuole di pensiero. Ciascuna di esse, infine, pare seguire un proprio filone distinto di analisi e ricerca nell’ambito di una vasta area neo-istituzionale interdisciplinare in cui gli strumenti dell’economista devono fondersi con quello dello scienziato della politica, dello storico, dello psicologo e dell’esperto in problemi dell’amministrazione e della gestione. Un filone, paradossalmente, particolarmente consono alla formazione interdisciplinare del giornalista economico.
Ma torniamo a come ridurre i costi di transazione che in Italia sono più alti che negli altri Paesi dell’eurozona e di buona parte dei Paesi Ocse. Non basta costituzionalizzare che è lecito tutto ciò che non è vietato per legge. Occorre: a) costituzionalizzare che tutte le leggi (e regolamenti e circolari varie) siano “a termine” (una “sunset regulation” generalizzata) per impedire il formarsi di un Himalaya di norme spesso contraddittorie ed accavallate le une sulle altre; b) dimezzare il numero degli eletti (a tutti i livelli) e portare i loro emolumenti alla media europea; c) mettere in soffitta il bicameralismo; e d) incidere sui comportamenti di individui, famiglie, imprese, pubblica amministrazione e politica in modo che diventino produttività e dinamici quanto quelli delle aree più dinamiche dell’Unione Europea (UE) e, se possibile, dell’OCSE. Douglas Cecil North ha preso il Nobel per avere dimostrato non solo che ciò è possibile ma che negli ultimi cinquecento anni chi lo ha fatto è corso più rapidamente degli altri. Sotto il profilo teorico lo si ottiene con “giochi ripetuti” in modo che tutti si abituino a seguire le stesse regole - se possibile quelle di chi è più produttivo e più competitivo.enza una drastica riduzione dei costi di transazione, qualsiasi altra misura presente nel Decreto Sviluppo, se e quando sarà varato, non riuscirà a mordere
In questa nota si delineano elementi di un programma che riguardano essenzialmente i seguenti punti: a) il futuro dei giovani (la principale risorsa del Paese); b) la riduzione dello stock di debito pubblico; c) le infrastrutture e d) le liberalizzazioni.
I giovani e la previdenza
Si può rimettere mano al sistema previdenziale tenendo specialmente in conto le esigenze delle giovani generazioni? Il tema, uscito dalla porta al momento della “manovra di Ferragosto”, è rientrato dalla finestra quando a fine settembre se ne è parlato in Consiglio dei Ministri a proposito di programma per la crescita, da presentare entro le prossime due settimane.
L’UE ci chiede di “riformare la riforma” della previdenza che a oltre 16 anni dal suo varo ha mostrato di non avere raggiunto i propri obiettivi: nonostante abbia creato un abisso tra il trattamento dei padri e quello su cui possono contare i figli, non ha arrestato la crescita della proporzione del Pil destinata alla spesa previdenziale: ora supera il 15% e si potrà stabilizzare unicamente se il tasso di crescita dell’economia torna dal rasoterra all’1,8% (secondo le stime del nucleo di valutazione della previdenza del ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali) o dell’1,6% (secondo le stime della Ragioneria Generale dello Stato).
La richieste dell’UE guardano essenzialmente al profilo dell’onere sulla finanza pubblica: si può ridurlo – occorre chiedersi – stabilendo una maggiore equità dell’attuale tra giovani generazioni e quelle più anziane? E si può farlo senza toccare i “diritti acquisiti”?
Cerchiamo di rispondere a queste domande iniziando dall’ultima. I “diritti acquisiti” variano al variare delle condizioni economiche e socio-politiche. La riforma del 1995 (e i suoi ritocchi) hanno inciso fortemente su quelli che sembravano essere i “diritti acquisiti” di tutti i futuri pensionati – da quelli appena entrati nel mercato del lavoro a quelli prossimi alla quiescenza.
Tuttavia, il provvedimento che più ha modificato i “diritti acquisiti” proprio di chi era già in pensione è la modifica del sistema di indicizzazione (aggiornamento degli assegni previdenziali all’andamento di prezzi e salari), una misura apparentemente tecnica, ma che in vent’anni ha trasferito circa 80 miliari di euro dalle tasche dei pensionati a quelle degli enti previdenziali. Mentre in un sistema previdenziale privato i “diritti” dipendono in gran misura dalla capacità di gestione alla luce di un andamento spesso imprevedibile dei mercati, nel sistema previdenziale pubblico i “diritti” sono il frutto di come Governi e soprattutto Parlamenti leggono l’evoluzione economica e sociale.
Sarebbe, però, errato non partire dal complesso di riforme già in atto per vedere come meglio tararle alle esigenze dei giovani. I suggerimenti e le proposte non mancano. Le più organiche sono quelle delineate di recente (inizio settembre) dal Center for Research on Pension and Welfare Policies (CeRP) del Collegio Carlo Alberto dell’Università di Torino. Il documento prende l’avvio dalla situazione immediata delle preoccupazioni (anche europee) per la finanza pubblica italiana e ricorda che la riforma del 1995 non sarà completata, a normativa vigente, prima del 2050. Contiene, quindi, una serie di proposte per giungere all’obiettivo di frenare l’escalation della spesa previdenziale.
Tali misure possono essere anche l’avvio di un riequilibrio intergenerazione. Da un lato, quanto minore è il fardello totale tanto minore può esserlo per chi in un sistema “a ripartizione” è chiamato a portarlo. Da un altro, con pochi ritocchi alle proposte CeRP si può fare molta strada in materia di equità tra generazioni.
In primo luogo, dopo una fase di riforme, occorrono regole che siano immodificabili per i prossimi 15-20 anni in modo da dare un buon grado certezza a tutti – elemento essenziale per programmare il proprio futuro (la pensione è una pensione sulla vecchiaia e programmare la terza età è il principale “diritto” di tutti); ciò può, anzi deve, essere blindato nella legge.
