La moneta dell’Europa fragile perché incompiuta
Dal sogno dell’integrazione ai difetti congeniti dell’euro Lingua, lavoro, prezzi ed economia reale: ecco cosa non ha funzionato
DI GIUSEPPE PENNISI
Il desiderio di un’Europa federale con una mo¬neta unica è sempre stato l’obiettivo dei 'Pa¬dri Fondatori' dell’Unione Europea. Sino a¬gli anni Settanta, tuttavia, non se ne avvertiva l’esigenza perché i Paesi industriali ad econo¬mia di mercato e le loro ex-colonie operavano in un sistema mondiale a cambi fissi rispetto al dol¬laro Usa, così come definito nel 1944 alla Con¬ferenza di Bretton Woods. Quando, all’inizio de¬gli anni Settanta, il «regime di Bretton Woods» venne di fatto sospeso, le forti fluttuazioni dei cambi europei misero a repentaglio la strada ver¬so il mercato comune. Venne così messo a pun¬to un programma decennale – il piano Werner – per arrivare a un’unione monetaria europea.
Il progetto fu presto abbandonato a ragione dela più pressante esigenza di far sì che le monete europee fluttuassero all’unisono rispetto al dol¬laro e limitassero l’ampiezza delle fluttuazioni tra di loro, e si arrivò al «serpente europeo» del 1972-78. Il meccanismo portò in seguito agli accordi di cambio europei, conosciuti come Sistema Mo¬netario Europeo-Sme, un meccanismo di ge¬stione collegiale dei cambi all’interno dell’area, e a facilitazioni creditizie reciproche da parte delle banche centrali degli Stati aderenti. Il fun¬zionamento, soddisfacente, dello Sme venne messo in discussione dall’unificazione tedesca che cambiò drasticamente il quadro politico ed economico europeo. Apparve subito evidente, infatti, che la Germania avrebbe dato la priorità alla propria unificazione piuttosto che allo Sme. L’unione monetaria e il suo trattato fondatore, quello di Maastricht del 1992, possono essere così letti come un tentativo di forzare le tappe dell’unificazione europea e, al tempo stesso, di rendere 'collegiali' le decisioni di politica mo¬netaria nell’area, non lasciandole di fatto alla Banca nazionale dello Stato più importante, la tedesca Bundesbank.
Al fine di fare sì che l’unione monetaria fosse 'aperta' a tutti gli Stati europei che fossero via via in condizione di farne parte, si definì un per¬corso predeterminato a tappe obbligate e con indicatori quantitativi di politica monetaria e di bilancio. Un 'gioco dell’oca', o un 'labirinto', che andava seguito da tutti coloro che volevano fare parte dell’unione. Il percorso fu un’idea in¬novativa e geniale, ma l’euro nasceva con quat¬tro peccati originari. Vediamoli di seguito.
STORIA E CULTURA
Primo fattore critico: il retaggio storico, culturale, economico e sociale di ciascuno Stato dell’Unione. Nella storia economica, di norma, le unioni monetarie nascono (e muoiono) in combinazione con unioni politiche derivanti da fusioni tra Stati o da conquiste. Ad esempio, la Federal Reserve, che ha completato l’unione monetaria Usa, è stata istituita nel dicembre 1913, cioè ben 150 anni dopo la creazione degli Stati Uniti d’America. L’unione monetaria europea, al contrario, rappresenta il primo e, fino ad ora, unico
L’unione monetaria europea è il primo e unico tentativo di sostituire con una moneta unica le valute nazionali di Paesi con storie, culture, economie e società molto differenti
Una volta assorbiti gli effetti immediati dell’unificazione tedesca, l’irreversibilità dell’unione monetaria avrebbe dovuto comportare, secondo le intenzioni di chi attorno al 1990 formulò il programma dell’unione monetaria, una convergenza dei comportamenti economici di individui, famiglie, imprese, pubbliche amministrazioni, e classe politica. L’unione monetaria, nelle intenzioni, avrebbe dovuto funzionare da grimaldello per far nascere da realtà nazionali differenti per storia, lingua, cultura e tradizioni, una società europea. Dato che questo sarebbe stato l’obiettivo di lungo periodo, nel medio periodo l’unione monetaria avrebbe fornito uno 'scudo' comune, rispetto al resto del mondo, agli Stati membri. Nei vent’anni dalla firma del Trattato di Maastricht e nei 12 dalla nascita dell’euro, gli obiettivi sembrano però molto più distanti di quanto preconizzato e, all’interno dell’Eurozona, si sono attizzati nuovi egoismi e opportunismi nazionali, che innescano tensioni all’interno dell’area dell’euro.
SCAMBI E PREZZI
Secondo fattore critico: l’intensità degli scambi e la convergenza dei prezzi all’interno dell’area. Al varo dell’euro, nel 1999, ciascuno dei membri di quella che sarebbe stata l’Eurozona esportava tra il 15% e il 20% della propria produzione verso altri partner della zona. Una percentuale ragguardevole, ma pari a meno della metà di quella che gli Stati americani si scambiano all’interno degli Usa e inferiore anche a quelle che caratterizzano altre unioni monetarie fondate su lunghe tradizioni storiche e consolidate reti commerciali. Più dell’interscambio, però, da una moneta unica ci si aspetta la convergenza dei prezzi. Dalla creazione dell’euro, tale convergenza si è registrata principalmente nel settore dell’elettronica di consumo, ma non in altri ambiti: i beni di consumo durevole, le auto o gli elettrodomestici, si vendono a prezzi molto differenti nei diversi Paesi europei. Secondo Charles Engel dell’Università del Wisconsin e John Rogers della Federal Reserve, in Europa c’è stata una marcata convergenza di prezzi negli anni Novanta, ma la tendenza ha poi rallentato, financo a bloccarsi, a ragione dell’accentuarsi di rivalità e particolarismi nell’area.
LA MOBILITÀ
Terzo fattore critico: la mobilità dei fattori di produzione. È, per molti aspetti, il risvolto dell’intensità degli scambi.
Non esistono barriere legali alla mobilità del capitale e del lavoro.
A 12 anni dalla creazione dell’euro, alcuni Stati hanno reintrodotto o stanno reintroducendo, col fine di combattere l’evasione, obblighi amministrativi sui flussi di capitale all’interno dell’Eurozona. Nel resto del mondo tali nuovi adempimenti vengono percepiti come un passo indietro rispetto ai Trattati. L’aumento della mobilità del lavoro, inoltre, non si è verificato. In questo campo gli ostacoli non sono le barriere legali alla frontiera, ma le differenze di lingua, di cultura, di importanza attribuita alle relazioni familiari ed amicali, di scuola e formazione e di valore legale dei titoli di studio. Un recente studio econometrico mostra come le differenze dei tassi di disoccupazione negli Stati Uniti siano inferiori e meno persistenti nelle regioni degli Usa rispetto all’Eurozona. All’interno dei singoli Stati dell’area euro, la mobilità del lavoro è frenata non solo da fattori sociali e culturali, ma anche dalla regolamentazione pubblica. Si pensi all’obbligo di essere 'residenti' di una località per poter fruire dei servizi all’impiego o dei sussidi di disoccupazione.
Non si è realizzata la convergenza di prezzi, strutture economiche e produttività del lavoro anche per l’emergere di rivalità e particolarismi
L’ECONOMIA REALE
Quarto fattore critico: la scarsa attenzione alle strutture dell’economia reale. I padri fondatori dell’unione monetaria erano consapevoli che, per funzionare bene e accrescere il benessere di tutti, l’unione monetaria avrebbe dovuto portare a una convergenza delle economie reali, dalle strutture di produzione all’operatività dei mercati. L’idea di fondo del Trattato di Maastricht, del Patto di Crescita e Stabilità e del Patto Euro-Plus, è che la convergenza delle politiche monetarie e di bilancio, cioè il rispetto dei parametri fissati, avrebbero portato a una convergenza delle strutture economiche, della produttività del lavoro e dei capitali, oltre che della competitività delle merci e dei servizi. A 12 anni dall’avvio dell’euro questa ipotesi è ancora tutta da verificare. Secondo alcune ricerche, in realtà, è avvenuto il contrario: si sarebbero cioè accentuate le divergenze tra aree ad alto reddito, alta produttività e alta competitività e quelle, invece, in ritardo di sviluppo, come il Mezzogiorno d’Italia e il Nord del Portogallo.
LO STUDIO
L’addio alla divisa unica adesso? Più costi che benefici
S ono molti in questi giorni di turbolenze finanziarie, di corsa degli spread e di annunci relativi a nuove e costose misure di risanamento a sostenere che alla fine sia meglio, per l’Italia, uscire dall’euro. Un addio senza rimpianti, seguito da una bella svalutazione della lira, che ci permetterebbe di far schizzare alle stelle le esportazioni di prodotti del made in Italy. Certo, l’altra faccia della medaglia non sarebbe indolore. Alta inflazione, prezzi dei prodotti realizzati all’estero (basti pensare all’hi-tech) improponibili, imprese a prezzi di saldo e via dicendo.
Considerazioni generali a parte, Ubs Investment Research ha tentato di recente un’analisi sui costi di un’ipotetica uscita dall’euro di un Paese. E la conclusione non è proprio incoraggiante. Per un’economia debole, in particolare, i costi dell’uscita dalla moneta unica sarebbero insopportabili. La svalutazione, infatti, non sarebbe in grado di offrire supporto all’economia, e sarebbe accompagnata dal collasso del commercio con l’estero, da una crisi del settore industriale e del settore bancario, e dal default del debito sovrano. Il danno effettivo pro-capite sarebbe stimabile tra i 9.500 e gli 11.500 euro per il primo anno, e tra i 3.000 e i 4.000 euro negli anni seguenti. Solo nel primo anno, andrebbe in fumo tra il 40% e il 50% del Prodotto interno lordo.
Se, invece, ad uscire dalla moneta unica fosse un’economia 'forte' le conseguenze sarebbero solo un po’ meno dolorose. In termini di costi si può stimare una cifra tra i 3.500 e i 4.500 euro a cittadino, per un valore complessivo pari al 20¬ 25% del Pil. In buona sostanza ai cittadini tedeschi costerebbe molto meno 'salvare' Grecia, Irlanda e Portogallo: circa 1.000 euro a testa.
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mercoledì 30 novembre 2011
martedì 29 novembre 2011
Una domanda per Monti da Shakespeare e Keynes in Il Sussidiario del 30 novembre
Economia e Finanza
FINANZA/ 2. Una domanda per Monti da Shakespeare e Keynes
Giuseppe Pennisi
mercoledì 30 novembre 2011
Mario Monti (Foto Ansa)
Approfondisci
FINANZA/ Ecco il vero "miracolo" del Governo Monti, di M. Arnese
SCENARIO/ Pelanda: c'è una via di fuga italiana al suicidio della Germania
Il dibattito sulle attese suscitate dal Governo Monti e sui programmi concreti che attuerà è stato sinora limitato agli aspetti macroeconomici e ai punti sollevati nello scambio di lettere tra Governo Berlusconi e autorità europee. Lo stesso ministro del Lavoro e degli Affari sociali ha tenuto a precisare che non è in programma un riassetto del sistema previdenziale, ma una manutenzione straordinaria della serie di riforme iniziate nel 1995 con il passaggio dal sistema retributivo al sistema contributivo per il calcolo delle spettanze.
Occorre, però, porsi una domanda: si possono effettuare riassetti di lungo periodo alla finanza pubblica e alla macroeconomia se non si ripensa il welfare? O si rischia di prendere misure di breve periodo destinate a portare sollievo ai conti pubblici per due-tre anni (o magari anche un lustro) per tornare poi nei problemi di un tempo e trovarci ancora una volta alle prese con quella che James O’Connor chiamò “la crisi fiscale dello Stato”? James O’ Connor scriveva negli anni Settanta e ho allora criticato con rigore (credo) la terapia che proponeva. Tuttavia, la sua diagnosi è oggi ancora più attuale di ieri.
Come ripensare lo Stato sociale? Partendo da un verso di Shakespeare e dalla teoria economica. Ciò può sembrare paradossale; quindi, merita una spiegazione. Il verso di Shakespeare è quello centrale all’arringa di Porzia de Il Mercante di Venezia, un’arringa tutta ancorata su “the quality of mercy”. In italiano, “mercy” viene spesso tradotto “clemenza”; in inglese ha invece una sfumatura a metà strada tra “clemenza” e “misericordia” (il nome - attenzione - che nel Medioevo e nel Rinascimento avevo le agenzie di promozione sociale in buon parte d’Italia). La teoria economia ha due aspetti: uno definitorio e uno di politica economica proposto inizialmente da John Maynard Keynes in una prolusione pronunciata a Madrid nel 1930, ma spesso dimenticato.
Quello definitorio riguarda i beni e i servizi del welfare: sono “meritori” in senso tecnico, in quanto si riferiscono a “meriti” riconosciuti dalla collettività in vari stadi dell’evoluzione storico sociale (ad esempio, sino all’inizio del secolo scorso l’istruzione e la sanità erano considerate in gran misura beni “privati” e “di mercato” non “meritevoli” di intervento pubblico, mentre adesso sono tanto “meritevoli” che la prima è obbligatoria sino a 18 anni e per la seconda si è creato un servizio nazionale per tutti i residenti). Si dimentica spesso che buona parte dei beni e dei servizi “meritori” per avere “the quality of mercy” e massimizzare la loro efficacia devono essere “relazionari” ossia basati su una “relazione” tra le parti in causa: a scuola e in un’università si apprende meglio e di più se si stabilisce una buona “relazione” tra docenti e studenti, in sanità si cura meglio se il paziente ha una “relazione” di fiducia nei confronti del medico.
Andiamo ora a Keynes. Con preveggenza, nel 1930 a Madrid delineava un modo in cui il progresso tecnologico avrebbe consentito (nell’area atlantica) a ciascuno di soddisfare le proprie esigenze essenziali con tre ore di lavoro al giorno. Le conseguenze: o la crescita inarrestabile di “nuove esigenze” (anche di dubbia utilità) o una distribuzione iniqua delle ore di lavoro (moltissime per alcuni, disoccupazione per altri) o un tempo libero da riempire. Per non soffrire d’inedia, Keynes suggeriva con attività “meritorie” e “relazionali”.
Il cerchio si chiude. Possiamo evitare “la crisi sociale dello Stato” e le previsioni amare di Keynes se la “spending review” del welfare, centrale ai programmi nel nuovo Governo, non è solo un esercizio contabile volto a individuare sprechi e suggerire tagli. Deve portare a un passo indietro delle macchine burocratiche per farne fare uno avanti a quel lavoro volontario e semi-volontario organizzato da agenzie di promozione sociale. È una sfida che ci impegniamo a seguire e monitorare.
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FINANZA/ 2. Una domanda per Monti da Shakespeare e Keynes
Giuseppe Pennisi
mercoledì 30 novembre 2011
Mario Monti (Foto Ansa)
Approfondisci
FINANZA/ Ecco il vero "miracolo" del Governo Monti, di M. Arnese
SCENARIO/ Pelanda: c'è una via di fuga italiana al suicidio della Germania
Il dibattito sulle attese suscitate dal Governo Monti e sui programmi concreti che attuerà è stato sinora limitato agli aspetti macroeconomici e ai punti sollevati nello scambio di lettere tra Governo Berlusconi e autorità europee. Lo stesso ministro del Lavoro e degli Affari sociali ha tenuto a precisare che non è in programma un riassetto del sistema previdenziale, ma una manutenzione straordinaria della serie di riforme iniziate nel 1995 con il passaggio dal sistema retributivo al sistema contributivo per il calcolo delle spettanze.
Occorre, però, porsi una domanda: si possono effettuare riassetti di lungo periodo alla finanza pubblica e alla macroeconomia se non si ripensa il welfare? O si rischia di prendere misure di breve periodo destinate a portare sollievo ai conti pubblici per due-tre anni (o magari anche un lustro) per tornare poi nei problemi di un tempo e trovarci ancora una volta alle prese con quella che James O’Connor chiamò “la crisi fiscale dello Stato”? James O’ Connor scriveva negli anni Settanta e ho allora criticato con rigore (credo) la terapia che proponeva. Tuttavia, la sua diagnosi è oggi ancora più attuale di ieri.
Come ripensare lo Stato sociale? Partendo da un verso di Shakespeare e dalla teoria economica. Ciò può sembrare paradossale; quindi, merita una spiegazione. Il verso di Shakespeare è quello centrale all’arringa di Porzia de Il Mercante di Venezia, un’arringa tutta ancorata su “the quality of mercy”. In italiano, “mercy” viene spesso tradotto “clemenza”; in inglese ha invece una sfumatura a metà strada tra “clemenza” e “misericordia” (il nome - attenzione - che nel Medioevo e nel Rinascimento avevo le agenzie di promozione sociale in buon parte d’Italia). La teoria economia ha due aspetti: uno definitorio e uno di politica economica proposto inizialmente da John Maynard Keynes in una prolusione pronunciata a Madrid nel 1930, ma spesso dimenticato.
Quello definitorio riguarda i beni e i servizi del welfare: sono “meritori” in senso tecnico, in quanto si riferiscono a “meriti” riconosciuti dalla collettività in vari stadi dell’evoluzione storico sociale (ad esempio, sino all’inizio del secolo scorso l’istruzione e la sanità erano considerate in gran misura beni “privati” e “di mercato” non “meritevoli” di intervento pubblico, mentre adesso sono tanto “meritevoli” che la prima è obbligatoria sino a 18 anni e per la seconda si è creato un servizio nazionale per tutti i residenti). Si dimentica spesso che buona parte dei beni e dei servizi “meritori” per avere “the quality of mercy” e massimizzare la loro efficacia devono essere “relazionari” ossia basati su una “relazione” tra le parti in causa: a scuola e in un’università si apprende meglio e di più se si stabilisce una buona “relazione” tra docenti e studenti, in sanità si cura meglio se il paziente ha una “relazione” di fiducia nei confronti del medico.
Andiamo ora a Keynes. Con preveggenza, nel 1930 a Madrid delineava un modo in cui il progresso tecnologico avrebbe consentito (nell’area atlantica) a ciascuno di soddisfare le proprie esigenze essenziali con tre ore di lavoro al giorno. Le conseguenze: o la crescita inarrestabile di “nuove esigenze” (anche di dubbia utilità) o una distribuzione iniqua delle ore di lavoro (moltissime per alcuni, disoccupazione per altri) o un tempo libero da riempire. Per non soffrire d’inedia, Keynes suggeriva con attività “meritorie” e “relazionali”.
Il cerchio si chiude. Possiamo evitare “la crisi sociale dello Stato” e le previsioni amare di Keynes se la “spending review” del welfare, centrale ai programmi nel nuovo Governo, non è solo un esercizio contabile volto a individuare sprechi e suggerire tagli. Deve portare a un passo indietro delle macchine burocratiche per farne fare uno avanti a quel lavoro volontario e semi-volontario organizzato da agenzie di promozione sociale. È una sfida che ci impegniamo a seguire e monitorare.
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lunedì 28 novembre 2011
UN “MACBETH” PIU’ DISTESO E SOLENNE Il Riformista 29 novembre
UN “MACBETH” PIU’ DISTESO E SOLENNE
Beckmesser
Il 27 novembre, con una serata di gala alla presenza del Capo dello Stato, è stata inaugurata, con strepitoso successo, la stagione 2011-2012 del Teatro dell’Opera di Roma. E’ una stagione di svolta in quanto il decreto (appena approvato) su Roma Capitale ha dato uno “status” speciale alla fondazione lirica della città anche a ragione delle sue funzioni di rappresentanza e Riccardo Muti ne ha assunto la carica di direttore onorario a vita.
Opera inaugurale, “Macbeth” di Verdi, in un allestimento co-prodotto con il Festival di Salisburgo (dove ha trionfato in agosto), ma la cui regia è stata ripensata per adattare lo spettacolo al palcoscenico di Roma. La direzione musicale è affidata a Muti; quella drammaturgica a Peter Stein. E’ un’edizioni particolare (anche rispetto alle precedenti dirette da Muti) in quanto combina la versione dl 1856 pensata da Verdi per Parigi con quella del 1847 commissionata dal Teatro La Pergola di Firenze: termina con la morte del protagonista (versione 1847) non con l’inno di vittoria (versione 1856). Notevole l’abilità di Muti nel dare omogeneità a due lavori appartenenti a fasi in cui la scrittura verdiana, specialmente quella orchestrale, era mutata; rispetto a edizioni precedenti da lui guidate (San Carlo inizio Ottanta; la Scala metà anni Novanta), la concertazione di Muti ha tempi più larghi, un piglio meno battagliero e una maggiore attenzione ai dettagli, senza però tradire i momenti di maggiore teatralità. L’orchestra ed il coro rispondono con grande efficacia; sono soprattutto più verdiani dei raffinati Wiener ascoltati a Salisburgo. Nel cast (tutto di livello), spicca la Lady interpretata da Tatiana Serjan, piena di temperamento scenico; nella scena del sonnambulismo di rilievo il suo Sì bemolle in pianissimo. Dario Solari è un Macbeth che controlla gli acuti ed opta per il sussurrato in intere scene. Antonio Poli (Maduff) in una sola aria dà sfoggio di una vocalità già ricca, non più piena di promesse.
L’ambientazione spoglia di Ferdinand Wőgerbauer e l’attenzione alla recitazione ed ai movimenti della masse di Peter Stein danno un quadro solenne ad una tragedia essenzialmente psicologica. Se la caratteristica principale e complessiva di questa edizione deve essere riassunta con una frase, il suo punto centrale consiste nel sottolineare il delitto e castigo di Macbeth e della sua Lady piuttosto che il gioco del potere attorno ad un trono di sangue.
Beckmesser
Il 27 novembre, con una serata di gala alla presenza del Capo dello Stato, è stata inaugurata, con strepitoso successo, la stagione 2011-2012 del Teatro dell’Opera di Roma. E’ una stagione di svolta in quanto il decreto (appena approvato) su Roma Capitale ha dato uno “status” speciale alla fondazione lirica della città anche a ragione delle sue funzioni di rappresentanza e Riccardo Muti ne ha assunto la carica di direttore onorario a vita.
Opera inaugurale, “Macbeth” di Verdi, in un allestimento co-prodotto con il Festival di Salisburgo (dove ha trionfato in agosto), ma la cui regia è stata ripensata per adattare lo spettacolo al palcoscenico di Roma. La direzione musicale è affidata a Muti; quella drammaturgica a Peter Stein. E’ un’edizioni particolare (anche rispetto alle precedenti dirette da Muti) in quanto combina la versione dl 1856 pensata da Verdi per Parigi con quella del 1847 commissionata dal Teatro La Pergola di Firenze: termina con la morte del protagonista (versione 1847) non con l’inno di vittoria (versione 1856). Notevole l’abilità di Muti nel dare omogeneità a due lavori appartenenti a fasi in cui la scrittura verdiana, specialmente quella orchestrale, era mutata; rispetto a edizioni precedenti da lui guidate (San Carlo inizio Ottanta; la Scala metà anni Novanta), la concertazione di Muti ha tempi più larghi, un piglio meno battagliero e una maggiore attenzione ai dettagli, senza però tradire i momenti di maggiore teatralità. L’orchestra ed il coro rispondono con grande efficacia; sono soprattutto più verdiani dei raffinati Wiener ascoltati a Salisburgo. Nel cast (tutto di livello), spicca la Lady interpretata da Tatiana Serjan, piena di temperamento scenico; nella scena del sonnambulismo di rilievo il suo Sì bemolle in pianissimo. Dario Solari è un Macbeth che controlla gli acuti ed opta per il sussurrato in intere scene. Antonio Poli (Maduff) in una sola aria dà sfoggio di una vocalità già ricca, non più piena di promesse.
