La moneta dell’Europa fragile perché incompiuta
Dal sogno dell’integrazione ai difetti congeniti dell’euro Lingua, lavoro, prezzi ed economia reale: ecco cosa non ha funzionato
DI GIUSEPPE PENNISI
Il desiderio di un’Europa federale con una mo¬neta unica è sempre stato l’obiettivo dei 'Pa¬dri Fondatori' dell’Unione Europea. Sino a¬gli anni Settanta, tuttavia, non se ne avvertiva l’esigenza perché i Paesi industriali ad econo¬mia di mercato e le loro ex-colonie operavano in un sistema mondiale a cambi fissi rispetto al dol¬laro Usa, così come definito nel 1944 alla Con¬ferenza di Bretton Woods. Quando, all’inizio de¬gli anni Settanta, il «regime di Bretton Woods» venne di fatto sospeso, le forti fluttuazioni dei cambi europei misero a repentaglio la strada ver¬so il mercato comune. Venne così messo a pun¬to un programma decennale – il piano Werner – per arrivare a un’unione monetaria europea.
Il progetto fu presto abbandonato a ragione dela più pressante esigenza di far sì che le monete europee fluttuassero all’unisono rispetto al dol¬laro e limitassero l’ampiezza delle fluttuazioni tra di loro, e si arrivò al «serpente europeo» del 1972-78. Il meccanismo portò in seguito agli accordi di cambio europei, conosciuti come Sistema Mo¬netario Europeo-Sme, un meccanismo di ge¬stione collegiale dei cambi all’interno dell’area, e a facilitazioni creditizie reciproche da parte delle banche centrali degli Stati aderenti. Il fun¬zionamento, soddisfacente, dello Sme venne messo in discussione dall’unificazione tedesca che cambiò drasticamente il quadro politico ed economico europeo. Apparve subito evidente, infatti, che la Germania avrebbe dato la priorità alla propria unificazione piuttosto che allo Sme. L’unione monetaria e il suo trattato fondatore, quello di Maastricht del 1992, possono essere così letti come un tentativo di forzare le tappe dell’unificazione europea e, al tempo stesso, di rendere 'collegiali' le decisioni di politica mo¬netaria nell’area, non lasciandole di fatto alla Banca nazionale dello Stato più importante, la tedesca Bundesbank.
Al fine di fare sì che l’unione monetaria fosse 'aperta' a tutti gli Stati europei che fossero via via in condizione di farne parte, si definì un per¬corso predeterminato a tappe obbligate e con indicatori quantitativi di politica monetaria e di bilancio. Un 'gioco dell’oca', o un 'labirinto', che andava seguito da tutti coloro che volevano fare parte dell’unione. Il percorso fu un’idea in¬novativa e geniale, ma l’euro nasceva con quat¬tro peccati originari. Vediamoli di seguito.
STORIA E CULTURA
Primo fattore critico: il retaggio storico, culturale, economico e sociale di ciascuno Stato dell’Unione. Nella storia economica, di norma, le unioni monetarie nascono (e muoiono) in combinazione con unioni politiche derivanti da fusioni tra Stati o da conquiste. Ad esempio, la Federal Reserve, che ha completato l’unione monetaria Usa, è stata istituita nel dicembre 1913, cioè ben 150 anni dopo la creazione degli Stati Uniti d’America. L’unione monetaria europea, al contrario, rappresenta il primo e, fino ad ora, unico
L’unione monetaria europea è il primo e unico tentativo di sostituire con una moneta unica le valute nazionali di Paesi con storie, culture, economie e società molto differenti
Una volta assorbiti gli effetti immediati dell’unificazione tedesca, l’irreversibilità dell’unione monetaria avrebbe dovuto comportare, secondo le intenzioni di chi attorno al 1990 formulò il programma dell’unione monetaria, una convergenza dei comportamenti economici di individui, famiglie, imprese, pubbliche amministrazioni, e classe politica. L’unione monetaria, nelle intenzioni, avrebbe dovuto funzionare da grimaldello per far nascere da realtà nazionali differenti per storia, lingua, cultura e tradizioni, una società europea. Dato che questo sarebbe stato l’obiettivo di lungo periodo, nel medio periodo l’unione monetaria avrebbe fornito uno 'scudo' comune, rispetto al resto del mondo, agli Stati membri. Nei vent’anni dalla firma del Trattato di Maastricht e nei 12 dalla nascita dell’euro, gli obiettivi sembrano però molto più distanti di quanto preconizzato e, all’interno dell’Eurozona, si sono attizzati nuovi egoismi e opportunismi nazionali, che innescano tensioni all’interno dell’area dell’euro.