In secondo luogo, le regole previdenziali devono essere uguali per tutti dato che il passato ci insegna che nell’eccessiva differenziazione delle regole si annidano privilegi e ingiustizie (ancora oggi vengono concessi ingiustificati trattamenti di favore a categorie di lavoratori quali parlamentari e liberi professionisti con casse autonome, ecc.)
In terzo luogo, i provvedimenti straordinari volti alla riduzione di breve termine della spesa – quali quelli che ci chiede l’Ue, devono essere improntati a un criterio di “giustizia ed equità” e i sacrifici maggiori devono essere chiesti a coloro i quali hanno redditi medio-alti, in particolar modo a coloro i quali hanno beneficiato e beneficiano della maggiore generosità delle regole previdenziali retributive applicate in passato.
In base a questi principi, un riassetto fattibile implica:
1) anticipare l’applicazione del “contributivo” dal primo gennaio 2012, applicandolo a tutti, fatti salvi i diritti previdenziali già maturati che daranno origine a una pensione calcolata con le regole attuali;
2) lasciare flessibilità nell’età di pensionamento: ossia, i lavoratori che hanno almeno cinque anni di contributi (oggi se non se ne hanno venti si perde tutto) devono poter scegliere a che età andare in pensione all’interno di una forchetta compresa tra i 63 e i 68 (eventualmente 70) anni. In caso di pensionamento anticipato prima dei 63 anni, la pensione verrà calcolata interamente con il sistema contributivo e l’accesso alla pensione sarà consentito solo se la pensione supera 1,2 volte l’ammontare dell’assegno sociale. Coerentemente con quanto disposto dalla legge 122/201, si dovrà inoltre prevedere l’adeguamento triennale dei requisiti di età per l’accesso al sistema pensionistico agli incrementi della speranza di vita;
3) chiedere un “contributo di solidarietà” – aggiuntivo rispetto a quello prefigurato nell’attuale “manovra” di finanza pubblica – alle pensioni più alte, specialmente se si tratta di baby pensioni e pensioni di reversibilità. Eccessivamente generose;
4) Per il buon funzionamento delle riforme serve l’informazione. È essenziale che l’Inps (e gli altri enti previdenziali) inviino rendiconti periodici ai cittadini in cui siano riportati, per ciascuna posizione previdenziale, la quota di pensione giustificata – in base a criteri di equità attuariale – dalla contribuzione previdenziale effettuata lungo la vita lavorativa e la quota eccedente tale misura. Quest’ultima parte evidenzia infatti quello che può essere considerato il “contributo” della collettività (incluse le generazioni future) alla loro pensione individuale;
5) Risolvere una volta per tutte i problemi ancora aperti in materia di “totalizzazione” dei contributi dei co.co.pro e simili con quelli di dipendenti, poiché la gran parte dei giovani inizia la propria attività come co.co.pro ma prima o poi diventa dipendente.
C’è un ddl e una proposta di legge bi-partisan in Parlamento: occorre farle viaggiare.
Queste misure relative alle pensioni “pubbliche” (già in atto in numerosi paesi Ue) devono essere affiancate a un riordino della previdenza integrativa che, tramite fusioni e incorporazioni, porti i 700 fondi esistenti a non più di una cinquantina.
Box: Pensioni da Precari
L’INPS2 (in termini tecnici “gestione separata” di Mamma INPS) è nata nel 1996 ( e più o meno nello stesso periodo sono nate le sue consorelle come l’INPGI2 per i giornalisti). Sono state concepite nell’ambito della riforma previdenziale del 1995 come strapuntino per chi fosse lavoratore dipendente o appartenesse ad altri sistemi previdenziali (quali l’INPDAP , le casse professionali) e facesse un lavoro autonomo in genere come occupazione secondaria. La ratio era che anche sui redditi da quel lavoro si versassero contributi e si ricevesse una previdenza basata sui contributi versati. Per anni, i versamenti sono stati essenzialmente a beneficio dei bilanci degli enti. Pochi se ne sono interessati anche perché tale regime riguardava principalmente giovani molto distanti dall’età della pensione (ed in varie forme di rapporti co.co.co o co.co.pro) . Riguardava anche chi aveva perso il lavoro per ristrutturazioni (si pensi a quelle nel settore bancario dove si è passati da oltre 500 istituti a cinque poli) che integravano pre-pensionamenti e pensioni di anzianità con lavoro più o meno occasionale.
Da un paio di anni le prime “leve” stanno passando all’incasso e trovano non solamente rendimenti molto bassi ma anche un vero e proprio labirinto per ottenere il pur modesto trattamento. Nella concezione iniziale, dato che la gestione era “separata” (e sarebbe servita ad integrare la pensione di chi un lavoro già lo ha), da essa “non si usciva” , ossia non era possibile totalizzare anni e contributi con anni e contributi da dipendente od in altri regimi. In un secondo momento, si è ammessa la totalizzazione per chi aveva almeno tre anni di contributi, ma non l’automaticità come per le altre forme di totalizzazione- è necessaria una procedura lunga e complessa che, ad esempio, non tiene conto delle convenzioni internazionali concluse dall’Italia con altri Stati. Ad aggravare la situazione, specialmente per chi è entrato nel mercato del lavoro come co.co.co, co.co.pro e simili alla fine degli Anni Novanta, pare ci sia stato (e ci sia ancora) un elevato livello di evasione (dal pagamento dei contributi). Chi vi è entrato tramite precariato presso le pubbliche amministrazioni si è spesso trovato con funzionari amministrativi per i quali l’INPS2 avrebbe funzionato come l’INPDAP ; facevano un versamento cumulativo per tutti i “precari” di loro spettanza e 15 anni più tardi ci si trova a dovere ricostruire le singole posizioni. Insomma un vero e proprio bailamme.