L’ambientazione spoglia di Ferdinand Wőgerbauer e l’attenzione alla recitazione ed ai movimenti della masse di Peter Stein danno un quadro solenne ad una tragedia essenzialmente psicologica. Se la caratteristica principale e complessiva di questa edizione deve essere riassunta con una frase, il suo punto centrale consiste nel sottolineare il delitto e castigo di Macbeth e della sua Lady piuttosto che il gioco del potere attorno ad un trono di sangue.
sabato 26 novembre 2011
Assalto finale all’Eurozona Banche Usa in pre-allerta in Avvenire 27 novembre
Assalto finale all’Eurozona Banche Usa in pre-allerta
Merkel e Sarkozy lavorano per cambiare i Trattati Ue
DI GIUSEPPE PENNNISI
L a settimana che inizia il 28 novembre sarà quella del grande attacco all’euro: i mercati scommettono non nei con¬fronti di questi o di quei titoli di debito so¬vrano, ma sulla tenuta o meno dell’unione monetaria. A lanciare l’allarme è stata la stampa internazionale, dal The Economist al
The New York Times , ma anche i quotidiani finanziari online (specialmente quelli an¬glosassoni ed asiatici) e, quel che più conta, le 'newsletter' dei grandi fondi d’investim¬neto per i propri abbondati. Un grande fon¬do californiano descrive il recente incontro a tre di Strasburgo fra Berlino, Parigi e Roma come il percorso, nella nebbia fitta, di un au¬to guidata da un conducente (Merkel) in li¬te con il passeggero seduto al suo fianco (Sarkozy), mentre nel sedile posteriore c’è un nuovo arrivato già simile ad un pugile suonato (Monti).
Secondo un documento del colosso ameri¬cano Merrill Lynch, dunque, numerose ban¬che stanno organizzandosi per un mondo senza euro in cui le valute di Germania, Au¬stria, Benelux, e Finlandia si apprezzereb¬bero nei confronti del dollaro Usa, mentre quelle di Grecia, Italia, Portogallo e Spagna si deprezzerebbero. Alcuni istituti – ad e¬sempio, la Royal Bank of Scotland – offri¬rebbero ai loro migliori clienti di convertire i conti in euro in conti in panieri di valute. La fine dell’Eurozona fa comunque paura a tutti, poiché il caos sui mercati europei con¬tagerebbe il resto del mondo. Secondo l’Oxford Econometric Model, il dissolvi¬mento dell’unione comporrebbe, nel 2012, una contrazione del 2% del Pil mondiale in cui ovviamente l’Europa soffrirebbe più di altri. L’Italia, fra i Grandi, è non solo l’anello debole, ma uno dei Paesi che potrebbero sof¬frire di più con una contrazione del Pil at¬torno al 4% per l’anno che sta per iniziare.
Come difendersi nel breve periodo? Vengo¬no anzitutto lanciati appelli alla Bce perché intervenga massicciamente sui mercati. Ma quando le banche centrali si sono svenate per difendere una valuta (si pensi alla lira e alla sterlina nell’estate 1992) hanno finito per dovere alzare bandiere banca, restando senza riserve. Altri economisti (Chong Huand dell’Università di Pennsylvania, Jean-Yves Filbien dell’Università di Monréal e La¬bodance Fabien dell’Università di Grenoble) in lavori distinti propongono invece sem¬plicemente che la Bce parli con una sola vo¬ce e tenga la barra dritta. Nel contempo, gli Stati dell’Eurozona dovrebbero fare inten¬dere che al vertice del 9 dicembre si opterà per un sostanziale deprezzamento della va¬luta nei confronti del dollaro al fine di dare ossigeno alle economie reali.
L’attacco all’euro è stato comuneue accele¬rato dalla scarsa attenzione alla «crescita» nel documento N.11/822 della Commissio¬ne Ue finalizzato a modificare – con un sot¬terfugio – i Trattati. Del documento origina¬le ne in possesso Avvenire che lo ha riassun¬to nell’edizione di venerdì 25 novembre. Ie¬ri il quotidiano tedesco Bild parlava di 'trat¬tative segrete' fra Angela Merkel e Nicolas Sarkozy, riferendosi a un piano per arrivare a un nuovo patto di stabilità europeo entro l’inizio del prossimo anno. Trattasi proprio delle modifiche sulle regole dei bilanci pub¬blici citate nell’articolo di Avvenire intitola¬to «Il piano? Una politica di bilancio comu¬ne » per la modifica dei Trattati – in larga par¬te seguendo le proposte della Commissione – grazie a un negoziato condotto da Germa¬nia, Francia, ma anche dell’Italia, i cui lea¬der, nell’incontro di Strasburgo, hanno re¬cepito i punti essenziali. Se si riesce a difendere l’euro nel breve pe¬riodo, infatti, nel medio la strada maestra è una vera riforma dei Trattati per dare prio¬rità alla convergenza dell’economia reale (os¬sia della produttività e della competitività).
l’escalation. L’ipotesi del crollo fa breccia: i maggiori istituti di credito al mondo esaminano la possibilità di una disintegrazione dell’area euro
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L’AVVERTIMENTO
«Addio euro, le banche si preparano»
NEW YORK. Le maggiori banche al mondo si preparano a quello che, fino a poco fa, sembrava impensabile: la disintegrazione dell’area euro. Lo riportava ieri il New York Times, sottolineando che molti istituti di credito, quali Merrill Lynch, Barclays Capital e Nomura hanno pubblicato decine di rapporti in settimana nei quali esaminano la possibilità di una disintegrazione dell’area euro. Nel Regno Unito, Royal Bank of Scotland mette a punto piani di emergenza nel caso in cui l’impensabile diventi realtà.
Negli Stati Uniti le autorità di regolamentazione spingono le banche, fra le quali Citigroup, a ridurre la loro esposizione verso l’area euro. «Le banche in Francia e in Italia non stanno mettendo a punto piani di emergenza perché hanno concluso che una disintegrazione dell’area euro è impossibile», evidenzia il quotidiano.
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Merkel e Sarkozy lavorano per cambiare i Trattati Ue
DI GIUSEPPE PENNNISI
L a settimana che inizia il 28 novembre sarà quella del grande attacco all’euro: i mercati scommettono non nei con¬fronti di questi o di quei titoli di debito so¬vrano, ma sulla tenuta o meno dell’unione monetaria. A lanciare l’allarme è stata la stampa internazionale, dal The Economist al
The New York Times , ma anche i quotidiani finanziari online (specialmente quelli an¬glosassoni ed asiatici) e, quel che più conta, le 'newsletter' dei grandi fondi d’investim¬neto per i propri abbondati. Un grande fon¬do californiano descrive il recente incontro a tre di Strasburgo fra Berlino, Parigi e Roma come il percorso, nella nebbia fitta, di un au¬to guidata da un conducente (Merkel) in li¬te con il passeggero seduto al suo fianco (Sarkozy), mentre nel sedile posteriore c’è un nuovo arrivato già simile ad un pugile suonato (Monti).
Secondo un documento del colosso ameri¬cano Merrill Lynch, dunque, numerose ban¬che stanno organizzandosi per un mondo senza euro in cui le valute di Germania, Au¬stria, Benelux, e Finlandia si apprezzereb¬bero nei confronti del dollaro Usa, mentre quelle di Grecia, Italia, Portogallo e Spagna si deprezzerebbero. Alcuni istituti – ad e¬sempio, la Royal Bank of Scotland – offri¬rebbero ai loro migliori clienti di convertire i conti in euro in conti in panieri di valute. La fine dell’Eurozona fa comunque paura a tutti, poiché il caos sui mercati europei con¬tagerebbe il resto del mondo. Secondo l’Oxford Econometric Model, il dissolvi¬mento dell’unione comporrebbe, nel 2012, una contrazione del 2% del Pil mondiale in cui ovviamente l’Europa soffrirebbe più di altri. L’Italia, fra i Grandi, è non solo l’anello debole, ma uno dei Paesi che potrebbero sof¬frire di più con una contrazione del Pil at¬torno al 4% per l’anno che sta per iniziare.
Come difendersi nel breve periodo? Vengo¬no anzitutto lanciati appelli alla Bce perché intervenga massicciamente sui mercati. Ma quando le banche centrali si sono svenate per difendere una valuta (si pensi alla lira e alla sterlina nell’estate 1992) hanno finito per dovere alzare bandiere banca, restando senza riserve. Altri economisti (Chong Huand dell’Università di Pennsylvania, Jean-Yves Filbien dell’Università di Monréal e La¬bodance Fabien dell’Università di Grenoble) in lavori distinti propongono invece sem¬plicemente che la Bce parli con una sola vo¬ce e tenga la barra dritta. Nel contempo, gli Stati dell’Eurozona dovrebbero fare inten¬dere che al vertice del 9 dicembre si opterà per un sostanziale deprezzamento della va¬luta nei confronti del dollaro al fine di dare ossigeno alle economie reali.
L’attacco all’euro è stato comuneue accele¬rato dalla scarsa attenzione alla «crescita» nel documento N.11/822 della Commissio¬ne Ue finalizzato a modificare – con un sot¬terfugio – i Trattati. Del documento origina¬le ne in possesso Avvenire che lo ha riassun¬to nell’edizione di venerdì 25 novembre. Ie¬ri il quotidiano tedesco Bild parlava di 'trat¬tative segrete' fra Angela Merkel e Nicolas Sarkozy, riferendosi a un piano per arrivare a un nuovo patto di stabilità europeo entro l’inizio del prossimo anno. Trattasi proprio delle modifiche sulle regole dei bilanci pub¬blici citate nell’articolo di Avvenire intitola¬to «Il piano? Una politica di bilancio comu¬ne » per la modifica dei Trattati – in larga par¬te seguendo le proposte della Commissione – grazie a un negoziato condotto da Germa¬nia, Francia, ma anche dell’Italia, i cui lea¬der, nell’incontro di Strasburgo, hanno re¬cepito i punti essenziali. Se si riesce a difendere l’euro nel breve pe¬riodo, infatti, nel medio la strada maestra è una vera riforma dei Trattati per dare prio¬rità alla convergenza dell’economia reale (os¬sia della produttività e della competitività).
l’escalation. L’ipotesi del crollo fa breccia: i maggiori istituti di credito al mondo esaminano la possibilità di una disintegrazione dell’area euro
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L’AVVERTIMENTO
«Addio euro, le banche si preparano»
NEW YORK. Le maggiori banche al mondo si preparano a quello che, fino a poco fa, sembrava impensabile: la disintegrazione dell’area euro. Lo riportava ieri il New York Times, sottolineando che molti istituti di credito, quali Merrill Lynch, Barclays Capital e Nomura hanno pubblicato decine di rapporti in settimana nei quali esaminano la possibilità di una disintegrazione dell’area euro. Nel Regno Unito, Royal Bank of Scotland mette a punto piani di emergenza nel caso in cui l’impensabile diventi realtà.
Negli Stati Uniti le autorità di regolamentazione spingono le banche, fra le quali Citigroup, a ridurre la loro esposizione verso l’area euro. «Le banche in Francia e in Italia non stanno mettendo a punto piani di emergenza perché hanno concluso che una disintegrazione dell’area euro è impossibile», evidenzia il quotidiano.
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Il duo Ronconi-Ferro fa centro con Semiramide in Il Sussidiario del 26 novembre
TEATRO SAN SAN CARLO Il duo Ronconi-Ferro fa centro con Semiramide
Giuseppe Pennisi
sabato 26 novembre 2011
Semiramide al Teatro San Carlo di Napoli
Approfondisci
O MIA PATRIA/ Il valore del melodramma nella storia dei nostri 150 anni
CONCERTO/ "Una storia un po' magica" di musica e solidarietà
Dopo anni in cui ha viaggiato a scartamento ridotto, a ragione di un situazione finanziaria fallimentare, e la necessità di difficile restauri al manufatto, il Teatro San Carlo ha inaugurato il 18 novembre una stagione con dieci titoli d’opera, numerosi concerti sinfonici e balletti. Parte della stagione è nel delizioso Teatro di Corte, anche esso rimesso a lustro. Opera inaugurale da fare tremare i polsi: “Semiramide”, ultimo lavoro commissionato a Rossini da un teatro italiano (La Fenice).
“Sémiramis”, tragedia in cinque atti di Voltaire, è un apologo della corruzione assoluta derivante dal potere assoluto. Nelle mani del librettista Gaetano Rossi e del trentenne Gioacchino Rossini, cattolico rigoroso nell’osservanza di nove comandamenti (dei dieci nella tavole di Mosè), diventa un dramma passionale. Nell’antefatto, Semiramide ha ucciso il proprio marito Nino, con l’ausilio del proprio amante Assur, che ha fatto anche sparire l’erede al trono, Ninia. Passano anni (e amanti), i sacerdoti impongono alla regina-dittatora di scegliersi un marito per la assicurare la successione.
La scelta piomba sul giovane e bel generale Arsace (richiamato dal Caucaso). Pur se innamorato della fanciulla Arzena, Arsace non disdegna di apprendere dalla più matura regina a fornicare e a dedicarvici parte del primo atto. Nel secondo, però, apprende di essere Ninia: Semiramide e Assur sono, quindi, gli assassini di suo padre (la cui ombra lo tormenta). Decide di vendicarsi dell’uomo e di interrompere il rapporto incestuoso con la regina. Nel buio, però, pugnala a morte la seconda; al primo badano i sacerdoti; con Azema porta pace, e fertilità, al Regno.
Rossini affrontò questo complicato intreccio a tre anni da quel “Maometto” napoletano che cambiò la sua vita professionale: da quattro opere l’anno a meno di una, nonché il ritiro dalle scene a soli 37. Sotto il profilo musicale, la vicenda diventò l’esaltazione del rapporto passionale-carnale (tema già centrale in “Armida” e in “Bianca e Faliero” ma mai più ripreso da Rossini, nonostante l’”opéra érotique”, “Le Comte Ory”). L’opera venne composta su misura per Isabella Colbran (allora prossima alla quarantina ma con cui aveva un rapporto passionale da quando lui era 22enne e lei sui 30 anni, nonché diventata sua moglie dopo averne condiviso il letto con l’impresario Babaja, datore di lavoro di ambedue). “Semiramide” è una “tragèdie lyrique” che precorre il “bel canto” belliniano, nonché nesso essenziale per il melodramma donizettiano e verdiano. Per questo restò in repertorio nell’Ottocento e inaugurò l’Opera di Roma nel 1880.
La versione andata in scena alla Fenice nel 1823 durava quasi cinque ore a ragione di lunghi recitativi parlati (a sipario chiuso) per facilitare i cambiascena. Le registrazioni in commercio vanno dai 180 ai 240 minuti. La prima edizione critica è stata presentata a Pesaro nel 2003 e tocca i 250 minuti. A Napoli, la drammaturgia è affidata a Luca Ronconi, la direzione musicale a Gabriele Ferro (che già nel 1983 ha diretto un’ottima versione a Roma) Ronconi e Ferro hanno leggermente limato l’edizione critica di Gossett e Zedda per portare lo spettacolo a 220 minuti di musica e 20 di intervallo; non allentano i tempi ma accentua gli aspetti passional-carnali e la grandiosità del contesto (eccellenti gli ottoni e l’oboe).
La Babilonia di Ronconi è una landa desolata piena di rovine; si è appena conclusa una guerra ma il conflitto è ancor nelle anime dei personaggi. Il coro è in buca: in effetti, commenta più che partecipa. In scena, la protagonista e le donne del Regno sono in top-less , i protagonisti maschili attorniati da mimi in short. Quindi, un quadro atemporale ma primitivo. Pochi gli elementi scenici; tra essi un divano e specchi per le scene d’amore tra Semiramide e Arsace.
Laura Aikin è Semiramide. Molto intelligente il percorso di questa cantante americana diventata famosa una quindicina di anni fa per i difficili ruoli di coloratura che affrontava (Zerbinetta in “Arianna a Nasso”, la Regina della Notte” ne “Il Flauto Magico”) e ora alle prese con parti di soprano anfibio o “Falcon” in grado di arrivare a tonalità molto gravi. Arsace è Silvia Tro Santaf, ineccepibile contralto spagnolo ma con una personalità meno forte di quella della Aikin. Simone Alberghini è un basso “di agilità” di livello. Una sorpresa: il giovane Barry Banks, poco conosciuto in Italia, ma con un vocalizzo lirico da ammaliare.
Molti applausi a scena aperta. Non numerose le chiamate alla fine perché dopo cinque ore in teatro molti spettatori sono corsi al ristorante.
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Giuseppe Pennisi
sabato 26 novembre 2011
Semiramide al Teatro San Carlo di Napoli
Approfondisci
O MIA PATRIA/ Il valore del melodramma nella storia dei nostri 150 anni
CONCERTO/ "Una storia un po' magica" di musica e solidarietà
Dopo anni in cui ha viaggiato a scartamento ridotto, a ragione di un situazione finanziaria fallimentare, e la necessità di difficile restauri al manufatto, il Teatro San Carlo ha inaugurato il 18 novembre una stagione con dieci titoli d’opera, numerosi concerti sinfonici e balletti. Parte della stagione è nel delizioso Teatro di Corte, anche esso rimesso a lustro. Opera inaugurale da fare tremare i polsi: “Semiramide”, ultimo lavoro commissionato a Rossini da un teatro italiano (La Fenice).
“Sémiramis”, tragedia in cinque atti di Voltaire, è un apologo della corruzione assoluta derivante dal potere assoluto. Nelle mani del librettista Gaetano Rossi e del trentenne Gioacchino Rossini, cattolico rigoroso nell’osservanza di nove comandamenti (dei dieci nella tavole di Mosè), diventa un dramma passionale. Nell’antefatto, Semiramide ha ucciso il proprio marito Nino, con l’ausilio del proprio amante Assur, che ha fatto anche sparire l’erede al trono, Ninia. Passano anni (e amanti), i sacerdoti impongono alla regina-dittatora di scegliersi un marito per la assicurare la successione.
La scelta piomba sul giovane e bel generale Arsace (richiamato dal Caucaso). Pur se innamorato della fanciulla Arzena, Arsace non disdegna di apprendere dalla più matura regina a fornicare e a dedicarvici parte del primo atto. Nel secondo, però, apprende di essere Ninia: Semiramide e Assur sono, quindi, gli assassini di suo padre (la cui ombra lo tormenta). Decide di vendicarsi dell’uomo e di interrompere il rapporto incestuoso con la regina. Nel buio, però, pugnala a morte la seconda; al primo badano i sacerdoti; con Azema porta pace, e fertilità, al Regno.
Rossini affrontò questo complicato intreccio a tre anni da quel “Maometto” napoletano che cambiò la sua vita professionale: da quattro opere l’anno a meno di una, nonché il ritiro dalle scene a soli 37. Sotto il profilo musicale, la vicenda diventò l’esaltazione del rapporto passionale-carnale (tema già centrale in “Armida” e in “Bianca e Faliero” ma mai più ripreso da Rossini, nonostante l’”opéra érotique”, “Le Comte Ory”). L’opera venne composta su misura per Isabella Colbran (allora prossima alla quarantina ma con cui aveva un rapporto passionale da quando lui era 22enne e lei sui 30 anni, nonché diventata sua moglie dopo averne condiviso il letto con l’impresario Babaja, datore di lavoro di ambedue). “Semiramide” è una “tragèdie lyrique” che precorre il “bel canto” belliniano, nonché nesso essenziale per il melodramma donizettiano e verdiano. Per questo restò in repertorio nell’Ottocento e inaugurò l’Opera di Roma nel 1880.
La versione andata in scena alla Fenice nel 1823 durava quasi cinque ore a ragione di lunghi recitativi parlati (a sipario chiuso) per facilitare i cambiascena. Le registrazioni in commercio vanno dai 180 ai 240 minuti. La prima edizione critica è stata presentata a Pesaro nel 2003 e tocca i 250 minuti. A Napoli, la drammaturgia è affidata a Luca Ronconi, la direzione musicale a Gabriele Ferro (che già nel 1983 ha diretto un’ottima versione a Roma) Ronconi e Ferro hanno leggermente limato l’edizione critica di Gossett e Zedda per portare lo spettacolo a 220 minuti di musica e 20 di intervallo; non allentano i tempi ma accentua gli aspetti passional-carnali e la grandiosità del contesto (eccellenti gli ottoni e l’oboe).
La Babilonia di Ronconi è una landa desolata piena di rovine; si è appena conclusa una guerra ma il conflitto è ancor nelle anime dei personaggi. Il coro è in buca: in effetti, commenta più che partecipa. In scena, la protagonista e le donne del Regno sono in top-less , i protagonisti maschili attorniati da mimi in short. Quindi, un quadro atemporale ma primitivo. Pochi gli elementi scenici; tra essi un divano e specchi per le scene d’amore tra Semiramide e Arsace.
Laura Aikin è Semiramide. Molto intelligente il percorso di questa cantante americana diventata famosa una quindicina di anni fa per i difficili ruoli di coloratura che affrontava (Zerbinetta in “Arianna a Nasso”, la Regina della Notte” ne “Il Flauto Magico”) e ora alle prese con parti di soprano anfibio o “Falcon” in grado di arrivare a tonalità molto gravi. Arsace è Silvia Tro Santaf, ineccepibile contralto spagnolo ma con una personalità meno forte di quella della Aikin. Simone Alberghini è un basso “di agilità” di livello. Una sorpresa: il giovane Barry Banks, poco conosciuto in Italia, ma con un vocalizzo lirico da ammaliare.
Molti applausi a scena aperta. Non numerose le chiamate alla fine perché dopo cinque ore in teatro molti spettatori sono corsi al ristorante.
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giovedì 24 novembre 2011
IL SISTEMA PREVIDENZIALE PROGRESSIVO in Il Riformista del 25 novembre
I LIBRI DEI MINISTRI- ELSA FORNERO
Giuseppe Pennisi
Uno dei primi provvedimenti all’esame del Consiglio dei Ministri e del Parlamento avrà lo stile sobrio ed elegante del Ministro per il Welfare, Elsa Fornero. Riguarderà il futuro a breve termine delle pensioni (dal peso della spesa previdenziale sui conti pubblici all’equità intergenerazionale ed interpersonale dei trattamenti). I contenuti sono noti a ragione dei numerosi scritti di questi ultimi anni: accelerazione nel passaggio dal metodo retributivo a quello contributivo per il computo delle spettanze e flessibilità in materia di età in cui ciascun lavoratore deciderà di andare in quiescenza.
E per il futuro a più lungo termine? Naturalmente fare riforme (anche piccole della previdenza) può disorientare tutti. Tuttavia, occorre tracciare il cammino per cambiamenti anche maggiori di quelli adesso possibili sotto il profilo del supporto parlamentare. Di rilievo un saggio appena pubblicato da tre previdenzialisti dell’Università di Würzburg- Hans Fher, Manuel Kallweitt, Fabian Kindermann- come CESifo Working Paper No. 3636. Il lavoro, frutto anche di un’approfondita analisi econometrica, propone un sistema previdenziale progressivo (con trattamenti migliori a chi nella vita lavorativa ha avuto carriere , e compensi, più contenuti, nell’ipotesi che chi ha guadagnato bene ha messo da parte un gruzzoletto per la vecchiaia). Un sistema del genere funziona da decenni in Svizzera. L’aspetto interessante del lavoro degli economisti di Würzburg è l’analisi di se e come rendere progressivi i contributi nonché quella dell’efficienza ed efficacia, non solo dell’equità. Uno studio quasi parallelo, ancora inedito, condotto, sempre su dati tedeschi, da Peter Haan del DIW di Berlino e da Victoria Prowse della Università di Cornell, giunge a conclusioni analoghe partendo una premessa differente: l’aumento della longevità.
Il tema diventerà importante perché, secondo le previsioni di un gruppo di ricerca specializzato in materia pensionistica, Towers Whatson (nel loro Technical Paper No. 192444), ancorati unicamente al meccanismo contributivo, la maggioranza degli anziani di domani rischia trattamenti bassissimi (se non riequilibrati con meccanismi progressivi) . Ciò riguarda non solo l’Italia ma tutti i Paesi dove vige un sistema contributivo più o meno modellato su quello introdotto nel 1995 da noi ed in Svezia.
