venerdì 4 novembre 2011
Fino al 18 novembre
Alla Scala una “donna del lago” musicalmente da manuale
Giuseppe Pennisi
Dopo circa vent’anni torna alla Scala (dove è in scena sino al 18 novembre) La donna del lago di Gioacchino Rossini. È lavoro raro e prezioso riscoperto nel 1958 al Maggio fiorentino dopo un secolo di oblio. Nell’opera, l’allora giovane compositore diede sfogo al suo amore per la natura, non solo con descrizioni di paesaggi (laghi, montagne, altopiani) che si sarebbero successivamente ascoltati solo dieci anni più tardi in quel Guillaume Tell con cui si congedò dalle scene.
Viene di rado messa in scena in quanto richiede un soprano “anfibio” (tale da effettuare acrobazie liriche ma anche di toccate tonalità gravi – la voce della Colbran), un contralto di agilità, un tenore di coloratura dal registro acuto, un bari-tenore in grado di arrivare al re acuto e un basso anche lui avvezzo a vocalizzi. Un cast molto difficile da mettere in scena. La Scala era riuscita a fare centro nel lontano 1992 (con June Anderson) e ha ripetuto l’esito adesso, in un’edizione co-prodotta con l’Opéra di Parigi e il Covent Garden di Londra; e nel 1992 ci riuscirono La Monnaie di Bruxelles e l’Opera di Amsterdam (con Anna Caterina Antonacci), mentre nelle tre edizioni al Rossini Opera Festival – pure nell’ultima del 2001 – la protagonista era un “soprano assoluto”, avvezzo alla coloratura, ma non “anfibio”.
Il cast di questa coproduzione sfoggia Joyce DiDonato (un raro caso, come Anna Caterina Antonacci, June Anderson, Frederica von Stade e Sonia Ganassi) di soprano “anfibio”, difficile eguagliarla nel gran rondò finale e nel duetto “barcarole” con Juan Diego Flórez, ora il tenore lirico di coloratura dal registro acuto per eccellenza. Il contralto è Daniela Barcellona, perfetta, come sempre, nel ruolo del giovane amante. Nella parte del secondo tenore, in effetti un bari-tenore (per le tonalità che deve raggiungere nel terzetto del primo atto), si alternano Michael Syres e John Osborn. Balint Szabo è un basso di classe. Buoni gli interpreti dei personaggi minori. Di spessore il coro, che in questa opera è protagonista al pari degli altri.
A differenza di Riccardo Muti che nel 1992 poneva enfasi allo smalto dell’orchestrazione nelle sezioni descrittive, Roberto Abbado, pur dando la tinta giusta all’ambientazione di una Scozia del XIV secolo, utilizza l’orchestra soprattutto per supportare le voci ed esaltare le melodie, raggiungendo una grande finezza nel complesso finale primo e nel rondo con coro dell’ultima scena.
Un’esecuzione musicale, quindi, preziosa e squisita da cui, speriamo, emerga un Cd.
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