Ora ci sono due iniziative legislative. Ambedue prevedono l’automaticità. Un disegno di legge delega elimina il vincolo di tre anni in ciascuna gestione per poter totalizzare (un vincolo che penalizza i giovani che passano da una gestione ad un’altra prima di avere un lavoro dipendente); riporta, però, al metodo di calcolo retributivo coloro che totalizzando possono fare valere più di 18 anni d’iscrizione ad una forma qualsiasi di previdenza prima del 31 dicembre 1995. Una proposta di legge bipartisan (già approvata) in Commissione Lavoro della Camera estende l’automaticità della totalizzazione a coloro che sono stati iscritti per tre anni in via esclusiva alla “gestione separata” in regime di monocommittenza. Mentre il ddl rischia di comportare un onere molto elevato, il secondo restringe moltissimo la platea dei beneficiari poiché è tipico dei “precari” lavorare per più committenti. Le acque comunque si stanno muovendo . E ci sono miglioramenti in vista.
Le Privatizzazioni
Il primo punto (in ordine di tempo) della strategia di crescita presentata dal Governo è il fondo immobiliare che ha presto acquisito, sulla stampa d’informazione, il nomignolo di “fondo taglia-debito”. In breve, l’obiettivo è “creare ricchezza” dalla manomorta pubblica (stimata in 1.815 miliardi, pari quasi allo stock di debito pubblico). In pratica, la cessione di una parte (peraltro relativamente modesta) del patrimonio immobiliare pubblico (che oggi rende poco o nulla allo Stato e alle pubbliche amministrazioni in generale) e dei diritti per le emissioni inquinanti di CO2. Dalla prima fonte si contano di ricavare 35-40 miliardi; dalla seconda altri 10.
La proposta è ben congegnata ed è stata presentata il 29 settembre al Gotha della finanza italiana da un Comitato di Ministri, in varia misura interessati all’idea. Nei prossimi giorni ci saranno audizioni al Cnel e successivamente un disegno di legge verrà esaminato dal Consiglio dei Ministri e dal Parlamento.
In primo luogo, è pleonastico dire che cercare di valorizzare il patrimonio pubblico è una buona idea. Ci sono ora pure le premesse perché l’idea abbia questa volta modalità di applicazione che la rendano realizzabile entro un lasso di tempo relativamente breve; infatti, rispetto agli impegni europei, ci vorrebbero 40-50 miliardi di euro l’anno (agli attuali d’interesse) per i prossimi vent’anni per fare sì che lo stock di debito pubblico raggiunga il 60% del Pil (o giù di lì) entro il 2032.
Negli ultimi mesi, infatti, sono state presentate idee in questo senso da numerosi economisti. Alcune (ad esempio, quelle di Giuseppe Guardino, di Giorgio La Malfa e dello stesso Paolo Savona) sono riassunte in un articolo di Savona nell’ultimo numero del mensile Formiche. Altre sono state pubblicate su vari numeri del settimanale Milano Finanza da Andrea Monorchio e da Guido Salerno Aletta. Altre ancora sono apparse su riviste specializzate.
In breve, si è diffusa e radicata l’ipotesi che il debito pubblico è ormai un freno tale alla crescita che occorre pensare a un’operazione straordinaria (nel senso etimologico di “fuori dall’ordinario”) per abbatterlo. Tale operazione passa o per un’imposta patrimoniale o per un’operazione di grande ampiezza sul patrimonio dello Stato all’insegna del motto “vendere, vendere, vendere” (nonostante questo non sia forse il momento opportuno per farlo in termini di domanda effettiva). Un confronto tra queste varie proposte si è tenuto alla Fondazione Ugo La Malfa la sera del 29 settembre. Date le dimensioni del problema, il fondo ora delineato dal Governo può essere visto come una prima “tranche” di un’operazione ventennale
A mio avviso, si dovrebbe essere molto più ambiziosi. Lo è, senza dubbio, lo schema messo a punto da Andrea Monorchio e Guido Salerno Aletta che è anche corredato da una bozza di proposta di legge d’iniziativa popolare. Tale schema fa leva non sul patrimonio pubblico, ma su quello dell’edilizia privata. In breve, i proprietari di casa verrebbero messi di fronte a un’alternativa: o essere soggetti d’imposta patrimoniale oppure far sì che un decimo del loro patrimonio edilizio (stimato in 9.000 miliardi di euro) venga ipotecato dallo Stato avendo in cambio: a) la garanzia dell’esenzione da imposte presenti e future e b) un interesse al tasso di sconto presso la Bce e un ammortamento ventennale. In tal modo - tralascio gli aspetti tecnici, alcuni dei quali molto ingegnosi - lo Stato avrebbe la liquidità per abbattere il debito pubblico e realizzare politiche di crescita.
Un’alternativa del programma prevede obbligazioni a cedola zero (garantite dall’ipoteca sul 10% del valore dell’immobile) che potrebbero essere particolarmente interessanti per chi vuole costituire un capitale per un lascito a figli o congiunti o amici. Sono ambiziose, in vario modo, anche le proposte di La Malfa e Savona (chiare alternative a un’imposta patrimoniale). Non cito proposte da me delineate in passato (all’inizio degli anni Novanta) quando il problema del debito cominciava a essere avvertito in tutta la sua serietà; lo ho pubblicate in italiano e in inglese in varie versioni e non ho ritenuto utile riproporle adesso.
Vale, però, la pena integrarle con la proposta del Governo e con gli schemi Monorchio-Salerno e La Malfa-Savona - la proposta Guarino, invece, è essenzialmente una patrimoniale più o meno in maschera al fine di costituire un “fondo taglia-debito”. Credo occorra partire dalla premessa che se si chiede ai privati di utilizzare parte dei gioielli di famiglia (la propria casa) per liberare l’Italia dalla morsa del debito (Monorchio-Salerno) si debba chiedere allo Stato di fare altrettanto (come nel programma delineato il 29 settembre dal Governo). Ritengo, però, che destinare a tal fine una piccola parte del patrimonio immobiliare pubblico (è difficile che il mercato ne possa assorbire di più) e delle licenze per CO2 sia limitativo. Anche perché tale patrimonio immobiliare pubblico (ad esempio, la case popolari Ater) non sono certo gioielli di famiglia.