Attenzione proprio per ragioni analoghe nel 2008 è stato modificato il sistema previdenziale cileno (articolato nel 1980 su fondi pensione privati contributivi) per introdurre una “pensione di base di solidarietà” per tutte le famiglie a basso reddito con almeno un ultra-sessantacinquenne in casa. Il Retirementi Research Center della Università del Michigan ha appena compiuto una valutazione della riforma del 2008 (Research Paper No: WP 2011-245) ed ha concluso che le misure hanno aumentato , anche se si poco, il reddito delle famiglie considerate povere e permesso una maggiore spesa dei nuclei bisognosi in cure mediche (altro obiettivo meritorio)
Giuseppe Pennisi
Uno dei primi provvedimenti all’esame del Consiglio dei Ministri e del Parlamento avrà lo stile sobrio ed elegante del Ministro per il Welfare, Elsa Fornero. Riguarderà il futuro a breve termine delle pensioni (dal peso della spesa previdenziale sui conti pubblici all’equità intergenerazionale ed interpersonale dei trattamenti). I contenuti sono noti a ragione dei numerosi scritti di questi ultimi anni: accelerazione nel passaggio dal metodo retributivo a quello contributivo per il computo delle spettanze e flessibilità in materia di età in cui ciascun lavoratore deciderà di andare in quiescenza.
E per il futuro a più lungo termine? Naturalmente fare riforme (anche piccole della previdenza) può disorientare tutti. Tuttavia, occorre tracciare il cammino per cambiamenti anche maggiori di quelli adesso possibili sotto il profilo del supporto parlamentare. Di rilievo un saggio appena pubblicato da tre previdenzialisti dell’Università di Würzburg- Hans Fher, Manuel Kallweitt, Fabian Kindermann- come CESifo Working Paper No. 3636. Il lavoro, frutto anche di un’approfondita analisi econometrica, propone un sistema previdenziale progressivo (con trattamenti migliori a chi nella vita lavorativa ha avuto carriere , e compensi, più contenuti, nell’ipotesi che chi ha guadagnato bene ha messo da parte un gruzzoletto per la vecchiaia). Un sistema del genere funziona da decenni in Svizzera. L’aspetto interessante del lavoro degli economisti di Würzburg è l’analisi di se e come rendere progressivi i contributi nonché quella dell’efficienza ed efficacia, non solo dell’equità. Uno studio quasi parallelo, ancora inedito, condotto, sempre su dati tedeschi, da Peter Haan del DIW di Berlino e da Victoria Prowse della Università di Cornell, giunge a conclusioni analoghe partendo una premessa differente: l’aumento della longevità.
Il tema diventerà importante perché, secondo le previsioni di un gruppo di ricerca specializzato in materia pensionistica, Towers Whatson (nel loro Technical Paper No. 192444), ancorati unicamente al meccanismo contributivo, la maggioranza degli anziani di domani rischia trattamenti bassissimi (se non riequilibrati con meccanismi progressivi) . Ciò riguarda non solo l’Italia ma tutti i Paesi dove vige un sistema contributivo più o meno modellato su quello introdotto nel 1995 da noi ed in Svezia.
Attenzione proprio per ragioni analoghe nel 2008 è stato modificato il sistema previdenziale cileno (articolato nel 1980 su fondi pensione privati contributivi) per introdurre una “pensione di base di solidarietà” per tutte le famiglie a basso reddito con almeno un ultra-sessantacinquenne in casa. Il Retirementi Research Center della Università del Michigan ha appena compiuto una valutazione della riforma del 2008 (Research Paper No: WP 2011-245) ed ha concluso che le misure hanno aumentato , anche se si poco, il reddito delle famiglie considerate povere e permesso una maggiore spesa dei nuclei bisognosi in cure mediche (altro obiettivo meritorio)
Stagione di svolta al Teatro dell’Opera QuotidianoArte del 25 novembre
enerdì 25 novembre 2011
Si inizia il 27 novembre con il Macbeth di Giuseppe Verdi
Stagione di svolta al Teatro dell’Opera
Giuseppe Pennisi
Buone notizie per gli appassionati di musica di Roma e non solo. Il primo provvedimento approvato dal nuovo Governo corrisponde ad un’attesa da tempo: riconoscere la funzione speciale del Teatro dell’Opera nell’ambito di Roma Capitale. È con il vento in poppa che il 27 novembre alle 19 inizia la nuova stagione di una rara fondazione lirica italiana che ha chiuso il bilancio 2010 in pareggio. Ciò è tanto più meritorio perché il tessuto produttivo di Roma è costellato da piccole imprese; quindi, la fondazione non può contare – come la Scala - su numerosi soci privati e su una vasta rete di sponsorizzazioni, ma sull’apporto principalmente del Fus e di enti locali tutti in serie difficoltà di bilancio. Il decreto appena approva definisce una procedura speciale per il Fus da destinare al Teatro romano. L’auspicio è che possa ritornare ai fasti avuti dall’inizio del secolo scorso alla metà degli Anni Settanta quando per numero di titoli, qualità degli spettacoli, fama e interesse in Italia ed all’estero gareggiava su pari livello con la Scala.
La stagione 2011-2012. Un cartellone ricco che – escludendo il programma estivo alle Terme di Caracalla (ancora non annunciato) – comprende otto titoli operistici (due soli “Madama Butterfly” e “Il Barbiere di Siviglia” in nuovi allestimenti), cinque di balletto e un vasto e ben articolato programma di concerti. Si rafforzano, poi, grandi collaborazioni internazionali quali quelle con il Festival di Salisburgo, il Covent Garden di Londra e i Teatri di Madrid e di Barcellona. Titolo di apertura “Macbeth” di Verdi diretto di Riccardo Muti che la scorsa estate ha trionfato a Salisburgo.
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Si inizia il 27 novembre con il Macbeth di Giuseppe Verdi
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Giuseppe Pennisi
Buone notizie per gli appassionati di musica di Roma e non solo. Il primo provvedimento approvato dal nuovo Governo corrisponde ad un’attesa da tempo: riconoscere la funzione speciale del Teatro dell’Opera nell’ambito di Roma Capitale. È con il vento in poppa che il 27 novembre alle 19 inizia la nuova stagione di una rara fondazione lirica italiana che ha chiuso il bilancio 2010 in pareggio. Ciò è tanto più meritorio perché il tessuto produttivo di Roma è costellato da piccole imprese; quindi, la fondazione non può contare – come la Scala - su numerosi soci privati e su una vasta rete di sponsorizzazioni, ma sull’apporto principalmente del Fus e di enti locali tutti in serie difficoltà di bilancio. Il decreto appena approva definisce una procedura speciale per il Fus da destinare al Teatro romano. L’auspicio è che possa ritornare ai fasti avuti dall’inizio del secolo scorso alla metà degli Anni Settanta quando per numero di titoli, qualità degli spettacoli, fama e interesse in Italia ed all’estero gareggiava su pari livello con la Scala.
La stagione 2011-2012. Un cartellone ricco che – escludendo il programma estivo alle Terme di Caracalla (ancora non annunciato) – comprende otto titoli operistici (due soli “Madama Butterfly” e “Il Barbiere di Siviglia” in nuovi allestimenti), cinque di balletto e un vasto e ben articolato programma di concerti. Si rafforzano, poi, grandi collaborazioni internazionali quali quelle con il Festival di Salisburgo, il Covent Garden di Londra e i Teatri di Madrid e di Barcellona. Titolo di apertura “Macbeth” di Verdi diretto di Riccardo Muti che la scorsa estate ha trionfato a Salisburgo.
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Il piano? Una politica di bilancio comune in Avvenire del 25 novembre
Il piano? Una politica di bilancio comune
DI GIUSEPPE PENNISI
I l «patto di Strasburgo» del 24 novembre 2011 rappresenta una svolta significativa, la cui portata esatta potrà essere valutata al termine del Consiglio dei Capi di Stato e di governo dell’Unione europea del 9 dicembre. I trattati relativi all’Unione monetaria (da quello di Maastricht, al «patto di crescita e sta¬bilità », al protocollo interpretativo del 2005 al recentissimo «Accordo euro plus») verranno modificati seguendo in gran misura la propo¬sta della Commissione europea N.11/822 di-ramata il 23 novembre, ora all’attenzione del¬le diplomazie. Il negoziato verrà guidato da Francia, Germania e Italia, i cui leader ne han¬no recepito i punti essenziali.
I numerosi aspetti tecnici potranno mutare nel corso della trattativa. La modifica verreb¬be effettuata per mezzo di due regolamenti che, in base all’art.136 del Trattato di Lisbo¬na, verrebbero recepiti nella normative na¬zionali.
Il primo regolamento si applicherebbe a tutti gli Stati dell’eurozona e modificherebbe le pro¬cedure per il 'semestre europeo'. In breve, gli schemi di leggi di stabilità (le 'leggi finanzia¬rie' di un tempo) e di bilanci di previsione del¬lo Stato dovrebbero essere sottoposti al vaglio della Commissione e del Consiglio in autun¬no in modo che vengano valutati nelle loro ri¬cadute sull’eurozona. In caso di timore di 'di¬savanzi eccessivi', la Com¬missione formulerebbe 'raccomandazioni' che u¬nitamente alle risposte del¬lo o degli Stati in questione verrebbero sottoposte al¬l’esame collegiale dei Mi¬nistri economici e finan¬ziari dell’euro. Evidente l’o¬biettivo: andare a tappe ve¬loci verso una politica di bilancio comune. La materia è delicatissima perché in democrazie parlamentari si toglie¬rebbe al Parlamento il diritto-dovere di avere la prima e l’ultima parola sui conti pubblici.
Il secondo regolamento varerebbe procedure più rigorose di monitoraggio per gli Stati in difficoltà, ma aprirebbe anche uno sportello di assistenza finanziaria europea per facilita¬re il riassetto e di conti pubblici e di nodi strut¬turali attinenti all’economia reale. L’assisten¬za finanziaria comporterebbe la preparazione ed attuazione di un programma di riforme ed un monitoraggio ancora più meticoloso ('enhanced surveillance') co-gestito dalla Commissione e dalla Banca centrale europea che, se del caso, porte¬rebbero all’attenzione di ministri dell’Eurozona misure specifici che gli Stati sottoposti a «enhan¬ced surveillance» dovreb¬bero adottare. L’«enhan¬ced surveillance» verreb¬be alleggerita quando lo Stato ha restituito il 75% dell’assistenza rice¬vuta.
E la crescita? Viene affidata in gran misura a¬gli «stability bonds», in merito ai quali la Ger¬mania (ed altri) esprimono però ancora mol¬te perplessità se non contrarietà.
© RIPRODUZIONE RISERVATA
In pratica, si toglierebbe ai Parlamenti dei singoli Paesi il diritto-dovere di avere la prima e ultima parola sui conti pubblici nazionali
DI GIUSEPPE PENNISI
I l «patto di Strasburgo» del 24 novembre 2011 rappresenta una svolta significativa, la cui portata esatta potrà essere valutata al termine del Consiglio dei Capi di Stato e di governo dell’Unione europea del 9 dicembre. I trattati relativi all’Unione monetaria (da quello di Maastricht, al «patto di crescita e sta¬bilità », al protocollo interpretativo del 2005 al recentissimo «Accordo euro plus») verranno modificati seguendo in gran misura la propo¬sta della Commissione europea N.11/822 di-ramata il 23 novembre, ora all’attenzione del¬le diplomazie. Il negoziato verrà guidato da Francia, Germania e Italia, i cui leader ne han¬no recepito i punti essenziali.
I numerosi aspetti tecnici potranno mutare nel corso della trattativa. La modifica verreb¬be effettuata per mezzo di due regolamenti che, in base all’art.136 del Trattato di Lisbo¬na, verrebbero recepiti nella normative na¬zionali.
Il primo regolamento si applicherebbe a tutti gli Stati dell’eurozona e modificherebbe le pro¬cedure per il 'semestre europeo'. In breve, gli schemi di leggi di stabilità (le 'leggi finanzia¬rie' di un tempo) e di bilanci di previsione del¬lo Stato dovrebbero essere sottoposti al vaglio della Commissione e del Consiglio in autun¬no in modo che vengano valutati nelle loro ri¬cadute sull’eurozona. In caso di timore di 'di¬savanzi eccessivi', la Com¬missione formulerebbe 'raccomandazioni' che u¬nitamente alle risposte del¬lo o degli Stati in questione verrebbero sottoposte al¬l’esame collegiale dei Mi¬nistri economici e finan¬ziari dell’euro. Evidente l’o¬biettivo: andare a tappe ve¬loci verso una politica di bilancio comune. La materia è delicatissima perché in democrazie parlamentari si toglie¬rebbe al Parlamento il diritto-dovere di avere la prima e l’ultima parola sui conti pubblici.
Il secondo regolamento varerebbe procedure più rigorose di monitoraggio per gli Stati in difficoltà, ma aprirebbe anche uno sportello di assistenza finanziaria europea per facilita¬re il riassetto e di conti pubblici e di nodi strut¬turali attinenti all’economia reale. L’assisten¬za finanziaria comporterebbe la preparazione ed attuazione di un programma di riforme ed un monitoraggio ancora più meticoloso ('enhanced surveillance') co-gestito dalla Commissione e dalla Banca centrale europea che, se del caso, porte¬rebbero all’attenzione di ministri dell’Eurozona misure specifici che gli Stati sottoposti a «enhan¬ced surveillance» dovreb¬bero adottare. L’«enhan¬ced surveillance» verreb¬be alleggerita quando lo Stato ha restituito il 75% dell’assistenza rice¬vuta.
E la crescita? Viene affidata in gran misura a¬gli «stability bonds», in merito ai quali la Ger¬mania (ed altri) esprimono però ancora mol¬te perplessità se non contrarietà.
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In pratica, si toglierebbe ai Parlamenti dei singoli Paesi il diritto-dovere di avere la prima e ultima parola sui conti pubblici nazionali
mercoledì 23 novembre 2011
LA STRATEGIA FINANZIARIA E LE ILLUSIONI NON SALVERANNO L'EURO Il Velino 23 novembre
LA STRATEGIA FINANZIARIA E LE ILLUSIONI NON SALVERANNO L'EURO
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Roma - Ormai è chiaro a tutti. Il 21 Novembre, il Premio Nobel Paul Krugman lo ha scritto su un centinaio di testate internazionali: l’eurozona è ammalata non perché si è presa l’influenza od a causa della malignità del fato e della crudeltà degli essere umani ma perché è stata allestita in modo maldestro e senza riguardo ad elementi di base della teoria economica sin dalle origini. Molte voci si erano levate in questo senso a cavallo tra la fine degli Ottanta e l’inizio degli Anni Novanta: poche sono state quelle europee ed immediatamente tacciate di essere “anti-europee”, ove non “nemiche della Comune Patria Europea”. E’ anche chiaro che sui mercati internazionali si svendono titoli italiani ed ora anche francesi (dopo che si è sparato su quelli irlandesi, greci, spagnoli o portoghesi) non per prendersela contro questo o quel Governo ma perché nodi decennali stanno venendo al pettine e le piazze danno vita tormentata a breve all’eurozona così come la conosciamo oggi.
In effetti, l’essenza stessa del Trattato di Maastricht, e dei principi di base di una sana unione monetaria, sono stati violati il 9 maggio 2010, quando è stato dato vita al cosidetto “Fondo Salva-Stati”. Ora si propone di riscrivere il Trattato: per il Governo Monti il vero e proprio banco di prova sarà se in tale riscrittura sarà protagonista o comprimario. A mio avviso, nelle varie proposte di riscrittura si sta partendo con il piede sbagliato. C’è che si affida ad operazioni a più stadi per creare e sviluppare il mercato degli eurobonds sia per risolvere il nodo del debito sia per riavviare un processo di crescita. C’è chi rilancia l’illusione di un’unione politica proprio nella fase in cui i vari Stati sono “l’un contro l’altro armati” nei salvataggi di banche e nella guerra degli “spreads”. Le proposte messe concretamente sul tappeto sono marchingegni di ingegneria finanziaria: varie forme di “sanatorie” (a spese dei contribuenti) per tirare fuori dai pasticci questa o quella banca poco avveduta nell’acquistare titoli di dubbio valore.
Le illusioni non sono mai servite a nulla. Le alchimie finanziarie sono essenziali nel breve periodo per evitare fallimenti sistemici in cui tutti saremo vittime. Nel riscrivere i trattati occorre porre l’accento sull’economia reale: tracciare un percorso che consenta di individuare gli Stati in condizione di fare parte di un gruppo forse ristretto ma in grado di rispondere ai requisiti di un’unione monetaria, senza mortificare la crescita di reddito e di occupazione e trovare un sistema adeguato (tipo SME II) per gli altri. (ilVelino/AGV)
(Giuseppe Pennisi) 23 Novembre 2011 18:38
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Roma - Ormai è chiaro a tutti. Il 21 Novembre, il Premio Nobel Paul Krugman lo ha scritto su un centinaio di testate internazionali: l’eurozona è ammalata non perché si è presa l’influenza od a causa della malignità del fato e della crudeltà degli essere umani ma perché è stata allestita in modo maldestro e senza riguardo ad elementi di base della teoria economica sin dalle origini. Molte voci si erano levate in questo senso a cavallo tra la fine degli Ottanta e l’inizio degli Anni Novanta: poche sono state quelle europee ed immediatamente tacciate di essere “anti-europee”, ove non “nemiche della Comune Patria Europea”. E’ anche chiaro che sui mercati internazionali si svendono titoli italiani ed ora anche francesi (dopo che si è sparato su quelli irlandesi, greci, spagnoli o portoghesi) non per prendersela contro questo o quel Governo ma perché nodi decennali stanno venendo al pettine e le piazze danno vita tormentata a breve all’eurozona così come la conosciamo oggi.
In effetti, l’essenza stessa del Trattato di Maastricht, e dei principi di base di una sana unione monetaria, sono stati violati il 9 maggio 2010, quando è stato dato vita al cosidetto “Fondo Salva-Stati”. Ora si propone di riscrivere il Trattato: per il Governo Monti il vero e proprio banco di prova sarà se in tale riscrittura sarà protagonista o comprimario. A mio avviso, nelle varie proposte di riscrittura si sta partendo con il piede sbagliato. C’è che si affida ad operazioni a più stadi per creare e sviluppare il mercato degli eurobonds sia per risolvere il nodo del debito sia per riavviare un processo di crescita. C’è chi rilancia l’illusione di un’unione politica proprio nella fase in cui i vari Stati sono “l’un contro l’altro armati” nei salvataggi di banche e nella guerra degli “spreads”. Le proposte messe concretamente sul tappeto sono marchingegni di ingegneria finanziaria: varie forme di “sanatorie” (a spese dei contribuenti) per tirare fuori dai pasticci questa o quella banca poco avveduta nell’acquistare titoli di dubbio valore.
Le illusioni non sono mai servite a nulla. Le alchimie finanziarie sono essenziali nel breve periodo per evitare fallimenti sistemici in cui tutti saremo vittime. Nel riscrivere i trattati occorre porre l’accento sull’economia reale: tracciare un percorso che consenta di individuare gli Stati in condizione di fare parte di un gruppo forse ristretto ma in grado di rispondere ai requisiti di un’unione monetaria, senza mortificare la crescita di reddito e di occupazione e trovare un sistema adeguato (tipo SME II) per gli altri. (ilVelino/AGV)
(Giuseppe Pennisi) 23 Novembre 2011 18:38
martedì 22 novembre 2011
LIRICA, PARTE STAGIONE A ROMA CON IL GIOCO DEL POTERE DEL “MACBETH” in Il Velino 22 novembre
LIRICA, PARTE STAGIONE A ROMA CON IL GIOCO DEL POTERE DEL “MACBETH”
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Roma - Il Teatro dell’Opera di Roma è una delle rare fondazioni liriche italiane che ha chiuso il bilancio 2010 in pareggio. Ciò è tanto più significativo perché il tessuto produttivo romano è una costellazione di piccole imprese; quindi, la fondazione non può contare – come la Scala - su numerosi soci privati e su una vasta rete di sponsorizzazioni, ma sull’apporto principalmente del Fus e di enti locali tutti in serie difficoltà di bilancio. Un altro handicap è la localizzazione del Teatro: a fine Ottocento era la più elegante della città e quella in cui più fervevano iniziative culturali, ma ora l’asse (specialmente per le attività musicali) si è spostato verso il complesso del Parco della Musica al Flaminio. Quindi, i risultati sono tanto più meritori e denotano una gestione amministrativa e artistica oculata. Domenica 27 novembre, alle 19, comincia, alla presenza del Capo dello Stato, la stagione 2011-2012. Un cartellone ricco che – escludendo il programma estivo alle Terme di Caracalla (ancora non annunciato) – comprende otto titoli operistici (due soli “Madama Butterfly” e “Il Barbiere di Siviglia” in nuovi allestimenti), cinque di balletto e un vasto e ben articolato programma di concerti. Si rafforzano, poi, grandi collaborazioni internazionali quali quelle con il Festival di Salisburgo, il Covent Garden di Londra ed i Teatri di Madrid e di Barcellona.
L’opera inaugurale è “Macbeth” di Giuseppe Verdi nell’allestimento presentato questa estate a Salisburgo, con scene, però, adattate al palcoscenico romano. È un titolo particolarmente adatto perché tanto la tragedia di Shakespeare quanto il melodramma verdiano sono imperniati sul “gioco del potere”, tema centrale ad una Capitale di cui la politica è sempre stata il cuore, specialmente dopo l’Unità d’Italia come ben illustrato nel romanzo “L’Imperio” di Federico De Roberto. Quale “Macbeth” vedranno e ascolteranno coloro che andranno al Teatro dell’Opera (le repliche durano sino all’11 dicembre). Pochi sanno che i “Macbeth” verdiani sono tre: quello del 1847 che ebbe la prima al Teatro La Pergola di Firenze; quello del 1865, fortemente rimaneggiato, per il Théâtre Lyrique di Parigi ed aggiornato di nuovo nel 1874. L’edizione del 1874 è raramente citata nelle stesse storie delle musica e viene messa in scena solo di tanto in tanto: se ben ricordo, l’ultima volta che è stata messa in scena è circa un lustro fa allo Sferisterio Festival di Macerata. Per la versione vista e ascoltata a Salisburgo, il direttore musicale Riccardo Muti ed il regista Peter Stein hanno scelto una combinazione della versione del 1847 e di quella del 1865. Quindi, per molti aspetti un “unicum” che forse entrerà in repertorio all’Opera di Vienna.
“Macbeth” narra della cruenta ascesa del protagonista, istigato dalla moglie, al potere assoluto e della sua successiva caduta. Quindi, sangue e guerra, nonché follia. A mezza strada tra un melodramma donizettiano (la prima versione) ed un dramma in musica prossimo a “Don Carlo”, “Aida” e “Otello” (la terza versione), senza un ruolo importante per un tenore spinto, con un soprano drammatico il cui registro deve sfiorare quello del contralto, l’opera ha avuto nell’Ottocento un successo relativamente modesto. Venne rilanciata da un’edizione strepitosa diretta da Vittorio Gui e successivamente dalla proposizione alla Scala il 7 dicembre 1952 con Victor De Sabata nel podio e Maria Callas protagonista.
“Macbeth” è opera difficile per i protagonisti. Nel suo epistolario, Verdi richiedeva “voci efficaci, anche se non belle”. Lady Macbeth è Tatiana Serjan, giovane ed affascinante, recentemente ascoltata a Roma in “La Battaglia di Legnano”. Gli altri protagonisti sono Dario Solari/Sebastian Catana (Macbeth), Riccardo Zan ellato (Banco), Anna Malavasi (Dama di Lady Macbeth), Antonio Poli (Macduff), Antonio Corian, Malcolm) Il Coro è diretto da Roberto Gabbiani, le scene sono di Ferdinand Wőgerbauer. A Salisburgo, lo spettacolo ha registrato un vero trionfo di pubblico e di stampa. Elogiata la perfetta direzione d’orchestra del Maestro Riccardo Muti, ricca di vigore, poesia, volo lirico, ampiezza di linee (come è stato scritto) e la regia di Peter Stein carica di forti suggestioni visive. Le Figaro ha titolato: “Macbeth retrouve ses couleurs”, “Sobre todo, por la fuerza y teatralidad musical de Riccardo Muti”, ha scritto El Pais. (ilVelino/AGV)
(Hans Sachs) 22 Novembre 2011 10:58
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Roma - Il Teatro dell’Opera di Roma è una delle rare fondazioni liriche italiane che ha chiuso il bilancio 2010 in pareggio. Ciò è tanto più significativo perché il tessuto produttivo romano è una costellazione di piccole imprese; quindi, la fondazione non può contare – come la Scala - su numerosi soci privati e su una vasta rete di sponsorizzazioni, ma sull’apporto principalmente del Fus e di enti locali tutti in serie difficoltà di bilancio. Un altro handicap è la localizzazione del Teatro: a fine Ottocento era la più elegante della città e quella in cui più fervevano iniziative culturali, ma ora l’asse (specialmente per le attività musicali) si è spostato verso il complesso del Parco della Musica al Flaminio. Quindi, i risultati sono tanto più meritori e denotano una gestione amministrativa e artistica oculata. Domenica 27 novembre, alle 19, comincia, alla presenza del Capo dello Stato, la stagione 2011-2012. Un cartellone ricco che – escludendo il programma estivo alle Terme di Caracalla (ancora non annunciato) – comprende otto titoli operistici (due soli “Madama Butterfly” e “Il Barbiere di Siviglia” in nuovi allestimenti), cinque di balletto e un vasto e ben articolato programma di concerti. Si rafforzano, poi, grandi collaborazioni internazionali quali quelle con il Festival di Salisburgo, il Covent Garden di Londra ed i Teatri di Madrid e di Barcellona.
