mercoledì 16 febbraio 2011

ULTIMA CHIAMATA NEL TRENO DEL FUTURO in Charta Minuta di gen/feb

ULTIMA CHIAMATA NEL TRENO DEL FUTURO
Giuseppe Pennisi
Premessa Oscar Wilde amava dire che gli economisti sanno fare previsioni buone rispetto al passato ma hanno difficoltà a farne per l’avvenire. In un certo senso, l’esteta britannico aveva ragione: la “triste scienza” è stata concepita per analizzare e spiegare fenomeni, non può essere utilizzata come una sfera di cristalli per scrutare il futuro. Sotto il profilo tecnologico, i modelli econometrici macro-economico di norma sono a 24-36 mesi; i modelli intersettoriali sono di solito statici , o al massimo di statica comparata (ossia raffrontano due situazioni analoghe in momenti differenti); gli stessi strumenti basati su cicli lunghi (Kondratev, Minsky) sono mere estrapolazioni di tendenze rilevate nel passato. Quindi, tentate di descrivere quale sarà l’Italia nel 2020, e quale il percoso per arrivarvi, è una missione impossibile. E’ fattibile, però, delineare, in modo qualitativo piuttosto che quantitativo, alcune linee da seguire per uscire dalla stagnazione che ha caratterizzato gli ultimi 15 anni e andare verso un processo di crescita inclusiva che dia priorità alla coesione sociale. Alcune proposte vengono lanciate in questo articolo che intende essere spunto per una riflessione ed un dibattito collegiale.
E’ diviso in queste sezioni : a lo scenario internazionale; b) il contesto europeo; c) i dilemmi per la politica economica italiana; c) la selettività della spesa; d) una politica attiva di coesione sociale.
Lo scenario internazionale Il contesto in cui possono muoversi Europea ed Italia è delineato chiaramente nel Global Outlook , lo studio annuale sull’economia internazionale prodotto dall’Istituto Affari Internazionali (I:A.I), pubblicato a fine 2010. Un Grafico è particolarmente eloquente: quello in cui alcuni istogrammi illustrano l’evoluzione dei consumi mondiali tra due gruppi di Paesi dal 2007 al 2025. Il primo comprende Stati Uniti, Giappone, Francia, Italia. Il secondo Cina , India, Russia, Brasile, Messico, Corea del Sud. La Russia – aquila a due facce- appartiene ad ambedue in quanto sia “sviluppata” sia ancora “emergente”. Nel 2007, il primo gruppo rappresentava il 43% dei consumi mondiali ed il secondo il 24%. Nel 2025 – in base alle previsioni economiche I.A.I. (che tengono conto, a loro volta, di quelle di una ventina di modelli)- il secondo gruppo assorbirà il 40% dei consumi mondiali, il secondo il 37%. Nella loro cruda semplicità, queste due cifre fanno toccare con mano il, processo di trasformazione economica in atto. Mentre, come ci ricordava Angus Maddison prima di morire solo pochi mesi fà, dall’inizio dell’Ottocento (quando l’economia di sussistenza imperversava in tutto il mondo e la somma del Pil di India e Cina era pari al 45% circa di quello mondiale), le innovazioni tecnologiche (meccanica, elettricità, telefonia) sono state per due secoli monopolio di un ristretto gruppo di Paesi del Nord del Mondo (Europa e Stati Uniti), la nuova ondata di innovazioni legate alla tecnologia dell’informazione e comunicazione ha quasi abbattuto le distanze di tempo e di spazio, spezzando il monopolio della creatività, e dell’innovazione.
Il percorso del riequilibrio è reso più difficile, specialmente per Usa ed Ue, dall’esplosione del debito pubblico innescata o aggravata dalla crisi finanziaria iniziata nel 2007- una pesante ipoteca sulle politiche di crescita differenti da quelle basate su una massiccia liberalizzazione nei servizi (di ardua attuazione a ragione delle ricadute occupazionali , almeno di breve periodo).