Proporrei un fondo con tre “sottostanti” (ossia attività reali e finanziarie a garanzia di nuovi titoli): a) parte del patrimonio immobiliare pubblico (come nella proposta governativa); b) parte del patrimonio immobiliare privato (come nella proposta Monorchio-Salerno) su base volontaria e in cambio di un’esenzione fiscale permanente da eventuali patrimoniali; e c) parte dei veri di gioielli di famiglia (Enel, Eni, Finmeccanica, Poste Italiane, Sace, St-Microelectronics, Terna, Poligrafico, Sogin, Inail). Rai, Ferrovie, Fincantieri e altre imprese da denazionalizzare non verrebbero incluse poiché non sono certo “gioielli di famiglia”, ma fardelli da rimettere in sesto o da liquidare.
Con un tale sottostante in garanzia, il fondo potrebbe emettere titoli a tassi molto bassi (quelli di sconto del Bce) per a) riscattare il debito pubblico e b) finanziare investimenti a lungo termine di interesse collettivo. Il fondo sarebbe un veicolo per denazionalizzare/privatizzare le società /gli enti le cui azioni sarebbero il suo “sottostante”.
Perché l’operazione funzioni, il “sottostante” dovrebbe essere aggregato (con qualche forma di cartolarizzazione - ne esistono molteplici) e non dovrebbe essere quotato in Borsa per un certo numero di anni (al fine di essere una garanzia solida). Potrebbe essere collocato presso fondi pensioni per dare corpo a una efficace ed efficiente previdenza integrativa. Ciò richiederebbe, come già suggerito nel paragrafo precedente, una preventiva riduzione del numero dei fondi pensione operanti in Italia da 700 a una diecina con effettiva portabilità (ossia che gli iscritti possano votare con le gambe e migrare verso quelli meglio gestiti).Un passo che va fatto se non si vuole che la previdenza integrativa dei nostri figli sia una chimera.
Il fondo “taglia-debito” ha comunque un grande merito: porta in pubblico quello che sinora è stato un dibattito segreto tra specialisti.
BOX Come Privatizzare la RAI
Privatizzare “Mamma Rai” è una missione coraggiosa ma non impossibile. Nella situazione finanziaria attuale – è vero – la Rai avrebbe difficoltà a trovare altri acquirenti che non fossero la Croce Rossa, la Comunità di Sant’Egidio, la Caritas o simili (sempre che la avessero a prezzo zero e con mani libere nel rimettere in sesto ciò che resta di un’azienda per decenni in monopolio e desiderosa di tornare ad essere la sola del settore in Italia, in Europa e – perché no?- nell’universo mondo).
Un modo, però, c’è. Occorre utilizzare immaginazione, esperienza e fegato. Il primo passo può sembrare bizzarro: collegare la privatizzazione della Rai alla nascita di una vera previdenza complementare per gli italiani. Il secondo consiste nel renderla una vera public company . Il Presidente del Consiglio Romano Prodi tanto si è speso per il secondo pilastro previdenziale e per le public company che dovrebbe esserne lieto. C’è un precedente importante: il modo in cui sono state realizzate le privatizzazioni ed i fondi pensioni in Bolivia negli Anni Novanta, seguendo i suggerimenti di Steve H. Hanke, Direttore del Centro di Economia Applicata della Università Johns Hopkins di Baltimore e Senior Fellow del Cato Institute.
In pratica, ciò vuol dire dare azioni Rai a tutti gli italiani. Seguendo quale metodo? Uno semplicissimo: l’età anagrafica, quanto più si è anziani tanto più si è pagato il canone (e ci si è sorbiti Santoro, Baudo e quant’altro)e si è pagata l’imposta di scopo più odiata dagli italiani (il canone RAI), avendo, dunque, titolo ad un risarcimento con azioni da impiegare per la tarda età. Le azioni sarebbero vincolate per un lasso di tempo – ad esempio, cinque anni – a non essere poste sul mercato ma ad essere destinate ad un fondo pensione aperto (ed ad ampia portabilità) a scelta dell’interessato il quale, però, manterrebbe tutti i diritti (elezione degli organi di governo, vigilanza sul loro operato, definizione dei loro emolumenti) di un azionista (in base alle azioni di cui è titolare sin dal primo giorno). Gli azionisti deciderebbero se scorporare le reti. Unica regola: pareggio di bilancio. Il management dell’intera Rai (o di una rete) che non ci riesce sarebbe passabile di azione di responsabilità e, ai sensi della normativa societaria in vigore, se l’indebitamento supera certi parametri la liquidazione diventerebbe obbligatoria.
Ed il “servizio pubblico”? Nell’età della rete delle reti, ci bada Internet: già adesso tutti i dicasteri, le Regioni, le Province, i Comuni, le Comunità Montane dispongono di siti interattivi. I siti di informazione e contro-informazione pullulano – tanto generalisti quanto specializzati. Non siamo più ai tempi dell’Eiar , anche se il Partito Rai vorrebbe tornare al passato, come la protagonista del film “Good bye, Lenin”.
E la cultura? In primo luogo, pensiamo che gli italiani siano meno imbecilli di chi compila gli attuali palinsesti: una Rai che risponde al popolo azionista proporrà più cultura dell’attuale (come dimostrano gli abbonamenti a canali culturali digitali). In secondo, si potrebbe prevedere agevolazioni tributarie per gli sponsor.
E’ un miraggio? No. E’ la modernizzazione, bellezza!