L’opera inaugurale è “Macbeth” di Giuseppe Verdi nell’allestimento presentato questa estate a Salisburgo, con scene, però, adattate al palcoscenico romano. È un titolo particolarmente adatto perché tanto la tragedia di Shakespeare quanto il melodramma verdiano sono imperniati sul “gioco del potere”, tema centrale ad una Capitale di cui la politica è sempre stata il cuore, specialmente dopo l’Unità d’Italia come ben illustrato nel romanzo “L’Imperio” di Federico De Roberto. Quale “Macbeth” vedranno e ascolteranno coloro che andranno al Teatro dell’Opera (le repliche durano sino all’11 dicembre). Pochi sanno che i “Macbeth” verdiani sono tre: quello del 1847 che ebbe la prima al Teatro La Pergola di Firenze; quello del 1865, fortemente rimaneggiato, per il Théâtre Lyrique di Parigi ed aggiornato di nuovo nel 1874. L’edizione del 1874 è raramente citata nelle stesse storie delle musica e viene messa in scena solo di tanto in tanto: se ben ricordo, l’ultima volta che è stata messa in scena è circa un lustro fa allo Sferisterio Festival di Macerata. Per la versione vista e ascoltata a Salisburgo, il direttore musicale Riccardo Muti ed il regista Peter Stein hanno scelto una combinazione della versione del 1847 e di quella del 1865. Quindi, per molti aspetti un “unicum” che forse entrerà in repertorio all’Opera di Vienna.
“Macbeth” narra della cruenta ascesa del protagonista, istigato dalla moglie, al potere assoluto e della sua successiva caduta. Quindi, sangue e guerra, nonché follia. A mezza strada tra un melodramma donizettiano (la prima versione) ed un dramma in musica prossimo a “Don Carlo”, “Aida” e “Otello” (la terza versione), senza un ruolo importante per un tenore spinto, con un soprano drammatico il cui registro deve sfiorare quello del contralto, l’opera ha avuto nell’Ottocento un successo relativamente modesto. Venne rilanciata da un’edizione strepitosa diretta da Vittorio Gui e successivamente dalla proposizione alla Scala il 7 dicembre 1952 con Victor De Sabata nel podio e Maria Callas protagonista.
“Macbeth” è opera difficile per i protagonisti. Nel suo epistolario, Verdi richiedeva “voci efficaci, anche se non belle”. Lady Macbeth è Tatiana Serjan, giovane ed affascinante, recentemente ascoltata a Roma in “La Battaglia di Legnano”. Gli altri protagonisti sono Dario Solari/Sebastian Catana (Macbeth), Riccardo Zan ellato (Banco), Anna Malavasi (Dama di Lady Macbeth), Antonio Poli (Macduff), Antonio Corian, Malcolm) Il Coro è diretto da Roberto Gabbiani, le scene sono di Ferdinand Wőgerbauer. A Salisburgo, lo spettacolo ha registrato un vero trionfo di pubblico e di stampa. Elogiata la perfetta direzione d’orchestra del Maestro Riccardo Muti, ricca di vigore, poesia, volo lirico, ampiezza di linee (come è stato scritto) e la regia di Peter Stein carica di forti suggestioni visive. Le Figaro ha titolato: “Macbeth retrouve ses couleurs”, “Sobre todo, por la fuerza y teatralidad musical de Riccardo Muti”, ha scritto El Pais. (ilVelino/AGV)
(Hans Sachs) 22 Novembre 2011 10:58
EUROBONDS in Avvenire del 22 novembre
EUROBONDS
Giuseppe Pennisi
1. Cosa sono e come funzionano in genere gli eurobonds
Sino ad ora, gli unici “eurobonds” sul mercato sono quelli emessi da istituzioni finanziarie europee come la Bei e la Bers. Al pari di quelli emessi da altre istituzioni finanziarie internazionali (il Gruppo Banca mondiale, le Banche regionali di sviluppo) sono sostanzialmente “project bonds” , garantiti da tutti gli Stati membri delle pertinenti istituzioni ma destinati al finanziamento di progetti d’investimento- in certi casi pure partecipando a capitale di rischio. In effetti, più importante della garanzia degli Stati “soci” delle istituzioni in questione, è la qualità degli investimenti finanziati sulla base di progetti sottoposti a rigorosa analisi finanziaria ed economica tanto ex-ante quanto ex-post (sia a completamento della fase di cantiere sia dopo un certo numero di anni di operatività a regime). Per questa ragione, i rapporti di valutazione ex-ante ed ex-post hanno di norma vasta distribuzione e sono, comunque, accessibili.
2. Quanti tipi di eurobonds esistono?
Se la proposta della Commissione Europea non verrà cambiata all’undicesima ora (il”Libro Verde” è già stampato e circola tra gli addetti ai lavori), i nuovi “eurobonds” del futuro si affiancheranno ai “project bonds” in circolazione da decenni. Per evitare confusione, viene proposto un nuovo nome “stability bonds che enfatizza il loro ruolo macro-economico. Il “Libro Verde” presenta tre opzioni senza prendere posizione: a) “stability bonds” per sostituire tutto il debito dell’eurozona con garanzie in solido di tutti gli Stati membri; b) “stability bonds” per sostituire parte del debito (ci possono essere numerose variazioni sul tema) con garanzie in solido; c) “stability bonds” per sostituire quote del debito nazionale con garanzia pro-quota di ciascun Stato membro.
3. Chi li ha proposti per primo nella storia?
Occorre dare atto alla Commissione Europea di avere presentato proposte innovative. Sino ad ora, gran parte delle proposte presentate in passato (pure i mai decollati “Ortoli bonds” ed i “Delors bonds” ) riguardavano essenzialmente le spese per investimento , in particolare le grandi infrastrutture inter-europee. Le più recenti proposte Junker-Tremonti e Prodi-Quadro Curzio concernevano principalmente il nuovo indebitamento (tra cui il rifinanziamento dello stock di debito in essere man mano che vecchie emissioni giungevano a scadenza) ed anche i grandi progetti d’investimento. Queste nuove proposte sono state , poi, delineate ma non declinate nei loro aspetti tecnici. La documentazione, in italiano, forse più completa è nel “Dossier Eurobonds” del centro studi Astrid consultabile a www.astri-online.it , a cui si rimandano gli interessati.
4. Come potrebbero contribuire a risolvere la crisi del debito?
“Socializzando” tutto o parte lo stock di debito pubblico si abbasserebbe il costo di rinnovo dello stock di debito per gli Stati ritenuti maggiormente “a rischio”, a torto od a ragione, da parte dei mercati internazionali. Il sollievo per Grecia, Irlanda, Portogallo, Spagna e – da alcune settimane- Italia sarebbe molto significativo. A mio giudizio, anche ove si adottasse la versione più estrema di quelle proposte dalla Commissione Europea – “stability bonds” per tutto lo stock del debito pubblico - , Stati fortemente indebitati come l’Italia dovrebbero mettere in atto anche strumenti nazionali (come il fondo “taglia debito” delineato su Avvenire del 6 novembre). Non possiamo aspettarci che una “manna europea” cada dal Cielo per risolvere i problemi che ci siamo creati con le nostre mani.
5. Quali tipologie di “stability bonds” hanno più probabilità di decollare in questa fase?
La terza accezione tra quelle citate in precedenza. Occorre pensare che i primi “Federal Bonds” americani sono stati emessi per finanziare il debito di guerra della prima guerra mondiale, ossia circa un secolo e mezzo dopo la creazione degli Stati Uniti ed oltre 50 anni dopo la guerra di secessione. I tempi della politica e dell’economia si sono, senza dubbio, accorciati ma è difficile pensare che gli Stati che si considerano “virtuosi” siano pronti a garantire in solido i debiti di quelli che essi giudicano “discoli”.
Gli Eurobonds della Commissione Europea
Nelle tre grandi categorie di “stability bonds” vengono delineate numerose variazioni. L’alternativa più prudente prevede emissioni congiunte di nuove obbligazioni con garanzie parziali di ciascun emittente, che resterebbe comunque responsabile per lo stock in essere. Quindi la trasformazione da debito “nazionale” a debito “europeo” sarebbe molto graduale con almeno due tipologie coesistenti.
Gli Eurobonds Tremonti – Junker
La proposta lanciata sul Financial Times del 6 dicembre 2010 proponeva un’Agenzia Europea per il Debito che avrebbe emesso eurobonds con garanzia in solido dell’eurozona e riscattato i debiti degli Stati più in difficoltà. Venti anni prima una proposta analoga era stata formulata nel rapporto presentato da Bettino Craxi all’Assemblea Generale delle Nazioni Unite nella veste di Rappresentate Speciale del Segretario Generale ONU per il debito dei Paesi in via di sviluppo. Le due proposte restarono sulla carta.
. Gli Uni-Eurobond di Quadrio Curzio e Prodi
Delineata sul Sole-24 Ore del 17 luglio 2011 e presentata con maggiori dettaglio il 23 agosto, la proposta è la più simile agli “stabilty bonds” ora lanciati dalla Commissione Europea. Avrebbe avuto due volti (il finanziamento di grandi progetti e la riduzione dell’onere del debito). A ragione di questo duplice aspetto il dibattito si è complicato ma può a buon diritto essere considerata come precorritrice del “Libro Verde” che tutti potremo leggere mercoledì 23 novembre.
Giuseppe Pennisi
1. Cosa sono e come funzionano in genere gli eurobonds
Sino ad ora, gli unici “eurobonds” sul mercato sono quelli emessi da istituzioni finanziarie europee come la Bei e la Bers. Al pari di quelli emessi da altre istituzioni finanziarie internazionali (il Gruppo Banca mondiale, le Banche regionali di sviluppo) sono sostanzialmente “project bonds” , garantiti da tutti gli Stati membri delle pertinenti istituzioni ma destinati al finanziamento di progetti d’investimento- in certi casi pure partecipando a capitale di rischio. In effetti, più importante della garanzia degli Stati “soci” delle istituzioni in questione, è la qualità degli investimenti finanziati sulla base di progetti sottoposti a rigorosa analisi finanziaria ed economica tanto ex-ante quanto ex-post (sia a completamento della fase di cantiere sia dopo un certo numero di anni di operatività a regime). Per questa ragione, i rapporti di valutazione ex-ante ed ex-post hanno di norma vasta distribuzione e sono, comunque, accessibili.
2. Quanti tipi di eurobonds esistono?
Se la proposta della Commissione Europea non verrà cambiata all’undicesima ora (il”Libro Verde” è già stampato e circola tra gli addetti ai lavori), i nuovi “eurobonds” del futuro si affiancheranno ai “project bonds” in circolazione da decenni. Per evitare confusione, viene proposto un nuovo nome “stability bonds che enfatizza il loro ruolo macro-economico. Il “Libro Verde” presenta tre opzioni senza prendere posizione: a) “stability bonds” per sostituire tutto il debito dell’eurozona con garanzie in solido di tutti gli Stati membri; b) “stability bonds” per sostituire parte del debito (ci possono essere numerose variazioni sul tema) con garanzie in solido; c) “stability bonds” per sostituire quote del debito nazionale con garanzia pro-quota di ciascun Stato membro.
3. Chi li ha proposti per primo nella storia?
Occorre dare atto alla Commissione Europea di avere presentato proposte innovative. Sino ad ora, gran parte delle proposte presentate in passato (pure i mai decollati “Ortoli bonds” ed i “Delors bonds” ) riguardavano essenzialmente le spese per investimento , in particolare le grandi infrastrutture inter-europee. Le più recenti proposte Junker-Tremonti e Prodi-Quadro Curzio concernevano principalmente il nuovo indebitamento (tra cui il rifinanziamento dello stock di debito in essere man mano che vecchie emissioni giungevano a scadenza) ed anche i grandi progetti d’investimento. Queste nuove proposte sono state , poi, delineate ma non declinate nei loro aspetti tecnici. La documentazione, in italiano, forse più completa è nel “Dossier Eurobonds” del centro studi Astrid consultabile a www.astri-online.it , a cui si rimandano gli interessati.
4. Come potrebbero contribuire a risolvere la crisi del debito?
“Socializzando” tutto o parte lo stock di debito pubblico si abbasserebbe il costo di rinnovo dello stock di debito per gli Stati ritenuti maggiormente “a rischio”, a torto od a ragione, da parte dei mercati internazionali. Il sollievo per Grecia, Irlanda, Portogallo, Spagna e – da alcune settimane- Italia sarebbe molto significativo. A mio giudizio, anche ove si adottasse la versione più estrema di quelle proposte dalla Commissione Europea – “stability bonds” per tutto lo stock del debito pubblico - , Stati fortemente indebitati come l’Italia dovrebbero mettere in atto anche strumenti nazionali (come il fondo “taglia debito” delineato su Avvenire del 6 novembre). Non possiamo aspettarci che una “manna europea” cada dal Cielo per risolvere i problemi che ci siamo creati con le nostre mani.
5. Quali tipologie di “stability bonds” hanno più probabilità di decollare in questa fase?
La terza accezione tra quelle citate in precedenza. Occorre pensare che i primi “Federal Bonds” americani sono stati emessi per finanziare il debito di guerra della prima guerra mondiale, ossia circa un secolo e mezzo dopo la creazione degli Stati Uniti ed oltre 50 anni dopo la guerra di secessione. I tempi della politica e dell’economia si sono, senza dubbio, accorciati ma è difficile pensare che gli Stati che si considerano “virtuosi” siano pronti a garantire in solido i debiti di quelli che essi giudicano “discoli”.
Gli Eurobonds della Commissione Europea
Nelle tre grandi categorie di “stability bonds” vengono delineate numerose variazioni. L’alternativa più prudente prevede emissioni congiunte di nuove obbligazioni con garanzie parziali di ciascun emittente, che resterebbe comunque responsabile per lo stock in essere. Quindi la trasformazione da debito “nazionale” a debito “europeo” sarebbe molto graduale con almeno due tipologie coesistenti.
Gli Eurobonds Tremonti – Junker
La proposta lanciata sul Financial Times del 6 dicembre 2010 proponeva un’Agenzia Europea per il Debito che avrebbe emesso eurobonds con garanzia in solido dell’eurozona e riscattato i debiti degli Stati più in difficoltà. Venti anni prima una proposta analoga era stata formulata nel rapporto presentato da Bettino Craxi all’Assemblea Generale delle Nazioni Unite nella veste di Rappresentate Speciale del Segretario Generale ONU per il debito dei Paesi in via di sviluppo. Le due proposte restarono sulla carta.
. Gli Uni-Eurobond di Quadrio Curzio e Prodi
Delineata sul Sole-24 Ore del 17 luglio 2011 e presentata con maggiori dettaglio il 23 agosto, la proposta è la più simile agli “stabilty bonds” ora lanciati dalla Commissione Europea. Avrebbe avuto due volti (il finanziamento di grandi progetti e la riduzione dell’onere del debito). A ragione di questo duplice aspetto il dibattito si è complicato ma può a buon diritto essere considerata come precorritrice del “Libro Verde” che tutti potremo leggere mercoledì 23 novembre.
UNA “SEMINARIMIDE” INAUGURA LA STAGIONE DEL SAN CARLO in Il Riformista 22 novembre
UNA “SEMINARIMIDE” INAUGURA LA STAGIONE DEL SAN CARLO
Beckmesser
Nella lettura di Luca Ronconi , l’Assiria è una terra devastata e Babilonia una città distrutta (le scene sono di Tiziano Santi) dove si aggirano personaggi semi nudi (costumi di Emanuel Ungaro)- le donne a seno scoperto, gli uomini giovani in short-. In questo quadro si consuma la tragedia di “Semiramide”, ultima opera composta da Rossini per un teatro italiano (La Fenice, 1823) ed uno dei rari lavori del compositore rimasto in repertorio sino a fine ottocento per riemergere al Maggio Musicale negli anni cinquanta. Opera inaugurale della stagione del San Carlo (serata in grande spolvero il 18 novembre), la visione drammaturgica enfatizza il dramma erotico passionale (che il trentatreenne Rossini stava all’epoca vivendo con la quarantenne Isabella Colbran) più degli aspetti politico filosofici della tragedia di Voltaire, in cui la vicenda è un apologo per mostrare come potere assoluto porti a corruzione e perversione anche esse assolute.
Pur se scorciato, il “melodramma tragico” dura quattro ore (intervallo compreso). Ottima la prestazione di Gabriele Ferro e dell’orchestra del San Carlo che mettono in risalto i momenti solistici (dell’oboe, dei fagotti e degli ottoni). Di grande livello , Laura Aikin che nata come soprano di coloratura, ora affronta parti (“Lulu”,”Marie”) che richiedono toni gravi. Due sorprese: un giovane svettante tenore “rossiniano”, Barry Banks, ancora poco noto, in Italia ed il contralto spagnolo Silvia Tro Santal che scoperta al ROF negli Anni Novanta ha raggiunto piena maturità. Buono Simone Alberghini. Applausi entusiasti ma non lunghi poiché entrati alle 18,30 si è usciti a notte alta (sfioravano la mezzanotte ed il giorno dopo).
Beckmesser
Nella lettura di Luca Ronconi , l’Assiria è una terra devastata e Babilonia una città distrutta (le scene sono di Tiziano Santi) dove si aggirano personaggi semi nudi (costumi di Emanuel Ungaro)- le donne a seno scoperto, gli uomini giovani in short-. In questo quadro si consuma la tragedia di “Semiramide”, ultima opera composta da Rossini per un teatro italiano (La Fenice, 1823) ed uno dei rari lavori del compositore rimasto in repertorio sino a fine ottocento per riemergere al Maggio Musicale negli anni cinquanta. Opera inaugurale della stagione del San Carlo (serata in grande spolvero il 18 novembre), la visione drammaturgica enfatizza il dramma erotico passionale (che il trentatreenne Rossini stava all’epoca vivendo con la quarantenne Isabella Colbran) più degli aspetti politico filosofici della tragedia di Voltaire, in cui la vicenda è un apologo per mostrare come potere assoluto porti a corruzione e perversione anche esse assolute.
Pur se scorciato, il “melodramma tragico” dura quattro ore (intervallo compreso). Ottima la prestazione di Gabriele Ferro e dell’orchestra del San Carlo che mettono in risalto i momenti solistici (dell’oboe, dei fagotti e degli ottoni). Di grande livello , Laura Aikin che nata come soprano di coloratura, ora affronta parti (“Lulu”,”Marie”) che richiedono toni gravi. Due sorprese: un giovane svettante tenore “rossiniano”, Barry Banks, ancora poco noto, in Italia ed il contralto spagnolo Silvia Tro Santal che scoperta al ROF negli Anni Novanta ha raggiunto piena maturità. Buono Simone Alberghini. Applausi entusiasti ma non lunghi poiché entrati alle 18,30 si è usciti a notte alta (sfioravano la mezzanotte ed il giorno dopo).
sabato 19 novembre 2011
Il Rossini in bilico di Ronconi in Avvenire 20 novembre
Il Rossini in bilico di Ronconi
Sémiramis di Voltaire è un a¬pologo della corruzione asso¬luta (e della perversione as¬soluta) derivante dal potere asso¬luto. Per il librettista Gaetano Ros¬si ed il trentenne Gioacchino Ros¬sini diventa un dramma passiona¬le. Semiramide ha ucciso il proprio marito Nino, con l’ausilio del pro¬prio amante Assur, che ha fatto an¬che sparire l’erede al trono, Ninia. Dopo anni, la Regina si innamora del giovane generale Arsace, senza sapere che è il proprio figlio Quan¬do il giovane apprende la verità, mette in atto una cruenta vendet¬ta in cui per errore uccide la propria madre. Catarsi finale e ritorno nel¬la pace nel Regno. Ultima opera di Rossini per un tea¬tro italiano (La Fenice) composta su misura per Isabella Colbran (con il compositore cui aveva un rap¬porto passionale da dieci anni), Se¬miramide è una tragèdie lyrique
con echi autobiografici. Inaugurò l’Opera di Roma nel 1880. Venne riscoperta al Maggio Fiorentino ne¬gli Anni Cinquanta. È articolata su un libretto altamente improbabile dove c’è di tutto (uxuricidio, ince¬sto, agnizioni, complotti di corte e di tempio, avvertimenti dall’oltre¬tomba) ma anche rimorso, penti¬mento e riscatto finale; la sua ese¬cuzione integrale richiederebbe circa cinque ore di musica (la ver¬sione in scena al San Carlo sino al 27 novembre ne dura tre e mezzo). Il materiale drammatico, però, conta relativamente: Semiramide è l’esaltazione della musica pura – il 'bel canto' belliniano special¬mente Norma – nonché il ponte es¬senziale verso il melodramma do¬nizettiano e verdiano.
Opera inaugurale della stagione del San Carlo, arriva in versione sobria e secca: in un’imponente scena u¬nica di Tiziano Santi e con il coro in buca (come in una tragedia gre¬ca); per Luca Ronconi, l’Assiria è u¬na terra devastata e Babilonia una città dove c’è appena stata una guerra. In questo quadro desolato si consuma la tragedia. Ottima la prestazione di Gabriele Ferro e del¬l’orchestra del San Carlo che met¬tono in risalto i momenti solistici (dell’oboe, dei fagotti e degli otto¬ni). Di grande livello, Laura Aikin che nata come soprano di colora¬tura, ora affronta parti (Lulu, Ma¬rie) che richiedono toni gravi. Due sorprese: un giovane svettante te¬nore 'rossiniano', Barry Banks, an¬cora poco noto, in Italia ed il con¬tralto spagnolo Silvia Tro Santal che scoperta al ROF negli Anni Novan-ta ha raggiunto piena maturità. Buono Simone Alberghini. Ap¬plausi entusiasti ma non lunghi poiché entrati alle 18,30 si è usciti quasi a notte fonda.
Giuseppe Pennisi
Sémiramis di Voltaire è un a¬pologo della corruzione asso¬luta (e della perversione as¬soluta) derivante dal potere asso¬luto. Per il librettista Gaetano Ros¬si ed il trentenne Gioacchino Ros¬sini diventa un dramma passiona¬le. Semiramide ha ucciso il proprio marito Nino, con l’ausilio del pro¬prio amante Assur, che ha fatto an¬che sparire l’erede al trono, Ninia. Dopo anni, la Regina si innamora del giovane generale Arsace, senza sapere che è il proprio figlio Quan¬do il giovane apprende la verità, mette in atto una cruenta vendet¬ta in cui per errore uccide la propria madre. Catarsi finale e ritorno nel¬la pace nel Regno. Ultima opera di Rossini per un tea¬tro italiano (La Fenice) composta su misura per Isabella Colbran (con il compositore cui aveva un rap¬porto passionale da dieci anni), Se¬miramide è una tragèdie lyrique
con echi autobiografici. Inaugurò l’Opera di Roma nel 1880. Venne riscoperta al Maggio Fiorentino ne¬gli Anni Cinquanta. È articolata su un libretto altamente improbabile dove c’è di tutto (uxuricidio, ince¬sto, agnizioni, complotti di corte e di tempio, avvertimenti dall’oltre¬tomba) ma anche rimorso, penti¬mento e riscatto finale; la sua ese¬cuzione integrale richiederebbe circa cinque ore di musica (la ver¬sione in scena al San Carlo sino al 27 novembre ne dura tre e mezzo). Il materiale drammatico, però, conta relativamente: Semiramide è l’esaltazione della musica pura – il 'bel canto' belliniano special¬mente Norma – nonché il ponte es¬senziale verso il melodramma do¬nizettiano e verdiano.