Il contesto europeo. Il contesto europeo è caratterizzato da due elementi in apparenza contrastanti : a) il documento Europa 2020 , varato dal Consiglio Europeo la primavera scorsa per sostituire la Strategia di Lisbona del marzo 2000;b) la revisione del Patto di Crescita e di Stabilità . Su ambedue si staglia lo spettro della crisi dell’unione monetaria europeo di cui negli ultimi mesi si sono avuti segnali eloquenti che hanno comportato il salvataggio dal rischio di insolvenza del debito sovrano di Stati come la Grecia e l’Irlanda, ed il timore che il contagio della crisi finanziaria europea si estenda ad altri Stati dell’area dell’euro.
La crisi economica internazionale – afferma Europa 2020 - ha messo a nudo le gravi carenze di un'economia già resa fragile dalla globalizzazione, dal depauperamento delle risorse e dall'invecchiamento demografico. La Commissione Europea dichiara che questi ostacoli possono essere superati, se l'Europa decide di optare per un mercato “più verde e innovativo”. La strategia individua le seguenti priorità: sostenere le industrie a basse emissioni di CO2, investire nello sviluppo di nuovi prodotti, promuovere l'economia digitale e modernizzare l'istruzione e la formazione. Europa 2020 propone cinque obiettivi quantitativi, compreso l'innalzamento del tasso di occupazione ad almeno il 75% della popolazione in età da lavoro dall'attuale 69% e l'aumento della spesa per ricerca e sviluppo al 3% del prodotto interno lordo. Attualmente quest'ultima rappresenta soltanto il 2% del PIL, un livello di gran lunga inferiore a quello di Usa e Giappone. La nuova strategia riconferma propone di ridurre il tasso di povertà del 25% per aiutare circa 20 milioni di persone ad uscire dall'indigenza. Nel campo dell'istruzione, Europa 2020 vuole portare il tasso di abbandono scolastico al di sotto del 10% (dall'attuale 15%) e accrescere in maniera significativa (dal 31% al 40%) la percentuale dei giovani trentenni con un'istruzione universitaria.
Il documento propone che i governi concordino obiettivi nazionali che tengano conto delle condizioni di ciascun paese, aiutando nel contempo l'UE nel suo insieme a raggiungere i suoi traguardi. La Commissione controllerà i progressi compiuti e, in caso di "risposta inadeguata", formulerà un monito. Europa 2010 individua sette iniziative prioritarie per stimolare la crescita e l'occupazione. Tra queste figurano i programmi per migliorare le condizioni e l'accesso ai finanziamenti nel settore della R&S, l'introduzione in tempi rapidi dell'Internet ad alta velocità e il maggiore ricorso alle energie rinnovabili.
E’ utile confrontare il documento Europa 2020 con i “Protocolli di Lisbona” di dieci anni prima e porre l’accento sul ruolo che ha avuto l’Italia nella sua formulazione (a fine gennaio 2010 il Ministro per le Politiche Comunitarie ha inviato una nota dettagliata a Bruxelles: l’enfasi su istruzione, formazione, ed equità erano punti centrali del documento italiano). Gli obiettivi sono meno ambiziosi: l’esperienza ha insegnato a non tentate volare troppo in alto se si hanno il corpo e le alti di un calabrone. Già nel 2005, il “rapporto Kok” aveva messo a nudo il vero e proprio “incubo burocratico” che era diventato la “strategia di Lisbona” con oltre 40 parametri (e decine di indicatori da monitorare); da allora, la procedura era stata semplificata anche seguendo il PICO (Programma per l’Innovazione, la Competitività e l’Occupazione) presentato dall’Italia nell’autunno 2005. “Europa 2020” si pone più come uno metodo per individuare strumenti che per lanciare obiettivi. Tuttavia, il documento non sembra tenere adeguatamente conto di una caratteristica e dell’Italia e di molti altri Stati dell’UE, specialmente dei nei-comunitari: una struttura di produzione basata su piccole e medie imprese.
La revisione del Patto di Crescita e Stabilità e le misure ad esso collegate – quali la creazione di tre Agenzia europee per la regolazione e la vigilanza dei mercati finanziari ed assicurativi e, soprattutto, l’istituzione di un fondo europeo “di stabilità”, essenzialmente per il salvataggio di Stati a rischio d’insolvenza sul proprio debito sovrano – paiono andare in una direzione differente da quella di Europa 2020. Mentre il documento sulla crescita e l’innovazione è essenzialmente espansionista, il nuovo Patto (all’esame dei Capi di Stato e di Governo dell’UE a metà dicembre) contempla misure e sanzioni più severe in materia di contenimento dei disavanzi di bilancio e di rapporto tra stock di debito pubblico e Pil .- ambedue cresciuti a dismisura dal 2007 (quando è scoppiata la crisi finanziaria che dagli USA ha colpito specialmente l’UE). In effetti, tuttavia, si tratta di strategie complementari: è arduo, infatti, concepire ed attuare strategia di crescita al di fuori di un quadro di stabilità finanziaria: senza la stabilità finanziaria, infatti, aumenterebbe l’avversione al rischio di consumatori, risparmiatori e investitori, le stesse politiche pubbliche farebbero cilecca per mancanza di una bussola.