La de-regolamentazione
La regolamentazione per dare vita (e fare funzionare) il mercato unico europeo ammonta a 150.000 pagine – ancora più carta è stata necessaria per la moneta unica ed ammennicoli vari; il costo dei regolamenti Ue su cittadini ed imprese è variamente stimato tra l’1 ed il 3,5% - un vero ed elevato costo di transazione- del pil complessivo dell’Europa a 27; lo documenta Alan Hardacre in un saggio pubblicato dall’Eipa (l’istituto europeo di formazione per la pubblica amministrazione, un ente che non inforca certo occhiali malevoli nei confronti delle istituzioni europee - che lo finanziano). In Germania, soltanto gli obblighi di fornire informazioni alla burocrazia federale (escludendo quella dei Länder) tocca 40 miliardi di euro l’anno (in base ad una stima effettuata su 7.000 dei 10.500 obblighi d’informazione individuati dal Consiglio federale per il Controllo della regolazione); l’ultimo rapporto annuale del Consiglio in questione afferma che si tratta di una stima per difetto , ma che il Governo federale si è impegnato a ridurre costi delle regole su cittadini ed imprese del 25% e che, di riffa o di raffa, lo farà (la determinazione teutonica è nota, anzi notoria). I tedeschi hanno preso a modello l’Olanda che, secondo l’”International Regulatory Reform Report 2010”, “è diventata un modello ed un leader internazionale in materia di riforma della regolamentazione”. Anche la Francia (notoriamente statalista ed interventista) ci sta dando a fondo: dal 2006, afferma un saggio di Frédéric Bouder, si possono avere in otto giorni tutte le autorizzazioni per fare decollare un’impresa. In Francia, come in America dall’epoca del primo Governo Reagan (misura che nessun Presidente o Congresso successivo ha modificato) , tutti i disegni e le proposte di legge dovranno essere corredati non solo di una relazione tecnica relativa all’impatto sul bilancio dello Stato (analoga a quanto predisposto in Italia con l’ausilio della Ragioneria Generale dello Stato) ma anche da un’analisi costi benefici (o costi efficacia) rigorosa relativa a oneri e vantaggi per la collettività.
Queste ed altre informazioni, dati ed analisi si raccolgono nella ricca documentazione presentata alle più recenti International Regulatory Reform Conferences (IRRC), diventata un evento annuale a cui partecipano (su inviti individuali) regolatori e de-regolatori di tutto il mondo. Dopo una serie di anni in cui la conferenza è stata tenuta a Berlino, l’ultimo appuntamento è stato a Stoccolma. In breve, tutti (Governo, Parlamenti, individui, famiglie, imprese) si sentono imbrigliati in una montagna ormai disincantata di regole grandi e piccole spesso da loro stessi generate o proposte. Ciascuna ha una sua giustificazione puntuale (o la aveva quando Governi e Parlamenti oppure autorità di regolazione le hanno varate). Tuttavia, sono adesso un freno allo sviluppo, specialmente dei Paesi industriale ad economia di mercato e più particolarmente nell’iper-regolata Ue (dove regole comunitarie si sommano a quelle internazionali a quelle statali, a quelle regionali a quelle provinciali a quelle comunali a quelle delle comunità montane, e via regolamentando). La montagna disincantata spiega, in certa misura, perché da qualche anno siano i Paesi emergenti ancora in via di sviluppo ed a basso reddito pro-capite (dove le regole sono poche e poco osservate) a tirare la carretta dell’economia mondiale. L’eccesso di regolazione in Europa spiega, in certa misura, perché la crisi finanziaria scoppiata negli Usa ha rallentato l’economia americana (meno regolata di quella Ue) ma ha portato la recessione nel vecchio continente.
Cosa fare? Un po’ tutti si arrabattano a semplificare la regolazione e a frenare l’incontinenza di chi ne propone sempre di aggiuntiva. L’Italia ha poche lezioni da offrire. E’ poco credibile la cifra di 16 miliardi di euro pubblicizzata come costi di informazione che gravano su cittadini ed imprese (rispetto ai 40 miliardi, limitati al Governo federale computati in Germania). E’ stato condotto per cinque anni dalla Scuola superiore della pubblica amministrazione uno studio sui costi di un campione di regolazioni; ma, in barba alla conclamata trasparenza, i suoi risultati non sono mai stati presentati e discussi quanto meno in un seminario tecnico-scientifico e messi, successivamente (se si vuole), on line come primo passo per giungere a sfoltire alla grande la foresta cresciuta sulla montagna disincantata. Sarebbe anche bene che una seconda fase dello studio venga affidata a specialisti di livello internazionale (meglio se stranieri e quindi più distinti e distanti dalle nostre beghe caserecce, spesso fonte di regole per dirimerle).
Dall’IIRC è emerso un aspetto interessante il “regulatory budgetting” intrapreso in modo sistematico in Gran Bretagna e già sperimentato con successo negli Usa in alcuni settori (sanità, ambiente).Anche in Italia, c’è qualche esempio (lo si è fatto ad esempio nel valutare la posizione Ue in materia ambientale o nell’esaminare la revisione delle tax expenditures per le elargizioni liberali per la cultura). Non lo abbiamo presentato,però, al resto del mondo. Se non mostriamo agli altri le cose buone che facciamo, non lamentiamoci di non essere trattati bene.
Per essere efficace il “regulatory budgetting” deve riguardare anche quello che è invalso chiamare “capitalismo municipale”. I dati salienti per l’Italia sono i seguenti: numero di aziende, 369. contributo al pil nazionale dall’l’1% al 6% (a seconda della ragione); addett, 200.000 unità. In Francia le dimensioni sono analoghe. In Francia, inoltre, non ci sono le persistenti nonché e differenze costi del personale e della redditività fra le varia macro-aree (Sud,Centro e Nord) che , secondo analisi recenti della Fondazione Eni Enrico Mattei e dell’Università La Sapienza, caratterizzano l’Italia. Infine, i nuclei francesi a basso reddito erogano per acqua, elettricità e riscaldamento lo 0,075% della spesa familiare – un po’ più dello 0,059% di quelle italiane nella stessa fascia sociale.