Opera inaugurale della stagione del San Carlo, arriva in versione sobria e secca: in un’imponente scena u¬nica di Tiziano Santi e con il coro in buca (come in una tragedia gre¬ca); per Luca Ronconi, l’Assiria è u¬na terra devastata e Babilonia una città dove c’è appena stata una guerra. In questo quadro desolato si consuma la tragedia. Ottima la prestazione di Gabriele Ferro e del¬l’orchestra del San Carlo che met¬tono in risalto i momenti solistici (dell’oboe, dei fagotti e degli otto¬ni). Di grande livello, Laura Aikin che nata come soprano di colora¬tura, ora affronta parti (Lulu, Ma¬rie) che richiedono toni gravi. Due sorprese: un giovane svettante te¬nore 'rossiniano', Barry Banks, an¬cora poco noto, in Italia ed il con¬tralto spagnolo Silvia Tro Santal che scoperta al ROF negli Anni Novan-ta ha raggiunto piena maturità. Buono Simone Alberghini. Ap¬plausi entusiasti ma non lunghi poiché entrati alle 18,30 si è usciti quasi a notte fonda.
Giuseppe Pennisi
OK A MONTI MA SOLO SE RIDUCE TASSE SUI REDDIti Il Sussidiario 18 novembre
L'esperto: ok a Monti, ma solo se riduce le tasse sui redditi
GOVERNO MONTI, REINTRODUZIONE ICI - Pian piano gli italiani si stanno rassegnando all’idea: il governo tecnico guidato da Mario Monti, tra gli strumenti identificati per realizzare gli obiettivi di riduzione del debito e di equilibrio dei conti pubblici, ne adotterà alcuni particolarmente invisi ai cittadini. Aumenterà le tasse. A partire dalla reintroduzione dell’Ici. Un’imposta che, secondo Giuseppe Pennisi, consigliere del Cnel, e docente presso l’Università Europea di Roma e presso la Unilink contattato da ilSussidiario.net, «se compensata da alcuni sgravi compensativi effettuati altrove, non dovrebbe produrre particolari fastidi». Anzitutto, serve capire qualcosa di più sull’imposta comunale sugli immobili. «L’Ici è stata introdotta - spiega Pennisi -, nel ’92. Doveva essere, inizialmente, una misura eccezionale. Tuttavia, in tutti i paesi avanzati del mondo, c’è una sorta di tassazione sugli immobili. Si tratta, ovunque, di una tassa di scopo. In America, per esempio, serve per finanziarie il sistema di istruzione delle contee. Per questo, credo che una misura di questa natura potesse essere fin da subito varata come ordinaria». Invece, è stata abolita. «Ha iniziato il governo Prodi e ha portato a termine l’obiettivo il governo Berlusconi».
Di certo, gli italiani difficilmente reagiranno alle prospettiva con entusiasmo. «La sua reintroduzione creerà sicuramente un certo malessere. Quando, infatti, si introducono tasse sulle cose, sarebbe opportuno, al tempo stesso, ridurre quelle sui redditi, in particolare quelle che gravano sul lavoro». L’Ici, quindi, reintrodotta in maniera permanente «non provocherebbe particolari danni se contestualmente si abbassassero o se si ritoccassero le aliquote contributive per alcune fasce sociali». Di alcune in particolare: «Ad esempio, quelle dei giovani o di chi ha famiglia. Considerando, soprattutto, che tutte le agevolazioni possibili immaginabili, per loro, sono state tolte. Come, ad esempio, gli assegni per i nuclei familiari, eliminati dal governo Prodi». Forse, non tutto il male viene per nuocere: «C’è di buono che l’Ici potrebbe consentire agli enti locali di fornire servizi che, altrimenti, considerati i tagli vari e il patto di stabilità interno, non sarebbero in grado di fornire».
Un’altra tassa è in pole position per essere introdotta. «Sulla patrimoniale - dice Pennisi - ho serissime perplessità. Potrebbe essere, infatti, interpretata dai mercati come una dichiarazione di bancarotta». Con effetti nefasti, opposti alle intenzioni. «Basti pensare a quanto accaduto in Islanda: avevano un ingente problema di debito pubblico e hanno pensato di risolverlo con la patrimoniale. Non hanno fatto in tempo a introdurla che il Paese è fallito.
GOVERNO MONTI, REINTRODUZIONE ICI - Pian piano gli italiani si stanno rassegnando all’idea: il governo tecnico guidato da Mario Monti, tra gli strumenti identificati per realizzare gli obiettivi di riduzione del debito e di equilibrio dei conti pubblici, ne adotterà alcuni particolarmente invisi ai cittadini. Aumenterà le tasse. A partire dalla reintroduzione dell’Ici. Un’imposta che, secondo Giuseppe Pennisi, consigliere del Cnel, e docente presso l’Università Europea di Roma e presso la Unilink contattato da ilSussidiario.net, «se compensata da alcuni sgravi compensativi effettuati altrove, non dovrebbe produrre particolari fastidi». Anzitutto, serve capire qualcosa di più sull’imposta comunale sugli immobili. «L’Ici è stata introdotta - spiega Pennisi -, nel ’92. Doveva essere, inizialmente, una misura eccezionale. Tuttavia, in tutti i paesi avanzati del mondo, c’è una sorta di tassazione sugli immobili. Si tratta, ovunque, di una tassa di scopo. In America, per esempio, serve per finanziarie il sistema di istruzione delle contee. Per questo, credo che una misura di questa natura potesse essere fin da subito varata come ordinaria». Invece, è stata abolita. «Ha iniziato il governo Prodi e ha portato a termine l’obiettivo il governo Berlusconi».
Di certo, gli italiani difficilmente reagiranno alle prospettiva con entusiasmo. «La sua reintroduzione creerà sicuramente un certo malessere. Quando, infatti, si introducono tasse sulle cose, sarebbe opportuno, al tempo stesso, ridurre quelle sui redditi, in particolare quelle che gravano sul lavoro». L’Ici, quindi, reintrodotta in maniera permanente «non provocherebbe particolari danni se contestualmente si abbassassero o se si ritoccassero le aliquote contributive per alcune fasce sociali». Di alcune in particolare: «Ad esempio, quelle dei giovani o di chi ha famiglia. Considerando, soprattutto, che tutte le agevolazioni possibili immaginabili, per loro, sono state tolte. Come, ad esempio, gli assegni per i nuclei familiari, eliminati dal governo Prodi». Forse, non tutto il male viene per nuocere: «C’è di buono che l’Ici potrebbe consentire agli enti locali di fornire servizi che, altrimenti, considerati i tagli vari e il patto di stabilità interno, non sarebbero in grado di fornire».
Un’altra tassa è in pole position per essere introdotta. «Sulla patrimoniale - dice Pennisi - ho serissime perplessità. Potrebbe essere, infatti, interpretata dai mercati come una dichiarazione di bancarotta». Con effetti nefasti, opposti alle intenzioni. «Basti pensare a quanto accaduto in Islanda: avevano un ingente problema di debito pubblico e hanno pensato di risolverlo con la patrimoniale. Non hanno fatto in tempo a introdurla che il Paese è fallito.
giovedì 17 novembre 2011
TRAPPOLE DEGLI UOMINI E RISCHI DEL MERCATOin Il Riformista del 19 Novembre
I LIBRI DEI MINISTRI-MARIO MONTI
TRAPPOLE DEGLI UOMINI E RISCHI DEL MERCATO
Giuseppe Pennisi
Pochi sanno che Robert S. McNamara, noto stakanovista, quando era Segretario alla Difesa Usa, prima, e Presidente della Banca Mondiale, poi, tra una riunione l’altra (nessuna durava più di 15 minuti) leggeva, per 2-3 minuti, un libriccino di poesie di William Butler Yeats che era sempre nel cassetto della sua scrivania. Il Presidente dl Consiglio Mario Monti ha più volte detto che negli ultimi giorni (preso dalle consultazioni) non aveva il tempo per leggere i giornali. Ma non sfogliava proprio nulla? Le talpe di Palazzo Giustiniani quale spiffero lo hanno fatto uscire.
Un saggio che ha colpito il Presidente del Consiglio durante le consultazioni è un lavoro a quattro mani dell’Insead di Fontainbleau e dell’Univesità National di Singapore . Il tema è il nesso tra la fragilità dei mercati azionari e la qualità della governance di un Paese; è ancora inedito ma il Prof. Chunmei Lin è (g077584@nus.ed.sg) è lieto di inviarlo a chi glielo chiede. Il lavoro analizza l’andamento dei fondi comuni in un vasto campione di Paesi nel 2000-2009. Dove c’è cattiva governance i mercati reagiscono più positivamente alla buone notizie e più negative alle cattive di quanto sarebbe “normale”. Lo si vede specialmente dai dati relativi al 2008-2009 in cui dove la governance è ritenuta non buona c’è stato sia un aumento della volatilità che una reazione eccessive alle informazioni “pubbliche” , quali i comunicati stampa e le dichiarazioni in TV. Quindi, è bene che Ministri e Sottosegretari siano di poche parole. Lo conferma il Research Paper n.2010-14 appena messo online dalla Bar Ilan University nella lontana Israele: un lavoro micro-micro che studia l’avversione al rischio tramite le puntate alla roulette in casinò autorizzati (specialmente negli Usa)- ottimo relax tra un incontro e l’altro.
Non rilassano affatto invece due lavori di quei “ragazzacci” del Levy Institute del Bard College. Hanno anche straripato nei Paesi di lingua spagnola. Nel Working Paper No. 695 Jesus Muňos dell’Università di Monterrey, in Messico, fa a pezzi la teoria “ortodossa” dei mercati finanziari per mostrare come l’”eterodosso” Hyman Mynsky avesse già tre lustri fa delineato l’evoluzione avvenuta dalla seconda metà degli Anni Novanta. Più inquietanti le conclusioni di una squadra internazionale di economisti mynskiani presentate nel Working Paper No. 694. Vengono analizzati i piani di stabilità e di riforma degli Stati che fanno parte dell’eurozona: il miglioramento di Pil e conti pubblici è sovrastimato, di bilancia dei pagamenti non si parla affatto. I “ragazzi” del Bard College concludono che gli squilibri nell’area dell’euro sono destinati ad esacerbarsi nel 2012 e negli anni seguenti. Specialmente se i Paesi con avanzi attivi nei conti con l’estero non attuano politiche espansioniste. E chi li governa non pare su questa strada.
TRAPPOLE DEGLI UOMINI E RISCHI DEL MERCATO
Giuseppe Pennisi
Pochi sanno che Robert S. McNamara, noto stakanovista, quando era Segretario alla Difesa Usa, prima, e Presidente della Banca Mondiale, poi, tra una riunione l’altra (nessuna durava più di 15 minuti) leggeva, per 2-3 minuti, un libriccino di poesie di William Butler Yeats che era sempre nel cassetto della sua scrivania. Il Presidente dl Consiglio Mario Monti ha più volte detto che negli ultimi giorni (preso dalle consultazioni) non aveva il tempo per leggere i giornali. Ma non sfogliava proprio nulla? Le talpe di Palazzo Giustiniani quale spiffero lo hanno fatto uscire.
Un saggio che ha colpito il Presidente del Consiglio durante le consultazioni è un lavoro a quattro mani dell’Insead di Fontainbleau e dell’Univesità National di Singapore . Il tema è il nesso tra la fragilità dei mercati azionari e la qualità della governance di un Paese; è ancora inedito ma il Prof. Chunmei Lin è (g077584@nus.ed.sg) è lieto di inviarlo a chi glielo chiede. Il lavoro analizza l’andamento dei fondi comuni in un vasto campione di Paesi nel 2000-2009. Dove c’è cattiva governance i mercati reagiscono più positivamente alla buone notizie e più negative alle cattive di quanto sarebbe “normale”. Lo si vede specialmente dai dati relativi al 2008-2009 in cui dove la governance è ritenuta non buona c’è stato sia un aumento della volatilità che una reazione eccessive alle informazioni “pubbliche” , quali i comunicati stampa e le dichiarazioni in TV. Quindi, è bene che Ministri e Sottosegretari siano di poche parole. Lo conferma il Research Paper n.2010-14 appena messo online dalla Bar Ilan University nella lontana Israele: un lavoro micro-micro che studia l’avversione al rischio tramite le puntate alla roulette in casinò autorizzati (specialmente negli Usa)- ottimo relax tra un incontro e l’altro.
Non rilassano affatto invece due lavori di quei “ragazzacci” del Levy Institute del Bard College. Hanno anche straripato nei Paesi di lingua spagnola. Nel Working Paper No. 695 Jesus Muňos dell’Università di Monterrey, in Messico, fa a pezzi la teoria “ortodossa” dei mercati finanziari per mostrare come l’”eterodosso” Hyman Mynsky avesse già tre lustri fa delineato l’evoluzione avvenuta dalla seconda metà degli Anni Novanta. Più inquietanti le conclusioni di una squadra internazionale di economisti mynskiani presentate nel Working Paper No. 694. Vengono analizzati i piani di stabilità e di riforma degli Stati che fanno parte dell’eurozona: il miglioramento di Pil e conti pubblici è sovrastimato, di bilancia dei pagamenti non si parla affatto. I “ragazzi” del Bard College concludono che gli squilibri nell’area dell’euro sono destinati ad esacerbarsi nel 2012 e negli anni seguenti. Specialmente se i Paesi con avanzi attivi nei conti con l’estero non attuano politiche espansioniste. E chi li governa non pare su questa strada.
Una “Semiramide” trasgressiva inaugura il San Carlo in Quotidiano Arte 18 Novembre
Questa sera
Una “Semiramide” trasgressiva inaugura il San Carlo
Giuseppe Pennisi
Serata in grande spolvero al San Carlo questa sera per l’inaugurazione di una stagione lirica ricca di titoli (dieci opera e la riapertura del delizioso Teatro di Corte dentro Palazzo Reale).
Si inizia alle 19, alla presenza del Capo dello Stato, con una edizione trasgressiva di “Semiramide” di Gioacchino Rossini così voluta da Luca Ronconi (direzione drammaturgica) e Gabriele Ferro (direzione musicale). Molti nudi in scena – ormai una caratteristica della lirica. Ricordiamo che “Sémiramis”, tragedia in cinque atti di Voltaire, è un apologo della corruzione assoluta derivante dal potere assoluto. Nelle mani del librettista Gaetano Rossi e del trentenne Gioacchino Rossini, cattolico rigoroso nell’osservanza di nove comandamenti (dei dieci nella tavole di Mosè), diventa un drammone passionale.
Nell’antefatto, Semiramide ha ucciso il proprio marito Nino, con l’ausilio del proprio amante Assur, che ha fatto anche sparire l’erede al trono, Ninia. Passano anni (ed amanti), i sacerdoti impongono alla regina-dittatora di scegliersi un marito per la assicurare la successione. La scelta piomba sul giovane e bel generale Arsace (richiamato dal Caucaso). Pur se innamorato della fanciulla Arzena, Arsace non disdegna di apprendere dalla più matura regina a fornicare e a dedicarvici parte del primo atto. Nel secondo, però, apprende di essere Ninia: Semiramide e Assur sono, quindi, gli assassini di suo padre (la cui ombra lo tormenta). Decide di vendicarsi dell’uomo e di interrompere il rapporto incestuoso con la madre. Nel buio, però, pugnala a morte la seconda; al primo badano i sacerdoti; con Azema porta pace, e fertilità, al Regno. Rossini affrontò questo pasticcio a tre anni da quel “Maometto” napoletano che cambiò la sua vita professionale: da quattro opere l’anno a meno di una, nonché il ritiro dalle scene a soli 37. Sotto il profilo musicale, la vicenda diventò l’esaltazione del rapporto passionale-carnale (tema già centrale in “Armida” e in “Bianca e Faliero” ma mai più ripreso da Rossini, nonostante l’“opéra érotique”, “Le Comte Ory”).
L’opera venne composta su misura per Isabella Colbran (allora prossima alla quarantina ma con cui aveva un rapporto passionale da quando lui era 22enne e lei sui 30 anni, nonché diventata sua moglie dopo averne condiviso il letto con l’impresario Babaja, datore di lavoro di ambedue).
“Semiramide” è una “tragédie lyrique” che precorre il “bel canto” belliniano, nonché nesso essenziale per il melodramma donizzettiano e verdiano. Per questo restò in repertorio nell’Ottocento e inaugurò l’Opera di Roma nel 1880.
La versione andata in scena alla Fenice nel 1823 durava quasi cinque ore a ragione di lunghi recitativi parlati (a sipario chiuso) per facilitare i cambiascena. Le registrazioni in commercio vanno dai 180 ai 240 minuti. A Roma sei anni fa, Gelmetti ha leggermente limato l’edizione critica di Gossett e Zedda per portare lo spettacolo a 220 minuti di musica e 20 di intervallo. Al San Carlo, si starà in teatro tre ore e mezza con un unico intervallo.
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Una “Semiramide” trasgressiva inaugura il San Carlo
Giuseppe Pennisi
Serata in grande spolvero al San Carlo questa sera per l’inaugurazione di una stagione lirica ricca di titoli (dieci opera e la riapertura del delizioso Teatro di Corte dentro Palazzo Reale).
Si inizia alle 19, alla presenza del Capo dello Stato, con una edizione trasgressiva di “Semiramide” di Gioacchino Rossini così voluta da Luca Ronconi (direzione drammaturgica) e Gabriele Ferro (direzione musicale). Molti nudi in scena – ormai una caratteristica della lirica. Ricordiamo che “Sémiramis”, tragedia in cinque atti di Voltaire, è un apologo della corruzione assoluta derivante dal potere assoluto. Nelle mani del librettista Gaetano Rossi e del trentenne Gioacchino Rossini, cattolico rigoroso nell’osservanza di nove comandamenti (dei dieci nella tavole di Mosè), diventa un drammone passionale.
Nell’antefatto, Semiramide ha ucciso il proprio marito Nino, con l’ausilio del proprio amante Assur, che ha fatto anche sparire l’erede al trono, Ninia. Passano anni (ed amanti), i sacerdoti impongono alla regina-dittatora di scegliersi un marito per la assicurare la successione. La scelta piomba sul giovane e bel generale Arsace (richiamato dal Caucaso). Pur se innamorato della fanciulla Arzena, Arsace non disdegna di apprendere dalla più matura regina a fornicare e a dedicarvici parte del primo atto. Nel secondo, però, apprende di essere Ninia: Semiramide e Assur sono, quindi, gli assassini di suo padre (la cui ombra lo tormenta). Decide di vendicarsi dell’uomo e di interrompere il rapporto incestuoso con la madre. Nel buio, però, pugnala a morte la seconda; al primo badano i sacerdoti; con Azema porta pace, e fertilità, al Regno. Rossini affrontò questo pasticcio a tre anni da quel “Maometto” napoletano che cambiò la sua vita professionale: da quattro opere l’anno a meno di una, nonché il ritiro dalle scene a soli 37. Sotto il profilo musicale, la vicenda diventò l’esaltazione del rapporto passionale-carnale (tema già centrale in “Armida” e in “Bianca e Faliero” ma mai più ripreso da Rossini, nonostante l’“opéra érotique”, “Le Comte Ory”).
L’opera venne composta su misura per Isabella Colbran (allora prossima alla quarantina ma con cui aveva un rapporto passionale da quando lui era 22enne e lei sui 30 anni, nonché diventata sua moglie dopo averne condiviso il letto con l’impresario Babaja, datore di lavoro di ambedue).
“Semiramide” è una “tragédie lyrique” che precorre il “bel canto” belliniano, nonché nesso essenziale per il melodramma donizzettiano e verdiano. Per questo restò in repertorio nell’Ottocento e inaugurò l’Opera di Roma nel 1880.
La versione andata in scena alla Fenice nel 1823 durava quasi cinque ore a ragione di lunghi recitativi parlati (a sipario chiuso) per facilitare i cambiascena. Le registrazioni in commercio vanno dai 180 ai 240 minuti. A Roma sei anni fa, Gelmetti ha leggermente limato l’edizione critica di Gossett e Zedda per portare lo spettacolo a 220 minuti di musica e 20 di intervallo. Al San Carlo, si starà in teatro tre ore e mezza con un unico intervallo.
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Il valore del melodramma nella storia dei nostri 150 anni in Il Sussidiario dell 18 novembre
O MIA PATRIA/ Il valore del melodramma nella storia dei nostri 150 anni
Giuseppe Pennisi
venerdì 18 novembre 2011
Il Teatro alla Scala di Milano (Imagoeconomica)
Approfondisci
LA SCALA/ Questa donna del lago sarebbe piaciuta a Rossini?
FESTIVAL VERDI/ Falstaff, farsa e divertimento al Teatro Farnese
Qualche mese fa “L’Europa all’Opera” di Pier Vittorio Marvasi (Zecchini Editore, 2010), ci ha ricordato l’importanza del teatro lirico nella storia europea, anche e soprattutto come elemento unificante di varie culture e, quindi, di leva di quella che si potrebbe prefigurari come un’Unione Europea meno traballante di quella di oggi.
Marvasi è un giornalista; quindi, la sua analisi è storico-sociologica e politica più che musicologica. Adesso, tre musicologici di razza e di rango (Giovanni Gavazzeni, Armando Torno e Carlo Vitali) con la benedizione di Philip Gossett (Università di Chicago e Università “La Sapienza” di Roma) affrontano, con una strumentazione molto più ricca di quella di Marvasi, un tema che, in occasione dei 150 anni dalla proclamazione del Regno d’Italia, dovrebbe essere a noi tutti vicino: il contributo del melodramma (e del suo mondo) al Risorgimento.
“Strumentazione molto più ricca” non vuole dire che il lettore si trova alle prese con una ponderosa tesi di dottorato di ricerca data alla stampe da una semi-clandestina casa editrice universitaria. Il libro (“O Mia Patria - Storia musicale del Risorgimento tra inni, eroi e melodrammi” Baldini e Castoldi Dalai Editore, 2011) è accattivante sin dalla copertina: una litografia in bianco e nero nel Teatro alla Scala nell’Ottocento con uno sgargiante tricolore esposto sul balcone principale. Sia il titolo sia il sottotitolo indicano che, per quanto scritto da specialisti e basato so solide ricerche in polverosi archivi, il volume si rivolge a un pubblico vasto - quello di coloro un tempo chiamati “persone colte” - e, per questa ragione, è redatto in uno stile scorrevole, non privo di punte di ironia.
Il libro è composto di tre parti che solo un lettore superficiale può considerare distinte. Sono strettamente interdipendenti: le prime due (“Il melodramma ha fatto l’Unità d’Italia” di Giovanni Gavazzeni e “Opera, Affare di Stato” di Carlo Vitali) sono complementari – rivolte rispettivamente a “riscoprire” parte della storia della musica del Risorgimento e l’organizzazione della vita musicale nel periodo), mentre la terza è un “cammeo” – un’analisi della vita e dei lavori di Pietro Maroncelli (figura nota principalmente perché appare ne “Le Mie Prigioni” di Silvio Pellico) come musicista. Il “cammeo” non è una monografia aggiunta, ma non solo mostra dimensioni poco conosciute di una personalità molto più complessa di quanto appaia nelle tre paginette del libro di Pellico, ma è un caso di studio stimolante dell’interazione tra musica e politica nel Risorgimento.
Tra i numerosi aspetti stimolanti del libro, alcuni sono particolarmente significativi. Ad esempio, Gavazzeni dà il giusto peso ai ruoli rivestiti da Rossini, Bellini e Donizetti nel Risorgimento, togliendo a Verdi il monopolio che egli non avrebbe affatto desiderato, ma che una storiografia pressappochista e l’immaginario popolare gli hanno dato. La ricca documentazione di Vitali dell’organizzazione musicale in un’Italia ancora povera e rurale, costellata da città di piccole dimensioni poco e mal collegate tra loro è pregna di insegnamenti anche per oggi: nel Risorgimento l’opera italiana viveva principalmente su basi commerciali, di mercato, con limitate sovvenzioni pubbliche, mentre nel resto d’Europa era principalmente “di corte”. Ciò dava maggiore libertà e la possibilità di contribuire in misura non marginale ad un “movimento” che non solo o principalmente “di Palazzo”, ma anche incertezze, debiti e in breve “miserie”.