SCAMBI E PREZZI
Secondo fattore critico: l’intensità degli scambi e la convergenza dei prezzi all’interno dell’area. Al varo dell’euro, nel 1999, ciascuno dei membri di quella che sarebbe stata l’Eurozona esportava tra il 15% e il 20% della propria produzione verso altri partner della zona. Una percentuale ragguardevole, ma pari a meno della metà di quella che gli Stati americani si scambiano all’interno degli Usa e inferiore anche a quelle che caratterizzano altre unioni monetarie fondate su lunghe tradizioni storiche e consolidate reti commerciali. Più dell’interscambio, però, da una moneta unica ci si aspetta la convergenza dei prezzi. Dalla creazione dell’euro, tale convergenza si è registrata principalmente nel settore dell’elettronica di consumo, ma non in altri ambiti: i beni di consumo durevole, le auto o gli elettrodomestici, si vendono a prezzi molto differenti nei diversi Paesi europei. Secondo Charles Engel dell’Università del Wisconsin e John Rogers della Federal Reserve, in Europa c’è stata una marcata convergenza di prezzi negli anni Novanta, ma la tendenza ha poi rallentato, financo a bloccarsi, a ragione dell’accentuarsi di rivalità e particolarismi nell’area.
LA MOBILITÀ
Terzo fattore critico: la mobilità dei fattori di produzione. È, per molti aspetti, il risvolto dell’intensità degli scambi.
Non esistono barriere legali alla mobilità del capitale e del lavoro.
A 12 anni dalla creazione dell’euro, alcuni Stati hanno reintrodotto o stanno reintroducendo, col fine di combattere l’evasione, obblighi amministrativi sui flussi di capitale all’interno dell’Eurozona. Nel resto del mondo tali nuovi adempimenti vengono percepiti come un passo indietro rispetto ai Trattati. L’aumento della mobilità del lavoro, inoltre, non si è verificato. In questo campo gli ostacoli non sono le barriere legali alla frontiera, ma le differenze di lingua, di cultura, di importanza attribuita alle relazioni familiari ed amicali, di scuola e formazione e di valore legale dei titoli di studio. Un recente studio econometrico mostra come le differenze dei tassi di disoccupazione negli Stati Uniti siano inferiori e meno persistenti nelle regioni degli Usa rispetto all’Eurozona. All’interno dei singoli Stati dell’area euro, la mobilità del lavoro è frenata non solo da fattori sociali e culturali, ma anche dalla regolamentazione pubblica. Si pensi all’obbligo di essere 'residenti' di una località per poter fruire dei servizi all’impiego o dei sussidi di disoccupazione.
Non si è realizzata la convergenza di prezzi, strutture economiche e produttività del lavoro anche per l’emergere di rivalità e particolarismi
L’ECONOMIA REALE
Quarto fattore critico: la scarsa attenzione alle strutture dell’economia reale. I padri fondatori dell’unione monetaria erano consapevoli che, per funzionare bene e accrescere il benessere di tutti, l’unione monetaria avrebbe dovuto portare a una convergenza delle economie reali, dalle strutture di produzione all’operatività dei mercati. L’idea di fondo del Trattato di Maastricht, del Patto di Crescita e Stabilità e del Patto Euro-Plus, è che la convergenza delle politiche monetarie e di bilancio, cioè il rispetto dei parametri fissati, avrebbero portato a una convergenza delle strutture economiche, della produttività del lavoro e dei capitali, oltre che della competitività delle merci e dei servizi. A 12 anni dall’avvio dell’euro questa ipotesi è ancora tutta da verificare. Secondo alcune ricerche, in realtà, è avvenuto il contrario: si sarebbero cioè accentuate le divergenze tra aree ad alto reddito, alta produttività e alta competitività e quelle, invece, in ritardo di sviluppo, come il Mezzogiorno d’Italia e il Nord del Portogallo.
LO STUDIO
L’addio alla divisa unica adesso? Più costi che benefici
S ono molti in questi giorni di turbolenze finanziarie, di corsa degli spread e di annunci relativi a nuove e costose misure di risanamento a sostenere che alla fine sia meglio, per l’Italia, uscire dall’euro. Un addio senza rimpianti, seguito da una bella svalutazione della lira, che ci permetterebbe di far schizzare alle stelle le esportazioni di prodotti del made in Italy. Certo, l’altra faccia della medaglia non sarebbe indolore. Alta inflazione, prezzi dei prodotti realizzati all’estero (basti pensare all’hi-tech) improponibili, imprese a prezzi di saldo e via dicendo.
Considerazioni generali a parte, Ubs Investment Research ha tentato di recente un’analisi sui costi di un’ipotetica uscita dall’euro di un Paese. E la conclusione non è proprio incoraggiante. Per un’economia debole, in particolare, i costi dell’uscita dalla moneta unica sarebbero insopportabili. La svalutazione, infatti, non sarebbe in grado di offrire supporto all’economia, e sarebbe accompagnata dal collasso del commercio con l’estero, da una crisi del settore industriale e del settore bancario, e dal default del debito sovrano. Il danno effettivo pro-capite sarebbe stimabile tra i 9.500 e gli 11.500 euro per il primo anno, e tra i 3.000 e i 4.000 euro negli anni seguenti. Solo nel primo anno, andrebbe in fumo tra il 40% e il 50% del Prodotto interno lordo.
Se, invece, ad uscire dalla moneta unica fosse un’economia 'forte' le conseguenze sarebbero solo un po’ meno dolorose. In termini di costi si può stimare una cifra tra i 3.500 e i 4.500 euro a cittadino, per un valore complessivo pari al 20¬ 25% del Pil. In buona sostanza ai cittadini tedeschi costerebbe molto meno 'salvare' Grecia, Irlanda e Portogallo: circa 1.000 euro a testa.
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