Più importante di un raffronto con i cugini d’Oltralpe è interessante notare come nel dibattito di questi ultimi anni sui servizi pubblici locali ed il pertinente “capitalismo” municipale è più di una volta pronunciato il nome di Giovanni Montemartini. Chi era costui? A Roma gli è stato dedicato un museo sulla via Ostiense ma il suo libro principale (ancora oggetto di studio, in traduzione, in università straniere) non è ristampato da decenni. A lungo dirigente statale, Montemartini fu, in età giolittiana, Assessore di quella Giunta Nathan che risanò e sviluppò la città. Non era un teorico ed il suo libro (un testo di politica economica sulle municipalizzate) sistematizzava il frutto della sua esperienza operativa ed indicava strade (in termini di qualità del servizio, livelli delle tariffe, monitoraggio, bilanci) ancora attuali. Se lo si studia all’estero e lo si cita in convegni internazionali, perché non ce ne ricordiamo ora che a Roma (e non solo) occorre riformare il “capitalismo municipale”? Vi troveremmo preziosi consigli su come aggregare imprese e sulla gestione finanziaria e su come de-regolamentare a livello locale. Una deregolamentazione che non può non includere commercio, taxi e simili.
Due ultimi punti: le professioni e il metodo da utilizzare. Per le professioni, la stella polare dovrebbero essere i Paesi più dinamici dell’UE: ossia liberalizzare tutte quelle liberalizzate in quel gruppo di Paesi. Per il metodo, dato che le “lenzuolate” non hanno avuto grandi esiti, la sola strada possibile sembra essere quella del Big Bang- un colpo solo liberalizzando tutto il liberalizzabile contemporaneamente. In tal modo interessi votati a difendere l’esistente si elideranno a vicenda.
BOX: I Taxi dell’Isola Verde
Una vertenza come quella sempre incandescente dei taxi – a Roma, a Milano – è caratteristica di una fase di transizione quale quella che sta attraversando il Paese. Se il mondo fosse perfetto, non ci dovrebbero essere altre barriere all’entrata (nella professione) che i requisiti tecnici dell’autovettura e del conducente. Il mondo, però, è ben lungi da essere perfetto. Anche se la compravendita delle licenze è vietata, di fatto avviene da sempre (sottobanco) ed hanno accesso alla professione pure conducenti con la fedina penale sporca. Chi ha sborsato forti somme, spesso indebitandosi sino al collo, per averne una, ha un danno significativo da un’apertura del mercato ed uno enorme dalla liberalizzazione.
Vediamo cosa è successo nell’isola verde per antonomasia, l’Irlanda. Dato che autorità di governo e parti sociali non trovavano un’intesa per la transizione da mercato (dei taxi iper-regolamentato) a liberalizzazioni, le associazioni dei consumatori hanno optato per la via giudiziaria. Si è giunti ad una sentenza della Corte Costituzionale nel 2000. Le motivazioni della sentenza ed un’analisi delle sue implicazioni economiche sono riassunte nel saggio di Sean Barret della Università di Dublino pubblicato nel trimestrale “Economic Affairs”. La Corte fa riferimento non solo al principio della non-discriminazione (analogo a quello sancito all’art.3 della Costituzione italiana) ma anche al “titolo”, per di chi ne ha la formazione e capacità, di avere accesso al settore ed a quello, speculare, dei cittadini di acquistare i servizi dal migliore offerente (se fornisce garanzie di professionalità): sono “titoli fondamentali”, tutelati dalla Convenzione dei Diritti dell’Uomo che ha da poco compiuto 200 anni ed a cui Irlanda (ed Italia) aderiscono. Leggi e regolamenti che limitavano l’accesso alla professione sono stati immediatamente abrogati, il numero di taxi è triplicato, l’occupazione nel settore quadruplicata (secondo alcuni, quintuplicata). Ad un’analisi dei costi e dei benefici sociali (relativa, quindi, al benessere della collettività ed in particolare dei più poveri) la deregolazione risulta avere avuto un tasso di rendimento interno del 30%; tra i benefici, sono stati computati unicamente la riduzione dei tempi di attesa per gli utenti e l’incremento dell’occupazione. I vantaggi maggiori sono andati agli strati a più basso reddito della popolazione. Gli svantaggi finanziari a chi faceva il tassista prima della sentenza.
La via giudiziaria al riassetto strutturale non è necessariamente il percorso migliore. Ci pensino i taxi bianchi dell’Italia alla ricerca di un migliore e più rapido sviluppo..
Le infrastrutture
Le infrastrutture sono una leva per la crescita sia nella fase di cantiere (poiché attivano capacità produttiva solo parzialmente utilizzata) sia a regime (perché riducono costi , ad esempio di trasporto, ed aumentano la produttività). Sino ad ora le uniche misure prese sono quelle del Consiglio dei ministri del 6 ottobre che ha approvato (senza quasi che se ne accorgesse nessuno) due schemi di decreti che riguardano: 1) la valutazione degli investimenti relativi a opere pubbliche, che prevede fra l’altro l’obbligo per ogni Ministero di redigere il Documento pluriennale di pianificazione che includa i programmi di investimento per opere pubbliche; 2) le procedure di monitoraggio sullo stato di attuazione di tali opere: un sistema gestionale automatizzato che contenga le informazioni qualificanti dei lavori e degli interventi programmati, con la verifica dell’utilizzo dei finanziamenti nei tempi previsti. Sui due schemi verranno acquisiti i pareri delle Commissioni parlamentari e, limitatamente al secondo, anche della Conferenza unificata. È dato per scontato che i pareri saranno positivi e che i provvedimenti saranno in vigore entro tempi brevi.