Il lavoro su Maroncelli non soltanto ci mostra i nessi tra musica e politica esaminando un episodio specifico (spesso lo studio del ramo di un albero è più eloquente di quello di un bosco), ma ci illumina sulla nascita dell’Italian Opera House di New York, dove il nostro non più carbonaro cattolico e non più prigioniero allo Spielberg era diventato direttore del coro.
Leggere il lavoro ci fa comprendere un po’ meglio chi siamo e da dove veniamo.
Giuseppe Pennisi
venerdì 18 novembre 2011
Il Teatro alla Scala di Milano (Imagoeconomica)
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LA SCALA/ Questa donna del lago sarebbe piaciuta a Rossini?
FESTIVAL VERDI/ Falstaff, farsa e divertimento al Teatro Farnese
Qualche mese fa “L’Europa all’Opera” di Pier Vittorio Marvasi (Zecchini Editore, 2010), ci ha ricordato l’importanza del teatro lirico nella storia europea, anche e soprattutto come elemento unificante di varie culture e, quindi, di leva di quella che si potrebbe prefigurari come un’Unione Europea meno traballante di quella di oggi.
Marvasi è un giornalista; quindi, la sua analisi è storico-sociologica e politica più che musicologica. Adesso, tre musicologici di razza e di rango (Giovanni Gavazzeni, Armando Torno e Carlo Vitali) con la benedizione di Philip Gossett (Università di Chicago e Università “La Sapienza” di Roma) affrontano, con una strumentazione molto più ricca di quella di Marvasi, un tema che, in occasione dei 150 anni dalla proclamazione del Regno d’Italia, dovrebbe essere a noi tutti vicino: il contributo del melodramma (e del suo mondo) al Risorgimento.
“Strumentazione molto più ricca” non vuole dire che il lettore si trova alle prese con una ponderosa tesi di dottorato di ricerca data alla stampe da una semi-clandestina casa editrice universitaria. Il libro (“O Mia Patria - Storia musicale del Risorgimento tra inni, eroi e melodrammi” Baldini e Castoldi Dalai Editore, 2011) è accattivante sin dalla copertina: una litografia in bianco e nero nel Teatro alla Scala nell’Ottocento con uno sgargiante tricolore esposto sul balcone principale. Sia il titolo sia il sottotitolo indicano che, per quanto scritto da specialisti e basato so solide ricerche in polverosi archivi, il volume si rivolge a un pubblico vasto - quello di coloro un tempo chiamati “persone colte” - e, per questa ragione, è redatto in uno stile scorrevole, non privo di punte di ironia.
Il libro è composto di tre parti che solo un lettore superficiale può considerare distinte. Sono strettamente interdipendenti: le prime due (“Il melodramma ha fatto l’Unità d’Italia” di Giovanni Gavazzeni e “Opera, Affare di Stato” di Carlo Vitali) sono complementari – rivolte rispettivamente a “riscoprire” parte della storia della musica del Risorgimento e l’organizzazione della vita musicale nel periodo), mentre la terza è un “cammeo” – un’analisi della vita e dei lavori di Pietro Maroncelli (figura nota principalmente perché appare ne “Le Mie Prigioni” di Silvio Pellico) come musicista. Il “cammeo” non è una monografia aggiunta, ma non solo mostra dimensioni poco conosciute di una personalità molto più complessa di quanto appaia nelle tre paginette del libro di Pellico, ma è un caso di studio stimolante dell’interazione tra musica e politica nel Risorgimento.
Tra i numerosi aspetti stimolanti del libro, alcuni sono particolarmente significativi. Ad esempio, Gavazzeni dà il giusto peso ai ruoli rivestiti da Rossini, Bellini e Donizetti nel Risorgimento, togliendo a Verdi il monopolio che egli non avrebbe affatto desiderato, ma che una storiografia pressappochista e l’immaginario popolare gli hanno dato. La ricca documentazione di Vitali dell’organizzazione musicale in un’Italia ancora povera e rurale, costellata da città di piccole dimensioni poco e mal collegate tra loro è pregna di insegnamenti anche per oggi: nel Risorgimento l’opera italiana viveva principalmente su basi commerciali, di mercato, con limitate sovvenzioni pubbliche, mentre nel resto d’Europa era principalmente “di corte”. Ciò dava maggiore libertà e la possibilità di contribuire in misura non marginale ad un “movimento” che non solo o principalmente “di Palazzo”, ma anche incertezze, debiti e in breve “miserie”.
Il lavoro su Maroncelli non soltanto ci mostra i nessi tra musica e politica esaminando un episodio specifico (spesso lo studio del ramo di un albero è più eloquente di quello di un bosco), ma ci illumina sulla nascita dell’Italian Opera House di New York, dove il nostro non più carbonaro cattolico e non più prigioniero allo Spielberg era diventato direttore del coro.
Leggere il lavoro ci fa comprendere un po’ meglio chi siamo e da dove veniamo.
Il Poker del Professore convincerà i mercati? in Il Sussidiario del 18 Novembre
FIDUCIA MONTI/ Il Poker del Professore convincerà i mercati?
Giuseppe Pennisi
giovedì 17 novembre 2011
Mario Monti nel suo discorso al Senato (Foto Ansa)
Approfondisci
FIDUCIA MONTI/ Il testo integrale del discorso del premier al Senato (video)
GOVERNO MONTI/ Il Parlamento dei professori è immagine del Paese reale?, di M. Mondo
vai allo speciale Governo Monti: la lista dei ministri
Per decifrare il discorso con cui Mario Monti ha illustrato in modo sintetico il programma del “Governo di impegno nazionale” che si accinge a guidare occorre conoscere la “teoria dei giochi” a più livelli in condizioni di asimmetrie informative. Ossia tutti i giocatori - il Governo “tecnico”, i partiti in Parlamento - giocano su più tavoli in partite dove le poste sono differenti: su un tavolo, ad esempio, giocano la propria “reputazione” con il resto dell’eurozona (ove non del mondo), su altro la propria “popolarità” (con il loro bacino di potenziali votanti). Nessuno conosce o riesce a prevedere le mosse dell’avversario; quindi, tutti prendono rischi calcolati (per evitare che i banchi saltino). Tutti sanno che ci sono almeno due “convitati di pietra”: il primo è i Mercati (con la maiuscola in quanto supergiocatore), il secondo “le elezioni”. I Mercati sono un po’ come la gggente!!! di Tina Pica; tutti sanno che esistono e che fanno paura, ma nessuno sa ben individuarli e pochissimi si rendono conto che sono composti da venticinquenni in carne e ossa che comprano e vendono titoli cercando di fare guadagnare le finanziarie per cui lavorano (dato che da questi guadagni dipendono i loro compensi). Le “elezioni” sono ben note, principalmente, ai giocatori che stanno in Parlamento: a molti danno timore perché equivalgono alla perdita di una posizione agognata e le campagne elettorali (anche in un sistema a liste bloccate) sono costose.
Molti giocatori (soprattutto coloro che siedono nei banchi del Governo) sono alle prese con quello che in una nota commedia di George Bernard Shaw viene chiamato “Il Dilemma del Dottore”, titolo del “play”. Nel lavoro, il protagonista, un medico, è posto di fronte a una difficile scelta: se salvare la vita al marito della propria amante o far sì, con mera inazione, che quest’ultima diventi vedova per convogliare con lei a nozze. Il “dilemma” dei nostri consiste in cosa dire e cosa fare intendere con la preoccupazione che una parola sbagliata possa indurre gli altri a un gioco pesante su uno dei vari tavoli.
In particolare, con attori così differenti e diversificati si può sperare unicamente in un “equilibrio dinamico” alla John Nash (chi ricorda il film “A Beautiful Mind” di una dozzina di anni fa?) tra “reputazione” e “popolarità” su tutti i tavoli simultaneamente. Un equilibrio necessariamente instabile. Per questo motivo, il programma di “equità” nei “sacrifici”, non menziona lo spettro dell’imposta patrimoniale, accenna appena alla rinascita dell’Ici (sotto altro nome) ed è vago sulle pensioni e sul mercato del lavoro. Anche i partiti (e, per quelli che ne hanno, le loro correnti) stanno in un equilibrio alla Nash, ma hanno, rispetto al banco del Governo, il vantaggio di sapere cos’è “popolare” con il loro elettorato - il quale non esita a dirglielo o tramite i social networks oppure scendendo in piazza.
Per mantenere questo equilibrio le dichiarazioni di voto non possono non essere (per le forze politiche che sostengono, più o meno con riserva, lo sforzo del Sen. Prof. Monti e dei suoi colleghi) parimenti vaghe: da un lato, devono sembrare ottimiste (se non altro per evitare, come si dice a Oxford, di “restare con il cerino” in mano); da un altro, devono far intendere quali sono i paletti che pongono (se non altro per non essere bastonati dagli elettori, specialmente da quelli “duri” e “puri”).
Il pirandelliano “Gioco delle Parti”, però, questa volta non è in tre atti con due intervalli. Ci sono i Mercati a far sì che sia breve. Un po’ come gli gnomi di Zurigo di nixoniana memoria. I Mercati votano non ogni giorno, ma ogni minuto, anzi ogni secondo con il mero legittimo obiettivo di guadagnare invece che perdere. Sino a quando durano gli “equilibri dinamici” alla Nash non possono non impensierirsi: vogliono sapere, in modo nudo e crudo, quali sono le misure specifiche che il Governo proporrà e quali le reazioni delle forze politiche. Sono sempre pronti ad allearsi con “le elezioni” in un “gioco ad ultimatum”, come quello tra Don Giovanni e il Commendatori in cui chi perde va all’Inferno.
Quindi, si mostrino al più presto le carte: inutile dare l’illusione che si ha scala reale se anche prendendo dal mazzo si può sperare al massimo in un tris di picche - sì proprio quello tanti che danni causò a un tale Hermann in un romanzo di Puskin.
Giuseppe Pennisi
giovedì 17 novembre 2011
Mario Monti nel suo discorso al Senato (Foto Ansa)
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FIDUCIA MONTI/ Il testo integrale del discorso del premier al Senato (video)
GOVERNO MONTI/ Il Parlamento dei professori è immagine del Paese reale?, di M. Mondo
vai allo speciale Governo Monti: la lista dei ministri
Per decifrare il discorso con cui Mario Monti ha illustrato in modo sintetico il programma del “Governo di impegno nazionale” che si accinge a guidare occorre conoscere la “teoria dei giochi” a più livelli in condizioni di asimmetrie informative. Ossia tutti i giocatori - il Governo “tecnico”, i partiti in Parlamento - giocano su più tavoli in partite dove le poste sono differenti: su un tavolo, ad esempio, giocano la propria “reputazione” con il resto dell’eurozona (ove non del mondo), su altro la propria “popolarità” (con il loro bacino di potenziali votanti). Nessuno conosce o riesce a prevedere le mosse dell’avversario; quindi, tutti prendono rischi calcolati (per evitare che i banchi saltino). Tutti sanno che ci sono almeno due “convitati di pietra”: il primo è i Mercati (con la maiuscola in quanto supergiocatore), il secondo “le elezioni”. I Mercati sono un po’ come la gggente!!! di Tina Pica; tutti sanno che esistono e che fanno paura, ma nessuno sa ben individuarli e pochissimi si rendono conto che sono composti da venticinquenni in carne e ossa che comprano e vendono titoli cercando di fare guadagnare le finanziarie per cui lavorano (dato che da questi guadagni dipendono i loro compensi). Le “elezioni” sono ben note, principalmente, ai giocatori che stanno in Parlamento: a molti danno timore perché equivalgono alla perdita di una posizione agognata e le campagne elettorali (anche in un sistema a liste bloccate) sono costose.
Molti giocatori (soprattutto coloro che siedono nei banchi del Governo) sono alle prese con quello che in una nota commedia di George Bernard Shaw viene chiamato “Il Dilemma del Dottore”, titolo del “play”. Nel lavoro, il protagonista, un medico, è posto di fronte a una difficile scelta: se salvare la vita al marito della propria amante o far sì, con mera inazione, che quest’ultima diventi vedova per convogliare con lei a nozze. Il “dilemma” dei nostri consiste in cosa dire e cosa fare intendere con la preoccupazione che una parola sbagliata possa indurre gli altri a un gioco pesante su uno dei vari tavoli.
In particolare, con attori così differenti e diversificati si può sperare unicamente in un “equilibrio dinamico” alla John Nash (chi ricorda il film “A Beautiful Mind” di una dozzina di anni fa?) tra “reputazione” e “popolarità” su tutti i tavoli simultaneamente. Un equilibrio necessariamente instabile. Per questo motivo, il programma di “equità” nei “sacrifici”, non menziona lo spettro dell’imposta patrimoniale, accenna appena alla rinascita dell’Ici (sotto altro nome) ed è vago sulle pensioni e sul mercato del lavoro. Anche i partiti (e, per quelli che ne hanno, le loro correnti) stanno in un equilibrio alla Nash, ma hanno, rispetto al banco del Governo, il vantaggio di sapere cos’è “popolare” con il loro elettorato - il quale non esita a dirglielo o tramite i social networks oppure scendendo in piazza.
Per mantenere questo equilibrio le dichiarazioni di voto non possono non essere (per le forze politiche che sostengono, più o meno con riserva, lo sforzo del Sen. Prof. Monti e dei suoi colleghi) parimenti vaghe: da un lato, devono sembrare ottimiste (se non altro per evitare, come si dice a Oxford, di “restare con il cerino” in mano); da un altro, devono far intendere quali sono i paletti che pongono (se non altro per non essere bastonati dagli elettori, specialmente da quelli “duri” e “puri”).
Il pirandelliano “Gioco delle Parti”, però, questa volta non è in tre atti con due intervalli. Ci sono i Mercati a far sì che sia breve. Un po’ come gli gnomi di Zurigo di nixoniana memoria. I Mercati votano non ogni giorno, ma ogni minuto, anzi ogni secondo con il mero legittimo obiettivo di guadagnare invece che perdere. Sino a quando durano gli “equilibri dinamici” alla Nash non possono non impensierirsi: vogliono sapere, in modo nudo e crudo, quali sono le misure specifiche che il Governo proporrà e quali le reazioni delle forze politiche. Sono sempre pronti ad allearsi con “le elezioni” in un “gioco ad ultimatum”, come quello tra Don Giovanni e il Commendatori in cui chi perde va all’Inferno.
Quindi, si mostrino al più presto le carte: inutile dare l’illusione che si ha scala reale se anche prendendo dal mazzo si può sperare al massimo in un tris di picche - sì proprio quello tanti che danni causò a un tale Hermann in un romanzo di Puskin.
"SEMIRAMIDE" NELL'EVOLUZIONE DEL MELODRAMMA ITALIANO in Il Velino 16 novembre
"SEMIRAMIDE" NELL'EVOLUZIONE DEL MELODRAMMA ITALIANO
Roma - L'ultima opera italiana di Rossini inaugura la stagione del San Carlo
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Roma - “Semiramide”, con cui viene inaugurata il 18 novembre la stagione del Teatro San Carlo di Napoli, è l'ultima opera di Gioacchino Rossini composta per un teatro italiano: ed è anche una delle rare opere "serie" del pesarese rimaste in repertorio nella seconda metà dell'Ottocento, nonché una delle prime a ritornare sui palcoscenici nella seconda metà del Novecento (nel 1940 al Maggio Musicale Fiorentino) e, da allora, ad essere una delle più rappresentate in Italia ed all'estero. E' pure il lavoro con il quale, alla presenza dei Reali d'Italia, venne inaugurato, il 27 novembre 1880, il Teatro Costanzi, attuale sede principale del Teatro dell'Opera di Roma. Cosa rappresenta nell'evoluzione del teatro lirico rossiniano ed italiana? La risposta sta probabilmente in quanto era avvenuto poco più di due anni prima della sua messa in scena, il 13 febbraio 1823 a La Fenice di Venezia. Il 3 dicembre 1820, al San Carlo di Napoli, "Maometto Secondo" (che il "chroniqueur" considera il capolavoro assoluto del pesarese) tonfò miseramente. Il pubblico venne letteralmente sbigottito da quella che oggi - l'opera è stata ripresa solamente nel 1983 - appare come un lavoro di inaudita modernità. "Maometto" aveva sconvolto probabilmente anche l'autore: la musica anticipava di quasi cinquanta anni il superamento degli schemi formali tradizionali e si articolava in vaste strutture collegate da un complesso procedimento di elaborazione tematica (tale quasi da precorrere Wagner, saltando di un sol colpo, il melodramma donizzettiano e verdiano ed il grand-opéra francese). Si incentrava sulla lunghissima scena chiamata "terzettone" di proprio pugno da Rossini in persona. Non solo ma il mondo musicale dei tre protagonisti non era ispirato unicamente al razionalismo laico alla Voltaire da cui era tratto il libretto: si respira trascendenza sia nelle preghiere degli assediati sia soprattutto nel sacrificio grazie al quale la protagonista salva la patria. Innovazioni importanti in un periodo in cui - si pensi al "Mosé in Egitto" - cori e preghiere avevano principalmente una funzione decorativa.
Anche se non ce ne è traccia documentaria è verosimile che il 28enne compositore si rese conto del salto in avanti che aveva fatto fare al teatro in musica e, date le reazioni sfavorevoli del pubblico, cercò nuove strade, meno avventurose. Il "Maometto Secondo" napoletano segnò, comunque, una svolta artistica profonda per Rossini: mentre prima di allora aveva sfornato quattro-cinque opere l'anno, dal 1820 ne compose solo una l'anno; il contratto con l'Accadémie Royale de Musique parigino ne contemplava appena una ogni due anni e, per di più, il nostro lo onorò riciclando, in parte, musica non nuova ma probabilmente non conosciuta in Francia. Come è noto, nel 1829, a soli 37 anni, si mise in pensione dal teatro in musica; per i quattro decenni successivi compose unicamente (poca) musica sacra e i "petits riens" per pianoforte.
La "rivoluzione musicale" compiuta con il "Maometto" del 1820 era, quindi, così profonda che Rossini ebbe paura di proseguirla. Adattò il "Maometto" napoletano alla scene veneziane dove venne rappresentato il Santo Stefano del 1822 (senza avere successo anche a ragione delle poche prove e delle cattive condizioni di salute della protagonista, Isabella Colbran). Nell'adattamento non solo osservò le prassi veneziane ma guardò a ritroso, addirittura alla scrittura del teatro barocco. Quindi, oltre alla consueta sinfonia ed al consueto lieto fine (con grande rondò per la prima donna), ma anche una vocalità più scura per i ruoli femminili, l'utilizzazione di un sopranista - castrato, un tenore da coloratura ed un basso d'agilità.
Successivamente andò verso altre strade: la tragédie lyrique ("Semiramide", "Le Siège de Corinthe"), il grand-opéra ("Moise et Pharaon" e soprattutto "Guillaume Tell") o l'opéra erotique ("Le Comte Ory"). In questo contesto, "Semiramide" appare una grandiosa, anzi smisurata, "tragédie lyrique" articolata su un libretto altamente improbabile dove c'è di tutto (uxuricidio, incesto, agnizioni, complotti di corte e di tempio, avvertimenti dall'oltretomba); la sua esecuzione integrale richiederebbe circa cinque ore di musica (la versione in scena al Teatro dell'Opera ne dura tre e mezzo in quanto incorpora gran parte dei "tagli di tradizione") . Il materiale drammatico, però, conta relativamente: "Semiramide" è l'esaltazione della musica pura - precorre il "bel canto" belliniano - specialmente "Norma"- nonché il ponte essenziale verso il melodramma donizzettiano e verdiano. Questo è indubbiamente uno dei motivi del suo successo nei lunghi anni in cui del Rossini "serio" si rappresentava solo (spesso pesantemente scorciato) "Guillaume Tell". Inoltre, "Semiramide" era stata composta su misura per Isabella Colbran, di sette anni più anziana di Rossini ma diventata sua moglie dopo essere stata, a lungo, amante, in parallelo, sia dell'allora giovanissimo pesarese sia del loro impresario napoletano, Barbaja. Era il momento del massimo innamoramento tra i due: l'opera è stata definita "l'apogeo dello stile Colbran" - perfetta per primedonne del melodramma romantico con registri e tessitura analoghi, per intenderci, a quelli della Callas - in grado, quindi, di arrivare sia a superacuti sia a tonalità scure.
Diventò opera preferita di Maria Malibran, Gulia Grisi, Giuditta Pasta, Adelina Patti. Altra caratteristica: un ruolo "en travesti" (quello di Arsace, amante di Semiramide, senza sapere di esserne il figlio) che consentiva ai mezzo-soprani e soprattutto ai contralti di dare sfoggio alle loro qualità molto di più di quanto non facesse il melodaramma donizzettiano e verdiano (che spesso li relegava in ruoli secondari). Quindi, opera preferita di quella Teresa Stolz che tanto contò nella vita di Verdi. Alla metà dell'Ottocento, "Semiramide" diventò il cavallo di battaglia delle due sorelle Marchisio (soprano e contralto) che ne fecero l'opera più amata da Napoleone Terzo. Una grande incisione, in studio, del 1966 pone Joan Sutherland accanto a Marilyn Horne. Se non è "bel canto"!. Lontana dalla scena napoletana da oltre venticinque anni, il nuovo allestimento è firmato da Luca Ronconi per una mise en scène essenziale che pone l'accento sui temi del potere e dell'incesto e che non rinuncia alla spettacolarità, con i costumi di Emanuel Ungaro rimandano a corpi nudi, e una imponente scena -unica e fissa- di Tiziano Santi impreziosita dal disegno luci di A.J. Weissbard. Sul podio del San Carlo torna Gabriele Ferro per dirigere Orchestra e Coro stabili, quest'ultimo diretto da Salvatore Caputo e posizionato in buca secondo i dettami di Ronconi. Il ruolo di "Semiramide" è affidato al soprano Laura Aikin. Il cast si completa con Silvia Tro Santafè, Simone Alberghini, Annika Kaschenz, Gregory Kunde e Federico Sacchi. (ilVelino/AGV)
(Hans Sachs) 16 Novembre 2011 18:44
Roma - L'ultima opera italiana di Rossini inaugura la stagione del San Carlo
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Roma - “Semiramide”, con cui viene inaugurata il 18 novembre la stagione del Teatro San Carlo di Napoli, è l'ultima opera di Gioacchino Rossini composta per un teatro italiano: ed è anche una delle rare opere "serie" del pesarese rimaste in repertorio nella seconda metà dell'Ottocento, nonché una delle prime a ritornare sui palcoscenici nella seconda metà del Novecento (nel 1940 al Maggio Musicale Fiorentino) e, da allora, ad essere una delle più rappresentate in Italia ed all'estero. E' pure il lavoro con il quale, alla presenza dei Reali d'Italia, venne inaugurato, il 27 novembre 1880, il Teatro Costanzi, attuale sede principale del Teatro dell'Opera di Roma. Cosa rappresenta nell'evoluzione del teatro lirico rossiniano ed italiana? La risposta sta probabilmente in quanto era avvenuto poco più di due anni prima della sua messa in scena, il 13 febbraio 1823 a La Fenice di Venezia. Il 3 dicembre 1820, al San Carlo di Napoli, "Maometto Secondo" (che il "chroniqueur" considera il capolavoro assoluto del pesarese) tonfò miseramente. Il pubblico venne letteralmente sbigottito da quella che oggi - l'opera è stata ripresa solamente nel 1983 - appare come un lavoro di inaudita modernità. "Maometto" aveva sconvolto probabilmente anche l'autore: la musica anticipava di quasi cinquanta anni il superamento degli schemi formali tradizionali e si articolava in vaste strutture collegate da un complesso procedimento di elaborazione tematica (tale quasi da precorrere Wagner, saltando di un sol colpo, il melodramma donizzettiano e verdiano ed il grand-opéra francese). Si incentrava sulla lunghissima scena chiamata "terzettone" di proprio pugno da Rossini in persona. Non solo ma il mondo musicale dei tre protagonisti non era ispirato unicamente al razionalismo laico alla Voltaire da cui era tratto il libretto: si respira trascendenza sia nelle preghiere degli assediati sia soprattutto nel sacrificio grazie al quale la protagonista salva la patria. Innovazioni importanti in un periodo in cui - si pensi al "Mosé in Egitto" - cori e preghiere avevano principalmente una funzione decorativa.