Non si tratta certo di misure risolutive in un Paese in cui le sole inefficienze della logistica comportano un costo di 40 miliardi di euro l’anno. Rappresentano, però, passi nella direzione giusta, che consentono, quanto meno, di appurare quali e quante sono le risorse disponibili (spesso “nascoste” in “contabilità speciali” e gestioni fuori bilancio di vario ordine e grado - il solo ministero dei Beni e delle attività culturali, Mibac, ne ha, come si è accennato, ben 324) e quali sono le priorità dal punto di vista degli enti di spesa (i Ministeri).
Dei due punti indicati il più importante è il secondo: traducendo dal burocratese, la misura vuol dire che verrà effettuato un censimento e che le opere non iniziate verranno de-finanziate (impiegando gli stanziamenti per opere che possono essere immediatamente cantierabili). Attenzione, i singoli Ministeri avrebbero potuto e anzi dovuto adottare queste misure da sempre, almeno dal 1999 quando venne approvata la legge 144 (e i dirigenti responsabili sono passibili di danno erariale, ove la Corte dei Conti apra un fascicolo). È “straordinario”, nel senso etimologico del termine, che si sia dovuto intervenire con un decreto legislativo. Tuttavia, in una situazione in cui dal 2001 a oggi, a titolo di quella Legge obiettivo che avrebbe dovuto semplificare e velocizzare, sono stati erogati appena 2,5 miliardi rispetto a un costo complessivo di opere stimato in 8,8 miliardi, è una misura che induce a sperare in maggiore tempestività anche perché il de-finanziamento è una sanzione - e a fronte di de-finanziamenti la Corte dei Conti potrebbe svegliarsi dal suo torpore e iniziare procedimenti che toccano nei portafogli dei singoli responsabili dei procedimenti.
La prima misura può essere interpretata, e attuata, in due modi molto differenti. Da un canto, con pure procedure di “programmazione formale”, quali quelle attuate per decenni in America Latina e in Africa, per soddisfare Banca mondiale e simili: programmi con elenchi di priorità non supportati da adeguate analisi economiche. Potrebbe anche essere l’occasione per rilanciare la programmazione decentrata per progetti degli anni Ottanta e Novanta e anche per raffinarla integrando le analisi costi benefici dei singoli progetti con stime degli effetti di gruppi di progetti. Tanto più che l’Istat sta di nuovo lavorando (dopo tre lustri!) su una matrice di contabilità sociale (una raffigurazione dell’economia italiana che coniuga i rapporti tra settori con quelli tra istituzioni) e, quindi, si potrebbe contare su stime affidabili. Inoltre, non dovrebbero essere meri elenchi di priorità, ma - come suggeriscono i saggi pubblicati nel volume Trasporti e Infrastrutture (a cura di Francesco Ramella) dall’Istituto Bruno Leoni - occorre introdurre, nei programmi, una buona dose di mercato. Un suggerimento al ministro dell’Economia e delle Finanze: segua l’esempio del “programme de rationalisation des choix budgettaires” applicato per anni in Francia, pubblicando i programmi dei Ministeri e facendoli valutare dalla professione. Ci sono premi e penali implicite (ma efficaci) nell’essere lodati o criticati.
Questi due passi possono essere un’indicazione che si vuole per davvero rilanciare le infrastrutture. Perché, in questo campo, il programma abbia effetti positivi non basta, però, una maggiore attenzione alla progettazione, il de-finanziamento di quella troppo preliminare per essere attuata nei tempi stipulati e una maggiore chiarezza degli enti di spesa sulle loro priorità e sulle pertinenti motivazioni. Se si vuole dare impulso al settore è essenziale rivedere, almeno in prospettiva, il Titolo V della Costituzione (che ha suddiviso responsabilità e competenze creando una vera Babele), attivare nuovi strumenti finanziari del tipo di Project Bonds che abbiamo alcune caratteristiche dei Buy American Bonds (BABs) attivati con successo negli Stati Uniti (dato che il fabbisogno finanziario stimato per i prossimi cinque anni è attorno a 50 miliardi di euro).
BOX: Il Ponte sullo Stretto ed i suoi Cugini
L’Italia – come molti altri Paesi europei (la Francia è la principale eccezione) – è stata piuttosto carente di studi retrospettivi sia sui rendimenti dell’investimento pubblico sia sugli effetti di spiazzamento (crowding out, nel lessico degli economisti) rispetto al potenziale investimento privato (l’investimento pubblico richiede gettito fiscale od indebitamento pubblico, riducendo le risorse disponibili per i privati) sia sugli effetti, invece, di attrazione (crowing in) del privato (fornendo le strutture di base). Ci sono stati numerosi studi sul crowding out della spesa pubblica negli Anni 70 ed 80; tali studi hanno, però, riguardato in gran parte gli aspetti macro-economici generali (senza differenziare tra spesa di parte corrente e spesa in conto capitale). Che io sappia c’è stato un unico studio empirico della produttività marginale dell’investimento pubblico: quello di Maurizio Tenenbaum dell’Università La Sapienza di Roma, condotto all’inizio degli Anni 80 su incarico del Ministero del Bilancio, e, in seguito, pubblicato dalla casa editrice Il Mulino. Fuori catalogo da anni, il saggio esaminava l’investimento pubblico nel periodo 1950-80 con metodo aggregato e concludeva che la spesa pubblica in conto capitale aveva una produttività-marginale dell’8-12% - parametro utilizzato per lustri come riferimento (ad esempio, come tasso di attualizzazione) nella valutazione di piani e progetti. Occorre tenere presente che il periodo analizzato da Tenenbaum copre in larga misura gli anni del “miracolo economico” (1959-1958) quando, secondo analisi di Charles Kindleberger e Ferenc Janossy (due numi del pensiero economico, uno liberista ed uno marxista, distinti e distanti dalle nostre beghe) l’investimento pubblico (e quello privato) in Italia avevano rendimenti particolarmente elevati in quanto attivavano l’utilizzazione di capitale umano potenzialmente molto ben addestrato e molto produttivo, ma costretto ad una relativa improduttività dal 1936 (guerra d’Africa) alla fine della seconda guerra mondiale.