Anche se non ce ne è traccia documentaria è verosimile che il 28enne compositore si rese conto del salto in avanti che aveva fatto fare al teatro in musica e, date le reazioni sfavorevoli del pubblico, cercò nuove strade, meno avventurose. Il "Maometto Secondo" napoletano segnò, comunque, una svolta artistica profonda per Rossini: mentre prima di allora aveva sfornato quattro-cinque opere l'anno, dal 1820 ne compose solo una l'anno; il contratto con l'Accadémie Royale de Musique parigino ne contemplava appena una ogni due anni e, per di più, il nostro lo onorò riciclando, in parte, musica non nuova ma probabilmente non conosciuta in Francia. Come è noto, nel 1829, a soli 37 anni, si mise in pensione dal teatro in musica; per i quattro decenni successivi compose unicamente (poca) musica sacra e i "petits riens" per pianoforte.
La "rivoluzione musicale" compiuta con il "Maometto" del 1820 era, quindi, così profonda che Rossini ebbe paura di proseguirla. Adattò il "Maometto" napoletano alla scene veneziane dove venne rappresentato il Santo Stefano del 1822 (senza avere successo anche a ragione delle poche prove e delle cattive condizioni di salute della protagonista, Isabella Colbran). Nell'adattamento non solo osservò le prassi veneziane ma guardò a ritroso, addirittura alla scrittura del teatro barocco. Quindi, oltre alla consueta sinfonia ed al consueto lieto fine (con grande rondò per la prima donna), ma anche una vocalità più scura per i ruoli femminili, l'utilizzazione di un sopranista - castrato, un tenore da coloratura ed un basso d'agilità.
Successivamente andò verso altre strade: la tragédie lyrique ("Semiramide", "Le Siège de Corinthe"), il grand-opéra ("Moise et Pharaon" e soprattutto "Guillaume Tell") o l'opéra erotique ("Le Comte Ory"). In questo contesto, "Semiramide" appare una grandiosa, anzi smisurata, "tragédie lyrique" articolata su un libretto altamente improbabile dove c'è di tutto (uxuricidio, incesto, agnizioni, complotti di corte e di tempio, avvertimenti dall'oltretomba); la sua esecuzione integrale richiederebbe circa cinque ore di musica (la versione in scena al Teatro dell'Opera ne dura tre e mezzo in quanto incorpora gran parte dei "tagli di tradizione") . Il materiale drammatico, però, conta relativamente: "Semiramide" è l'esaltazione della musica pura - precorre il "bel canto" belliniano - specialmente "Norma"- nonché il ponte essenziale verso il melodramma donizzettiano e verdiano. Questo è indubbiamente uno dei motivi del suo successo nei lunghi anni in cui del Rossini "serio" si rappresentava solo (spesso pesantemente scorciato) "Guillaume Tell". Inoltre, "Semiramide" era stata composta su misura per Isabella Colbran, di sette anni più anziana di Rossini ma diventata sua moglie dopo essere stata, a lungo, amante, in parallelo, sia dell'allora giovanissimo pesarese sia del loro impresario napoletano, Barbaja. Era il momento del massimo innamoramento tra i due: l'opera è stata definita "l'apogeo dello stile Colbran" - perfetta per primedonne del melodramma romantico con registri e tessitura analoghi, per intenderci, a quelli della Callas - in grado, quindi, di arrivare sia a superacuti sia a tonalità scure.
Diventò opera preferita di Maria Malibran, Gulia Grisi, Giuditta Pasta, Adelina Patti. Altra caratteristica: un ruolo "en travesti" (quello di Arsace, amante di Semiramide, senza sapere di esserne il figlio) che consentiva ai mezzo-soprani e soprattutto ai contralti di dare sfoggio alle loro qualità molto di più di quanto non facesse il melodaramma donizzettiano e verdiano (che spesso li relegava in ruoli secondari). Quindi, opera preferita di quella Teresa Stolz che tanto contò nella vita di Verdi. Alla metà dell'Ottocento, "Semiramide" diventò il cavallo di battaglia delle due sorelle Marchisio (soprano e contralto) che ne fecero l'opera più amata da Napoleone Terzo. Una grande incisione, in studio, del 1966 pone Joan Sutherland accanto a Marilyn Horne. Se non è "bel canto"!. Lontana dalla scena napoletana da oltre venticinque anni, il nuovo allestimento è firmato da Luca Ronconi per una mise en scène essenziale che pone l'accento sui temi del potere e dell'incesto e che non rinuncia alla spettacolarità, con i costumi di Emanuel Ungaro rimandano a corpi nudi, e una imponente scena -unica e fissa- di Tiziano Santi impreziosita dal disegno luci di A.J. Weissbard. Sul podio del San Carlo torna Gabriele Ferro per dirigere Orchestra e Coro stabili, quest'ultimo diretto da Salvatore Caputo e posizionato in buca secondo i dettami di Ronconi. Il ruolo di "Semiramide" è affidato al soprano Laura Aikin. Il cast si completa con Silvia Tro Santafè, Simone Alberghini, Annika Kaschenz, Gregory Kunde e Federico Sacchi. (ilVelino/AGV)
(Hans Sachs) 16 Novembre 2011 18:44
lunedì 14 novembre 2011
Grandi eventi di musica contemporanea a Roma in Quotidiano Arte 15 novembre
Le date
Grandi eventi di musica contemporanea a Roma
Giuseppe Pennisi
A Roma - pochi lo sanno – si eseguono tante ore di musica contemporanea quanto a Berlino.
Questa settimana è appena terminato il Festival G.E.R.M.I. (Gruppo Europeo di Ricerca Musicale Indipendente) mentre proseguono RomaEuropa Festival e la stagione dello IUC, al Teatro Belli; il 16 novembre c’è la prima mondiale di un’opera video teatrale di Girolamo Deraco “Città Fantastica - Il Lungo Canto di Lorenzo Calogero” con Roberto Herlitzka e Lidia Mancinelli. Il lavoro sarà successivamente al Teatro Cilea di Reggio Calabria e in altri palcoscenici del Mezzogiorno.
Il 18 novembre inizia l’edizione 2011 del Festival di Nuova Consonanza con un concerto nella sede suggestiva di Villa Aurelia. John Cage, Ivan Fedele e Steve Reich sono i compositori che il Quartetto Prometeo - ensemble italiano ha scelto per questa apertura, in omaggio ai principali protagonisti della musica statunitense e italiana del secolo passato e di oggi. Sei gli appuntamenti in programma dislocati fino al 19 dicembre alla Sala Casella, al Conservatorio di Musica “S. Cecilia” e all’Accademia Americana di Roma, come ogni anno realizzati con la preziosa collaborazione di istituzioni musicali e di cultura (American Academy in Rome, Accademia Filarmonica Romana, Conservatorio di Musica Santa Cecilia, Conservatorio di Musica G. Martucci di Salerno, Istituto Culturale Romeno di Bucarest, Santa Cecilia Opera Studio), il Museo della Repubblica Romana e della Memoria Garibaldina e Rai-Radio Tre (che manderà in onda alcuni concerti in successive trasmissioni).
Grandi eventi di musica contemporanea a Roma
Giuseppe Pennisi
A Roma - pochi lo sanno – si eseguono tante ore di musica contemporanea quanto a Berlino.
Questa settimana è appena terminato il Festival G.E.R.M.I. (Gruppo Europeo di Ricerca Musicale Indipendente) mentre proseguono RomaEuropa Festival e la stagione dello IUC, al Teatro Belli; il 16 novembre c’è la prima mondiale di un’opera video teatrale di Girolamo Deraco “Città Fantastica - Il Lungo Canto di Lorenzo Calogero” con Roberto Herlitzka e Lidia Mancinelli. Il lavoro sarà successivamente al Teatro Cilea di Reggio Calabria e in altri palcoscenici del Mezzogiorno.
Il 18 novembre inizia l’edizione 2011 del Festival di Nuova Consonanza con un concerto nella sede suggestiva di Villa Aurelia. John Cage, Ivan Fedele e Steve Reich sono i compositori che il Quartetto Prometeo - ensemble italiano ha scelto per questa apertura, in omaggio ai principali protagonisti della musica statunitense e italiana del secolo passato e di oggi. Sei gli appuntamenti in programma dislocati fino al 19 dicembre alla Sala Casella, al Conservatorio di Musica “S. Cecilia” e all’Accademia Americana di Roma, come ogni anno realizzati con la preziosa collaborazione di istituzioni musicali e di cultura (American Academy in Rome, Accademia Filarmonica Romana, Conservatorio di Musica Santa Cecilia, Conservatorio di Musica G. Martucci di Salerno, Istituto Culturale Romeno di Bucarest, Santa Cecilia Opera Studio), il Museo della Repubblica Romana e della Memoria Garibaldina e Rai-Radio Tre (che manderà in onda alcuni concerti in successive trasmissioni).
APPUNTI PER IL PROGRAMMA DI GOVERNO:RINEGOZIARE MAASTRICHT in Il Velino 15 novembre
APPUNTI PER IL PROGRAMMA DI GOVERNO:RINEGOZIARE MAASTRICHT
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Roma - Domenica 13 novembre, mentre al Quirinale si svolgevano le consultazioni di rito ed a Palazzo Giustiniani si preparava la squadra del nuovo Governo (“tecnico” o “del Presidente” che dir si voglia), probabilmente pochi leggevano il “New York Times” il cui articolo di apertura sottolineava come nonostante i cambiamenti di Esecutivo in Grecia ed in Italia, “ci sono pochi giorni per salvare l’euro”. Il 10 novembre, su un centinaio di quotidiani dei cinque continenti abbonati al “Project Syndacate”, John Quiggin, ordinario di politica economica, tracciava un quadro impietoso e degli errori tecnici del Trattato di Maastricht e di come la gestione della Banca centrale europea (Bce), li abbia aggravati; l’analisi si basava sul suo libro Zombie Economics: How Dead Ideas Still Walk Among Us , un titolo molto eloquente (“L’economia dei cadaveri: come idee morte ancora passeggiano tra noi”). L’11 novembre , la stessa catena di quotidiani pubblicava una “guida su come tornare alla dracma senza troppo soffrire” dell’economista greco Stergios Skaperdas. Numerosi lettori poi avranno notato il dossier sui malanni dell’euro pubblicato su “The Economist” dell’11 novembre. Meno eco del dovuto, però, ha avuto un convegno che il pomeriggio del 14 novembre si è svolto, per iniziativa della Fondazione Roma, nei saloni (affollatissimi) di Palazzo Cipolla - non un evento occasionale sull’onda delle ultime tensioni sui mercati monetari ma il frutto di mesi di lavoro di una squadra guidata dal Presidente della Fondazione Prof. Emanuele F. Emanuele. Al convegno, economisti di rango e di vario orientamento (ad esempio, Rainer Masera, Marcello De Cecco, Paolo Savano) hanno sviscerato i nodi dell’unione monetaria. Le loro analisi appariranno negli atti della riunione, dalla chiara impostazione scientifica. E’ importante sottolineare la conclusione: un appello unanime a rinegoziare i trattati- da quello di Maastricht a quello euro plus.
E’ un appello che deve essere raccolto dal nuovo Governo quale che sia il resto del programma. In un’unione monetaria malata, l’Italia rischia di ammalarsi più degli altri a ragione sia di sue debolezze strutturali sia dell’aggressività dei virus altrui. Se l’appello non è recepito, le altre misure rischiano di essere pure controproducenti. Si può salvare l’euro (riformandolo) e gli europei adottando il metodo di base utilizzato nel 1993-1999 per dare vita all’eurozona: ossia un percorso a tappe ben definite con criteri ed indicatori pre-stabiliti. Si possono anche mutuare lezioni di unioni monetarie in cui alcuni partner sono usciti senza pagare costi troppo alti. Al Fmi si citano esempi recenti in America Latina e più lontani nel tempo in Asia Le vicende di uscita dalla “dollarizzazione” provano che la gradualità (a tappe molto chiare) premia (il caso di Perù e Ecuador) mentre la mossa brusca costa cara (ne sa qualcosa l’Argentina).
Le tappe non devono essere contrassegnate solamente da indicatori monetari e di bilancio ma da puntelli chiari di economia reale per porre al centro del percorso la convergenza delle strutture di produzione e nella produttività dei fattori e dei tassi effettivi di andamento dei prezzi. Qualche accenno c’è nel “patto euro-plus”, specialmente con l’introduzione di indicatori di produttività. Sono, però, pochi ed occasionali. Sarebbe, invece, utile arricchire gli indicatori di economia reale e definire un percorso pluriennale, unitamente a misure di accompagnamento per quei soci del Club che non riescano ad avvicinarsi al resto della cordata. Evitando uscite traumatiche, potrebbero confluire nello SME 2 (l’accordo sui cambi tra le banche centrali di alcuni Stati dell’Ue che non appartengono all’eurozona, da un lato, e la Banca centrale europea, dall’altro). Nell’attesa che una convergenza economica di tipo strutturale riporti tutti sulla retta corsia.
In questo percorso si potrebbero anche riesaminare le parità. Per l’Italia, ad esempio, si dovrebbe porre rimedio all’ errore compiuto a fine 1989: la decisione di entrare nella fascia di oscillazione stretta dello Sme (2,25%) e contestualmente rimuovere le ultime vestigia di controlli valutari. Sarebbe stato preferibile abolire quel che restava dei controlli, fare oscillare per qualche mese la lira nella fascia larga (6%), vedere dove il cambio si assestava e entrare, poi, in quella stretta. Si sarebbe evitato il rischio di un sovrapprezzamento che è ancora un fardello per la nostra economia reale. (ilVelino/AGV)
(Giuseppe Pennisi) 15 Novembre 2011 07:49
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Roma - Domenica 13 novembre, mentre al Quirinale si svolgevano le consultazioni di rito ed a Palazzo Giustiniani si preparava la squadra del nuovo Governo (“tecnico” o “del Presidente” che dir si voglia), probabilmente pochi leggevano il “New York Times” il cui articolo di apertura sottolineava come nonostante i cambiamenti di Esecutivo in Grecia ed in Italia, “ci sono pochi giorni per salvare l’euro”. Il 10 novembre, su un centinaio di quotidiani dei cinque continenti abbonati al “Project Syndacate”, John Quiggin, ordinario di politica economica, tracciava un quadro impietoso e degli errori tecnici del Trattato di Maastricht e di come la gestione della Banca centrale europea (Bce), li abbia aggravati; l’analisi si basava sul suo libro Zombie Economics: How Dead Ideas Still Walk Among Us , un titolo molto eloquente (“L’economia dei cadaveri: come idee morte ancora passeggiano tra noi”). L’11 novembre , la stessa catena di quotidiani pubblicava una “guida su come tornare alla dracma senza troppo soffrire” dell’economista greco Stergios Skaperdas. Numerosi lettori poi avranno notato il dossier sui malanni dell’euro pubblicato su “The Economist” dell’11 novembre. Meno eco del dovuto, però, ha avuto un convegno che il pomeriggio del 14 novembre si è svolto, per iniziativa della Fondazione Roma, nei saloni (affollatissimi) di Palazzo Cipolla - non un evento occasionale sull’onda delle ultime tensioni sui mercati monetari ma il frutto di mesi di lavoro di una squadra guidata dal Presidente della Fondazione Prof. Emanuele F. Emanuele. Al convegno, economisti di rango e di vario orientamento (ad esempio, Rainer Masera, Marcello De Cecco, Paolo Savano) hanno sviscerato i nodi dell’unione monetaria. Le loro analisi appariranno negli atti della riunione, dalla chiara impostazione scientifica. E’ importante sottolineare la conclusione: un appello unanime a rinegoziare i trattati- da quello di Maastricht a quello euro plus.
E’ un appello che deve essere raccolto dal nuovo Governo quale che sia il resto del programma. In un’unione monetaria malata, l’Italia rischia di ammalarsi più degli altri a ragione sia di sue debolezze strutturali sia dell’aggressività dei virus altrui. Se l’appello non è recepito, le altre misure rischiano di essere pure controproducenti. Si può salvare l’euro (riformandolo) e gli europei adottando il metodo di base utilizzato nel 1993-1999 per dare vita all’eurozona: ossia un percorso a tappe ben definite con criteri ed indicatori pre-stabiliti. Si possono anche mutuare lezioni di unioni monetarie in cui alcuni partner sono usciti senza pagare costi troppo alti. Al Fmi si citano esempi recenti in America Latina e più lontani nel tempo in Asia Le vicende di uscita dalla “dollarizzazione” provano che la gradualità (a tappe molto chiare) premia (il caso di Perù e Ecuador) mentre la mossa brusca costa cara (ne sa qualcosa l’Argentina).
Le tappe non devono essere contrassegnate solamente da indicatori monetari e di bilancio ma da puntelli chiari di economia reale per porre al centro del percorso la convergenza delle strutture di produzione e nella produttività dei fattori e dei tassi effettivi di andamento dei prezzi. Qualche accenno c’è nel “patto euro-plus”, specialmente con l’introduzione di indicatori di produttività. Sono, però, pochi ed occasionali. Sarebbe, invece, utile arricchire gli indicatori di economia reale e definire un percorso pluriennale, unitamente a misure di accompagnamento per quei soci del Club che non riescano ad avvicinarsi al resto della cordata. Evitando uscite traumatiche, potrebbero confluire nello SME 2 (l’accordo sui cambi tra le banche centrali di alcuni Stati dell’Ue che non appartengono all’eurozona, da un lato, e la Banca centrale europea, dall’altro). Nell’attesa che una convergenza economica di tipo strutturale riporti tutti sulla retta corsia.
In questo percorso si potrebbero anche riesaminare le parità. Per l’Italia, ad esempio, si dovrebbe porre rimedio all’ errore compiuto a fine 1989: la decisione di entrare nella fascia di oscillazione stretta dello Sme (2,25%) e contestualmente rimuovere le ultime vestigia di controlli valutari. Sarebbe stato preferibile abolire quel che restava dei controlli, fare oscillare per qualche mese la lira nella fascia larga (6%), vedere dove il cambio si assestava e entrare, poi, in quella stretta. Si sarebbe evitato il rischio di un sovrapprezzamento che è ancora un fardello per la nostra economia reale. (ilVelino/AGV)
(Giuseppe Pennisi) 15 Novembre 2011 07:49
"Una storia un po' magica" di musica e solidarietà in Il Sussidiaio 15 novembre
CONCERTO/ "Una storia un po' magica" di musica e solidarietà
Giuseppe Pennisi
martedì 15 novembre 2011
Sonia Bergamasco
Approfondisci
MUSICA CONTEMPORANEA/ La colonna sonora dell'inverno di Roma
MUSICA SACRA/ Il Festival di Roma che riesce a conquistare i giovani
Roma - La Roma del mondo della musica sa essere generosa. Il 30 settembre abbiamo illustrato le attività a carattere sociale dell’Orchestra Sinfonica di Roma: concerti nelle carceri e negli ospedali. Ora possiamo annunciare un’altra iniziativa ad alto contenuto umanitario. Il 17 novembre alle 21, alla Sala Petrassi del Parco della Musica, Sonia Bergamasco e Roberto Prosseda saranno i protagonisti della serata di beneficenza organizzata dall’Associazione ALBA, dal titolo Una storia un po’ magica - racconto con musica da Anna Maria Ortese. Un concerto tra musica e parole dove a brani di Chopin (Notturno op. 62 n. 1, Ballata op. 52 ) Schumann (Fantasia op. 17, Kinderszenen op. 15 ) e Schubert (Impromptu op. 90 n. 1) si alterneranno le magiche pagine del Mistero Doloroso di Anna Maria Ortese, che sullo sfondo della Napoli di fine ‘700 narra dello sconfinato amore di Florida, fanciulla dalla bellezza lunare e irreale, per il pallido e assorto Principe Cirillo.
Il ricavato della serata sarà devoluto ai bambini ricoverati nel reparto di Oncoematologia Pediatrica del Policlinico Umberto I di Roma. Con l’incasso di questo concerto, ALBA (Associazione Loredana Battaglia) vuole garantire per tutto il 2012 la terapia assistita dagli animali nel reparto del Policlinico romano e nello specifico il “Progetto Filippo, un cavallo per amico”. Il progetto Filippo, che prevede l’utilizzo di un pony di razza Falabella, cani di razza Jack Russell e Golden Retriever per lo svolgimento di una terapia assistita dagli animali, è stato già sperimentato negli scorsi anni ed è riconosciuto come ottimo intervento terapeutico con precise caratteristiche ed obiettivi, finalizzato a migliorare le condizioni di salute psico-fisica del paziente. La terapia assistita dagli animali o pet therapy è stata riconosciuta come cura ufficiale dal Decreto del Consiglio dei Ministri del febbraio 2003, all’interno del Servizio Sanitario Nazionale.
L’iniziativa, giunta alla quarta edizione, è dedicata alla memoria di Loredana Battaglia, scomparsa prematuramente nel 2007.
La decisione di aiutare i più bisognosi, soprattutto bambini o giovani, nasce dal desiderio di proseguire l'impegno di Loredana presso realtà difficili e dalla volontà di far rivivere in questi ragazzi l’amore per la vita, la forza e l’energia che caratterizzavano Loredana e che hanno reso indelebile la sua immagine.
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Giuseppe Pennisi
martedì 15 novembre 2011
Sonia Bergamasco
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MUSICA CONTEMPORANEA/ La colonna sonora dell'inverno di Roma
MUSICA SACRA/ Il Festival di Roma che riesce a conquistare i giovani
Roma - La Roma del mondo della musica sa essere generosa. Il 30 settembre abbiamo illustrato le attività a carattere sociale dell’Orchestra Sinfonica di Roma: concerti nelle carceri e negli ospedali. Ora possiamo annunciare un’altra iniziativa ad alto contenuto umanitario. Il 17 novembre alle 21, alla Sala Petrassi del Parco della Musica, Sonia Bergamasco e Roberto Prosseda saranno i protagonisti della serata di beneficenza organizzata dall’Associazione ALBA, dal titolo Una storia un po’ magica - racconto con musica da Anna Maria Ortese. Un concerto tra musica e parole dove a brani di Chopin (Notturno op. 62 n. 1, Ballata op. 52 ) Schumann (Fantasia op. 17, Kinderszenen op. 15 ) e Schubert (Impromptu op. 90 n. 1) si alterneranno le magiche pagine del Mistero Doloroso di Anna Maria Ortese, che sullo sfondo della Napoli di fine ‘700 narra dello sconfinato amore di Florida, fanciulla dalla bellezza lunare e irreale, per il pallido e assorto Principe Cirillo.
Il ricavato della serata sarà devoluto ai bambini ricoverati nel reparto di Oncoematologia Pediatrica del Policlinico Umberto I di Roma. Con l’incasso di questo concerto, ALBA (Associazione Loredana Battaglia) vuole garantire per tutto il 2012 la terapia assistita dagli animali nel reparto del Policlinico romano e nello specifico il “Progetto Filippo, un cavallo per amico”. Il progetto Filippo, che prevede l’utilizzo di un pony di razza Falabella, cani di razza Jack Russell e Golden Retriever per lo svolgimento di una terapia assistita dagli animali, è stato già sperimentato negli scorsi anni ed è riconosciuto come ottimo intervento terapeutico con precise caratteristiche ed obiettivi, finalizzato a migliorare le condizioni di salute psico-fisica del paziente. La terapia assistita dagli animali o pet therapy è stata riconosciuta come cura ufficiale dal Decreto del Consiglio dei Ministri del febbraio 2003, all’interno del Servizio Sanitario Nazionale.
L’iniziativa, giunta alla quarta edizione, è dedicata alla memoria di Loredana Battaglia, scomparsa prematuramente nel 2007.
La decisione di aiutare i più bisognosi, soprattutto bambini o giovani, nasce dal desiderio di proseguire l'impegno di Loredana presso realtà difficili e dalla volontà di far rivivere in questi ragazzi l’amore per la vita, la forza e l’energia che caratterizzavano Loredana e che hanno reso indelebile la sua immagine.