Di recente Il servizio studi della Banca europea degli investimenti ha completato un’analisi (Antonio Afonso e Miguel St Aubyn “Macro-economic rates of returns of public and private investment – Crowding- in and crowing-out effects” Ebc Working Paper n. 864) che merita di essere meditata non tanto in Banca d’Italia (dove studi di questa natura trovano il maggior numero di lettori) quanto nei Ministeri dell’Economia e delle Finanze, dello Sviluppo Economico e delle Infrastrutture. E’, infatti, nonostante il lessico tecnico, ricca di lezioni operative.
In primo luogo, lo studio riguarda il periodo 1960-2005 – sui suoi risultati, dunque, l’eccezionalità del “miracolo economico” conta relativamente poco ma pesano molto più periodi meno entusiasmanti di quella che i giornalisti chiamano la Prima Repubblica. In secondo luogo, è un’analisi comparata che include 14 Paesi dell’Ue, il Canada, Giappone e Stati Uniti. In terzo luogo, utilizza una metodologia VAR (una tecnica econometrica per esaminare serie storiche da non confondere con VaR – Value at Risk una tecnica finanziaria per quantizzare valorizzazioni di titoli tenendo conto dell’elemento di rischio) sviluppata, in applicazioni operative, a partire dalla metà degli Anni 90. Quindi, il lavoro ha un contenuto informativo molto più aggiornato e molto più utile di quello condotto all’inizio degli Anni 80.
Vediamo, in linguaggio non tecnico, quali sono le conclusioni principali dello studio e quali le implicazioni per l’Italia. Innanzitutto, nel lungo periodo di tempo considerato, l’investimento pubblico ha contratto quello privato (crowding-out) in Belgio, Irlanda, Canada, Regno Unito e Paesi Bassi. Ha invece dato un impulso attivo agli investimenti privati (crowding-.in ) in Austria, Danimarca, Germania, Grecia, Portogallo, Spagna e Svezia.
L’Italia è l’unico Paese per il quale, con i dati disponibili, non risulta che l’investimento pubblico abbia spiazzato od attivato investimento privato. Un effetto “neutro”? Non esattamente. L’analisi entra anche nei tassi di rendimenti medi (tanto “parziali”, quindi del solo investimento pubblico, quanto “totali”, computando anche l’investimento privato attivato dalla mano pubblica). In Italia, Finlandia, Giappone e Svezia, i tassi di rendimento “parziali” dell’investimento pubblico sono negativi. Il quadro cambia se si guarda ai tassi di rendimento “totali”; il tasso dei rendimenti privati diventa più basso se associato generalmente in tutti i Paesi (la sola eccezione è la Francia) e diventa addirittura negativo in Austria, Finlandia, Grecia, Portogallo e Svezia. Questa seconda conclusione mette l’investimento pubblico in Italia in luce migliore di quanto non lo faccia la prima.
Ci sono implicazioni operative? Certo. Lo studio non spiega le ragioni dell’”eccezione francese”; non era suo obiettivo trattandosi di un’analisi econometrica non istituzionale od amministrativa.
Una spiegazione possibile è negli effetti di lungo periodo del “programma di razionalizzazione delle scelte di bilancio” per diversi anni in vigore Oltralpe. Non solamente ai Ministeri si richiedeva di effettuare analisi sia dei costi sia dei benefici sia degli effetti dell’investimento pubblico di rispettiva competenza ma una rivista semestrale de “La Documentation Française” ne pubblicava le migliori ed incoraggiava il dibattito. Negli Anni 90, ho riprodotto alcuni di questi studi nel libro “Tecniche di valutazione degli investimenti pubblici”. La prassi stimolava le amministrazioni non solamente a condurre analisi “degne di pubblicazioni” ma le metteva in competizione ed a confronto. In Italia una norma del 1999 (circa dieci anni fa) ha previsto appositi nuclei di valutazione verifica dell’investimento pubblico in tutte le amministrazioni. Non solo è stata applicata parzialmente ma ha spesso prevalso un approccio socio-organizzativo privo del necessario rigore economico e finanziario (tipico, carte alla mano, dell’esperienza e dell’eccezione francese).
E’ tema su cui i Ministri Matteoli, Scajola e Tremonti (l’ordine è meramente alfabetico) dovrebbero riflettere. Forse, l’iniziativa potrebbe essere presa dal Ministro Brunetta non solamente in quanto fuori dalla mischia (i suoi uffici non gestiscono i maggiori investimenti pubblici) ma anche in quanto la normativa del 1999 (un po’ inapplicata ed un po’ malapplicata) fu frutto dell’iniziativa di uno dei suoi predecessori a Palazzo Vidoni.
Conclusioni
Questo articolo non ha la pretesa di essere un programma compiuto di politiche di crescita in una (lunga) fase di severe restrizioni di finanza pubblica ma solo di fornire alcuni elementi su temi che ritengo centrali . Se le soluzioni proposte non sono accettabili, se ne devono trovare altre che lo siano.
Non si può eludere il problema.
Giuseppe Pennisi è Consigliere del Cnel e Consigliere Scientifico della Cassa Depositi e Prestiti. Insegna politica economica internazionale all’Università Europea di Roma e collabora a quotidiani e periodici. Alcune delle idee in questo articolo sono state presentate su “Avvenire”, “Il Foglio”, “Il Riformista” e “Il Sussidiario” negli ultimi mesi.
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