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ROMA CAPITALE EUROPEA DELLA MUSICA CONTEMPORANEA Il Velino 14 novembre
ROMA CAPITALE EUROPEA DELLA MUSICA CONTEMPORANEA
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Roma - Roma conferma di essere una delle grandi capitali europee di musica contemporanea. Il mese di novembre è iniziato con il Festival Germi (Gruppo europeo di ricerca musicale indipendente), che ha presentato una vera e propria galleria di nuove composizioni di giovani autori italiani e non solo (pure un giapponese) vincitori di un concorso, accanto a musiche contemporanee di autori come Vacchi, Fedele, Sciarrino e Petrassi. Dal 16 al 20 novembre in un piccolo teatro in Trastevere, il Belli, è in scena l’opera video-teatrale di Girolamo Deraco “Città Fantastica - Il Lungo Canto di Lorenzo Calogero” con Roberto Herlitzka e Lidia Mancinelli. Deraco, che ha già composto opere da camera viste pure a Salisburgo, è uno dei vincitori del premio Germi. Il lavoro sarà successivamente al Teatro Cilea di Reggio Calabria e in altri palcoscenici del Mezzogiorno. Proseguono poi il Romaeuropa Festival e la stagione dello Iuc (Istituzione universitaria dei concerti), che danno molta attenzione alla musica contemporanea.
Il grande evento è tuttavia l’edizione 2011 del Festival di Nuova Consonanza giunto alla sua 48esima edizione: inizia il 18 novembre con un concerto nella sede suggestiva di Villa Aurelia. John Cage, Ivan Fedele e Steve Reich sono i compositori che l’ensemble italiana Quartetto Prometeo ha scelto per l’apertura, in omaggio ai principali protagonisti della musica statunitense e italiana del secolo passato e di oggi. Sei gli appuntamenti in programma dislocati fino al 19 dicembre alla Sala Casella del conservatorio di Santa Cecilia e all’Accademia Americana di Roma, come ogni anno realizzati con la preziosa collaborazione di istituzioni musicali e di cultura (American Academy in Rome, Accademia Filarmonica Romana, Conservatorio di Musica Santa Cecilia, Conservatorio di Musica G. Martucci di Salerno, Istituto Culturale Romeno di Bucarest, Santa Cecilia Opera Studio), il Museo della Repubblica romana e della Memoria garibaldina e Rai-Radio Tre, che manderà in onda alcuni concerti in successive trasmissioni. Sempre all’Accademia Americana di Roma, a Villa Aurelia, domenica 20 novembre è in programma la Festa d’autunno.
Titolo della giornata: “150 Canta, note sull’Unità d’Italia”, dedicata al festeggiamenti per il centocinquantenario , dove la memoria storica, i diversi riferimenti a Garibaldi e l’uso di strumenti della tradizione popolare italiana che molto hanno contribuito alla diffusione del cosiddetto patrimonio “colto” si uniscono a progetti sperimentali di particolare interesse artistico e tecnologico. Ci saranno infatti dieci prime esecuzioni assolute (prevalentemente negli appuntamenti della giornata Fisarmonica oggi, Focus Italia.Usa e lo spettacolo “Risorgimenti sconcertanti” su testo di Giorgio Somalvico); nuove installazioni (Voci di Terra, installazione d’arte elettroacustica su frammenti di poesie italiane a cura di Terra & Bits - gruppoartelettroacustica); proiezioni di film storici con colonne sonore (“Il piccolo garibaldino”, film muto di Mario Caserini del 1909 con la colonna sonora elettroacustica per il film muto di Heka); un sound art project (Suoni dal mondo | Sound Art, prodotto dalla Deutschlandradio Kultur 2011), e la prima di “So che ti perderò”, monologo con musica per Chet Baker tratto dal testo Piano Chet di Claudia Cappellini, un omaggio alla vita e alla musica del grande jazzista statunitense che nel 1962 incise in Italia, con un arrangiamento di Ennio Morricone, la canzone che dà il titolo allo spettacolo.
Il Festival si sposta alla Sala Casella mercoledì 30 novembre con “Cantabile e Presto”, récital per flauto e pianoforte. Domenica 4 dicembre alla Sala Casella Serenata per il XXI secolo, affidato all’Ensemble Algoritmo diretto dal suo fondatore Marco Angius, formato da giovani musicisti dediti per vocazione alla musica contemporanea, divenuto in poco tempo punto di riferimento per l’esecuzione della musica d’oggi. Il programma muove da Goffredo Petrassi (Serenata), interprete indiscusso della didattica della composizione dal 1960 al 1978, per arrivare al giovane Matteo Franceschini (Concerto), compositore in residence presso la Filarmonica Romana. Dal 12 al 16 dicembre si terrà al Conservatorio di Musica S. Cecilia il consueto “De Musica”, workshop di composizione, tenuto quest’anno da Philippe Manoury, compositore francese di grande respiro che lo scorso settembre ha debuttato con la nuova opera La Nuit de Gutenberg all’Opéra national du Rhin di Strasburgo e che proprio con il lavoro “Partita I” per viola ed elettronica ha vinto il Premio “Diapason d’or 2008”.
Christophe Desjardins, violista, dedicatario del brano e interprete tra i migliori al mondo, la eseguirà alla Sala Casella venerdì 16 dicembre (Christophe Lebreton, regia del suono e dispositivi elettronici in tempo reale), in occasione del concerto Portrait Philippe Manoury, insieme alla Partita n. 2 di Bach. Un confronto interessantissimo – non l’unico nel festival, tra Bach e gli altri – che svela quanto radicata sia la lezione del contrappunto bachiano e quante virtualità risiedano nel suo linguaggio. Il concerto sarà preceduto da un incontro del musicista con il pubblico. Il Festival si chiude lunedì 19 dicembre alla Sala Accademica di Santa Cecilia con il pianoforte di Emanuele Arciuli, vincitore nel 2011 del prestigioso Premio Abbiati assegnato dalla critica musicale italiana. Titolo della serata, “Il pianoforte romantico”, un confronto fra le pagine pianistiche del repertorio romantico e la musica d’oggi che ad esse si ispira. (ilVelino/AGV)
(Hans Sachs) 14 Novembre 2011 15:11
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Roma - Roma conferma di essere una delle grandi capitali europee di musica contemporanea. Il mese di novembre è iniziato con il Festival Germi (Gruppo europeo di ricerca musicale indipendente), che ha presentato una vera e propria galleria di nuove composizioni di giovani autori italiani e non solo (pure un giapponese) vincitori di un concorso, accanto a musiche contemporanee di autori come Vacchi, Fedele, Sciarrino e Petrassi. Dal 16 al 20 novembre in un piccolo teatro in Trastevere, il Belli, è in scena l’opera video-teatrale di Girolamo Deraco “Città Fantastica - Il Lungo Canto di Lorenzo Calogero” con Roberto Herlitzka e Lidia Mancinelli. Deraco, che ha già composto opere da camera viste pure a Salisburgo, è uno dei vincitori del premio Germi. Il lavoro sarà successivamente al Teatro Cilea di Reggio Calabria e in altri palcoscenici del Mezzogiorno. Proseguono poi il Romaeuropa Festival e la stagione dello Iuc (Istituzione universitaria dei concerti), che danno molta attenzione alla musica contemporanea.
Il grande evento è tuttavia l’edizione 2011 del Festival di Nuova Consonanza giunto alla sua 48esima edizione: inizia il 18 novembre con un concerto nella sede suggestiva di Villa Aurelia. John Cage, Ivan Fedele e Steve Reich sono i compositori che l’ensemble italiana Quartetto Prometeo ha scelto per l’apertura, in omaggio ai principali protagonisti della musica statunitense e italiana del secolo passato e di oggi. Sei gli appuntamenti in programma dislocati fino al 19 dicembre alla Sala Casella del conservatorio di Santa Cecilia e all’Accademia Americana di Roma, come ogni anno realizzati con la preziosa collaborazione di istituzioni musicali e di cultura (American Academy in Rome, Accademia Filarmonica Romana, Conservatorio di Musica Santa Cecilia, Conservatorio di Musica G. Martucci di Salerno, Istituto Culturale Romeno di Bucarest, Santa Cecilia Opera Studio), il Museo della Repubblica romana e della Memoria garibaldina e Rai-Radio Tre, che manderà in onda alcuni concerti in successive trasmissioni. Sempre all’Accademia Americana di Roma, a Villa Aurelia, domenica 20 novembre è in programma la Festa d’autunno.
Titolo della giornata: “150 Canta, note sull’Unità d’Italia”, dedicata al festeggiamenti per il centocinquantenario , dove la memoria storica, i diversi riferimenti a Garibaldi e l’uso di strumenti della tradizione popolare italiana che molto hanno contribuito alla diffusione del cosiddetto patrimonio “colto” si uniscono a progetti sperimentali di particolare interesse artistico e tecnologico. Ci saranno infatti dieci prime esecuzioni assolute (prevalentemente negli appuntamenti della giornata Fisarmonica oggi, Focus Italia.Usa e lo spettacolo “Risorgimenti sconcertanti” su testo di Giorgio Somalvico); nuove installazioni (Voci di Terra, installazione d’arte elettroacustica su frammenti di poesie italiane a cura di Terra & Bits - gruppoartelettroacustica); proiezioni di film storici con colonne sonore (“Il piccolo garibaldino”, film muto di Mario Caserini del 1909 con la colonna sonora elettroacustica per il film muto di Heka); un sound art project (Suoni dal mondo | Sound Art, prodotto dalla Deutschlandradio Kultur 2011), e la prima di “So che ti perderò”, monologo con musica per Chet Baker tratto dal testo Piano Chet di Claudia Cappellini, un omaggio alla vita e alla musica del grande jazzista statunitense che nel 1962 incise in Italia, con un arrangiamento di Ennio Morricone, la canzone che dà il titolo allo spettacolo.
Il Festival si sposta alla Sala Casella mercoledì 30 novembre con “Cantabile e Presto”, récital per flauto e pianoforte. Domenica 4 dicembre alla Sala Casella Serenata per il XXI secolo, affidato all’Ensemble Algoritmo diretto dal suo fondatore Marco Angius, formato da giovani musicisti dediti per vocazione alla musica contemporanea, divenuto in poco tempo punto di riferimento per l’esecuzione della musica d’oggi. Il programma muove da Goffredo Petrassi (Serenata), interprete indiscusso della didattica della composizione dal 1960 al 1978, per arrivare al giovane Matteo Franceschini (Concerto), compositore in residence presso la Filarmonica Romana. Dal 12 al 16 dicembre si terrà al Conservatorio di Musica S. Cecilia il consueto “De Musica”, workshop di composizione, tenuto quest’anno da Philippe Manoury, compositore francese di grande respiro che lo scorso settembre ha debuttato con la nuova opera La Nuit de Gutenberg all’Opéra national du Rhin di Strasburgo e che proprio con il lavoro “Partita I” per viola ed elettronica ha vinto il Premio “Diapason d’or 2008”.
Christophe Desjardins, violista, dedicatario del brano e interprete tra i migliori al mondo, la eseguirà alla Sala Casella venerdì 16 dicembre (Christophe Lebreton, regia del suono e dispositivi elettronici in tempo reale), in occasione del concerto Portrait Philippe Manoury, insieme alla Partita n. 2 di Bach. Un confronto interessantissimo – non l’unico nel festival, tra Bach e gli altri – che svela quanto radicata sia la lezione del contrappunto bachiano e quante virtualità risiedano nel suo linguaggio. Il concerto sarà preceduto da un incontro del musicista con il pubblico. Il Festival si chiude lunedì 19 dicembre alla Sala Accademica di Santa Cecilia con il pianoforte di Emanuele Arciuli, vincitore nel 2011 del prestigioso Premio Abbiati assegnato dalla critica musicale italiana. Titolo della serata, “Il pianoforte romantico”, un confronto fra le pagine pianistiche del repertorio romantico e la musica d’oggi che ad esse si ispira. (ilVelino/AGV)
(Hans Sachs) 14 Novembre 2011 15:11
venerdì 11 novembre 2011
I 39 “scalini” che attendono il Governo Monti on Il Sussidiario del 12 novembre
DOPO BERLUSCONI/ I 39 “scalini” che attendono il Governo Monti
Giuseppe Pennisi
sabato 12 novembre 2011
Foto Imagoeconomica
Approfondisci
INCHIESTA/ Ecco il "programma" del governo Monti, di U. Arrigo
SCENARIO/ Bertone: un "ultimatum" pende già sulla testa di Monti
vai al dossier Crisi o ripresa?
vai allo speciale Dimissioni Berlusconi
Vi ricordate “I 39 scalini”, il thriller politico di John Buchan del lontano 1915 da cui sono stati tratti innumerevoli drammi, musical e film (il migliore quello di Alfred Hitchcock, nonostante contenesse molte differenze dall’originale)? Se la situazione economico-finanziaria dell’Italia non fosse terribilmente seria, le 39 domande recapitate alcuni giorni dall’Unione europea sembrerebbero avere più di un’assonanza con il “super-giallo”: nelle settimane di crisi e tensione che precedono la Prima guerra mondiale, una persona per bene si trova inaspettatamente alle prese con numerosi crimini e misfatti quasi alla sua porta di casa, se la dà a gambe levate per non diventare anche lui una vittima, quando ci si accorge che è tutto parte di un intrigo internazionale (degli Imperi Centrali per scoprire i segreti militari del Regno Unito e così fiaccarlo prima dell’entrata in guerra). Le domande “di chiarimento” sono 39 , come gli scalini. Alcuni protagonisti sono quasi costretti ad andarsene. La crisi internazionale incombe. Come sostengono diversi commentatori, l’Italia non è certo esente da errori, ma rischia di pagare anche per colpe non sue.
Le richieste di “chiarimenti” sono accompagnate da “un termine” che i giuristi chiamerebbero “perentorio”: le risposte devono essere fornite entro la sera dell’11 novembre (cioè entro ieri sera). Come ne “I 39 scalini” c’è stato, però, un colpo di scena. Il Governo in carica è verosimilmente in uscita. Di conseguenza, le risposte dovranno essere di nuovo verificate con un esecutivo di cui siamo ancora in una fase di messa a punto. Una lettura del documento, tuttavia, solleva due punti: a) il tono e b) i contenuti.
Il tono - occorre dirlo con chiarezza - non è quello che si addice al Presidente del Consiglio europeo e al Presidente della Commissione europea. Il primo è un “primus inter pares” a turno. Il secondo un funzionario internazionale, per quanto di grado elevato e con una carriera politica alle spalle. Né l’uno, né l’altro hanno titolo di trattare quasi alla stregua di un “protettorato” - quelli messi in atto nel periodo tra la Prima e la Seconda guerra mondiale - un Presidente del Consiglio (e i suoi Ministri) di uno Stato membro dell’Unione. I contenuti delineano un programma di politica economica a breve e medio termine, entrando negli aspetti di dettaglio dei singoli provvedimenti o almeno dei settori e dei comparti in cui operare.
Alla lettura delle singole “richieste di chiarimento”, ciascuna di essa appare ineccepibile. Anzi, lo è. Tuttavia, l’accento del programma è sul consolidamento dei conti pubblici - tanto deficit quanto crescita - più che sulle misure relative all’espansione dell’economia reale. In particolare, all’espansione dell’economia reale vengono dedicate poche “richieste di chiarimenti”- quelle relative all’utilizzazione dei Fondi strutturali europei (pour cause!), al mercato del lavoro, alla concorrenza, alle liberalizzazioni (limitatamente alle professioni), alla capitalizzazione delle imprese, e, in certa misura, all’ammodernamento della Pubblica amministrazione
Se, come suggerito da numerosi commentatori, le “richieste di chiarimenti” sono la struttura di un programma di governo che dovrà essere adottato da chiunque vada a Palazzo Chigi, deve essere ben chiaro che non si tratta di una strategia di “consolidamento espansionistico della politica di bilancio” (termine alla moda da alcuni mesi), ma, invece, di una strategia tradizionale di messa in sicurezza dei conti pubblici sulla base della quale, con un pizzico di fortuna (rilancio della domanda europea e internazionale per il “made in Italy”), potrebbe successivamente arrivare la crescita. Non è necessariamente una strategia errata.
Esce in questi giorni un lavoro di Roberto Perotti (“The Austerity Myth : Gain withuot Pain?”) in cui vengono analizzati quattro casi di strategia di “consolidamento espansionista”: Danimarca e Irlanda (ambedue in regime di cambi fissi) e Finlandia e Svezia (quando anche la prima aveva cambi fluttuanti). Dallo studio risulta che unicamente in Danimarca si è avuta una crescita sostenuta (e di lungo periodo) pur in un regime di cambi fissi; gli altri o hanno deprezzato o svalutato il cambio oppure la crescita è durata “lo spazio di un mattino”. Tuttavia, si sarebbe potuto mitigarla con misure pro-crescita di lungo periodo che non compaiono nelle 39 domande.
In particolare, si è timidi in materia di produttività del lavoro, determinante principale della bassa crescita e anche dei problemi di finanza pubblica. Forse, le misure sul mercato del lavoro - “richieste di chiarimenti” nn. 17-21 - potranno favorire un po’ la crescita. Tuttavia - come documenta con ricchezza di dati e di analisi un libro Isfol che giunge in libreria il 16 novembre - in un mercato del lavoro in cui declinano i rendimenti salariali e occupazionali dell’istruzione, un’imprenditoria con bassi livelli medi d’istruzione (nel quadro Ocse), un nesso interrotto tra investimenti in istruzione e mobilità sociale, un impatto negativo dei contratti a termine sugli incentivi a investire in formazione (e quindi sulla produttività), è arduo pensare che una maggiore flessibilità sia la chiave di volta per risolvere nodi di questa portata. Quanto detto sulle “richieste di chiarimenti” nn 17-21 si applica anche ad altri capitoli.
Un invito quindi a chiunque abbia il timone della politica italiana a non accettare sic et simpliciter le 39 “richieste di chiarimento”. Ma a esaminarle criticamente, come fa il protagonista de “I 39 scalini”, per prendere ciò che c’è di buono, scartare ciò che è banale e aggiungere le misure strutturali che gli eurocrati hanno dimenticato.
Giuseppe Pennisi
sabato 12 novembre 2011
Foto Imagoeconomica
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INCHIESTA/ Ecco il "programma" del governo Monti, di U. Arrigo
SCENARIO/ Bertone: un "ultimatum" pende già sulla testa di Monti
vai al dossier Crisi o ripresa?
vai allo speciale Dimissioni Berlusconi
Vi ricordate “I 39 scalini”, il thriller politico di John Buchan del lontano 1915 da cui sono stati tratti innumerevoli drammi, musical e film (il migliore quello di Alfred Hitchcock, nonostante contenesse molte differenze dall’originale)? Se la situazione economico-finanziaria dell’Italia non fosse terribilmente seria, le 39 domande recapitate alcuni giorni dall’Unione europea sembrerebbero avere più di un’assonanza con il “super-giallo”: nelle settimane di crisi e tensione che precedono la Prima guerra mondiale, una persona per bene si trova inaspettatamente alle prese con numerosi crimini e misfatti quasi alla sua porta di casa, se la dà a gambe levate per non diventare anche lui una vittima, quando ci si accorge che è tutto parte di un intrigo internazionale (degli Imperi Centrali per scoprire i segreti militari del Regno Unito e così fiaccarlo prima dell’entrata in guerra). Le domande “di chiarimento” sono 39 , come gli scalini. Alcuni protagonisti sono quasi costretti ad andarsene. La crisi internazionale incombe. Come sostengono diversi commentatori, l’Italia non è certo esente da errori, ma rischia di pagare anche per colpe non sue.
Le richieste di “chiarimenti” sono accompagnate da “un termine” che i giuristi chiamerebbero “perentorio”: le risposte devono essere fornite entro la sera dell’11 novembre (cioè entro ieri sera). Come ne “I 39 scalini” c’è stato, però, un colpo di scena. Il Governo in carica è verosimilmente in uscita. Di conseguenza, le risposte dovranno essere di nuovo verificate con un esecutivo di cui siamo ancora in una fase di messa a punto. Una lettura del documento, tuttavia, solleva due punti: a) il tono e b) i contenuti.
Il tono - occorre dirlo con chiarezza - non è quello che si addice al Presidente del Consiglio europeo e al Presidente della Commissione europea. Il primo è un “primus inter pares” a turno. Il secondo un funzionario internazionale, per quanto di grado elevato e con una carriera politica alle spalle. Né l’uno, né l’altro hanno titolo di trattare quasi alla stregua di un “protettorato” - quelli messi in atto nel periodo tra la Prima e la Seconda guerra mondiale - un Presidente del Consiglio (e i suoi Ministri) di uno Stato membro dell’Unione. I contenuti delineano un programma di politica economica a breve e medio termine, entrando negli aspetti di dettaglio dei singoli provvedimenti o almeno dei settori e dei comparti in cui operare.
Alla lettura delle singole “richieste di chiarimento”, ciascuna di essa appare ineccepibile. Anzi, lo è. Tuttavia, l’accento del programma è sul consolidamento dei conti pubblici - tanto deficit quanto crescita - più che sulle misure relative all’espansione dell’economia reale. In particolare, all’espansione dell’economia reale vengono dedicate poche “richieste di chiarimenti”- quelle relative all’utilizzazione dei Fondi strutturali europei (pour cause!), al mercato del lavoro, alla concorrenza, alle liberalizzazioni (limitatamente alle professioni), alla capitalizzazione delle imprese, e, in certa misura, all’ammodernamento della Pubblica amministrazione
Se, come suggerito da numerosi commentatori, le “richieste di chiarimenti” sono la struttura di un programma di governo che dovrà essere adottato da chiunque vada a Palazzo Chigi, deve essere ben chiaro che non si tratta di una strategia di “consolidamento espansionistico della politica di bilancio” (termine alla moda da alcuni mesi), ma, invece, di una strategia tradizionale di messa in sicurezza dei conti pubblici sulla base della quale, con un pizzico di fortuna (rilancio della domanda europea e internazionale per il “made in Italy”), potrebbe successivamente arrivare la crescita. Non è necessariamente una strategia errata.
Esce in questi giorni un lavoro di Roberto Perotti (“The Austerity Myth : Gain withuot Pain?”) in cui vengono analizzati quattro casi di strategia di “consolidamento espansionista”: Danimarca e Irlanda (ambedue in regime di cambi fissi) e Finlandia e Svezia (quando anche la prima aveva cambi fluttuanti). Dallo studio risulta che unicamente in Danimarca si è avuta una crescita sostenuta (e di lungo periodo) pur in un regime di cambi fissi; gli altri o hanno deprezzato o svalutato il cambio oppure la crescita è durata “lo spazio di un mattino”. Tuttavia, si sarebbe potuto mitigarla con misure pro-crescita di lungo periodo che non compaiono nelle 39 domande.
In particolare, si è timidi in materia di produttività del lavoro, determinante principale della bassa crescita e anche dei problemi di finanza pubblica. Forse, le misure sul mercato del lavoro - “richieste di chiarimenti” nn. 17-21 - potranno favorire un po’ la crescita. Tuttavia - come documenta con ricchezza di dati e di analisi un libro Isfol che giunge in libreria il 16 novembre - in un mercato del lavoro in cui declinano i rendimenti salariali e occupazionali dell’istruzione, un’imprenditoria con bassi livelli medi d’istruzione (nel quadro Ocse), un nesso interrotto tra investimenti in istruzione e mobilità sociale, un impatto negativo dei contratti a termine sugli incentivi a investire in formazione (e quindi sulla produttività), è arduo pensare che una maggiore flessibilità sia la chiave di volta per risolvere nodi di questa portata. Quanto detto sulle “richieste di chiarimenti” nn 17-21 si applica anche ad altri capitoli.
Un invito quindi a chiunque abbia il timone della politica italiana a non accettare sic et simpliciter le 39 “richieste di chiarimento”. Ma a esaminarle criticamente, come fa il protagonista de “I 39 scalini”, per prendere ciò che c’è di buono, scartare ciò che è banale e aggiungere le misure strutturali che gli eurocrati hanno dimenticato.
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