I dilemmi per la politica economica italiana La politica economica italiana non ha alternativa al muoversi nel solco segnato da un lato da Europa 2020 e dall’altro dal nuovo Patto di Crescita e di Stabilità e strumenti collegati. All’inizio del 2011, dopo circa tre lustri di stagnazione, secondo l’ultimo Annuario Istat e la più recente documentazione del Ministero dell’Economia e delle Finanze , l’Italia si mostra come un Paese che, a ragione della propria struttura produttiva e delle caratteristiche del proprio sistema di servizi finanziari, è riuscito a scansare le implicazioni peggiori della crisi finanziaria (fallimenti a catena di banche e società di assicurazioni) ma con un reddito pro-capite immobile, un aumento del divario tra “chi e chi non ha” (su base principalmente territoriale), un tasso di disoccupazione ancora inferiore alla media UE ma che tende verso il 10% di coloro che vogliono e possono lavorare, un indebitamento netto delle pubbliche amministrazioni attorno al 5% del Pil ed uno stock di debito pubblico che minacciosamente avanza verso il 120% del Pil. L’alveo è stretto in quanto per restare in linea con gli obiettivi europei (e per non essere percepiti come “soggetti a rischio” dai mercati finanziari), non solamente il deficit annuale di bilancio dovrà essere azzerato ma il rapporto tra stock di debito pubblico e Pil dovrà velocemente andare verso il 60%. Ciò implica un saldo primario attivo di bilancio (ossia risultato di esercizio al netto del servizio del debito) almeno del 5% del Pil l’anno per i prossimi dieci anni. Dato che tale obiettivo non può essere raggiunto tramite un aumento della pressione tributaria e contributiva ( nell’insieme dell’OCSE, l’Italia ha la seconda più alta dopo quella della Francia) si dovrà perseguire una strategia rigorosa della riduzione della spesa pubblica. Come farlo senza mettere ulteriormente in pericolo la coesione sociale è il problema centrale di questi anni.
In primo luogo, non è solamente la elevata pressione tributaria e contributiva a rendere impraticabile un suo ulteriore aumento (frenerebbe la già bassa crescita economica, ed aggraverebbe le difficoltà di coesione sociale in quanto graverebbe principalmente sul lavoro dipendente), ma le riduzioni della spesa – lo quantizza un recente lavoro empirico del servizio studi della Banca centrale europea – hanno, se ben modulate, un buon effetto moltiplicativo su consumi, investimenti ed occupazione, un effetto maggiore del deficit financing di stampo keynesiano. Occorre tenere presente che la struttura produttiva del Paese , costituita da piccole e medie imprese specialmente nel manifatturiero, da elemento di forza (come sottolineato dalla Fondazione Edison) durante la crisi potrà verosimilmente diventare elemento di debolezza nell’uscita dalla crisi e nel futuro dell’economia mondiale. La Germania mostra di essere riuscita ad aumentare il grado d’internazionalizzazione (ora doppio di quello dell’Italia mentre era pari al nostro nel 1995-1999) tramite un processo di concentrazioni aziendali in cui servizi e manifatturiero sono stati integrati nella stesse imprese al fine aumentare competitività tramite una più efficace catena del valore. Gli Anni Novanta - ricordiamolo – sono stati quelli della concentrazione del sistema bancario italiano (composto, all’inizio del periodo, da circa 600 istituti) attorno a cinque – sei poli. La politica pubblica dovrebbe adesso favorirne uno analogo nel manifatturiero e nei servizi. La semplificazione normativa e le liberalizzazioni sono gli strumenti principe per farlo: oggi il groviglio di norme e regolamenti è tale che piccole e medie italiane si trasferiscono non solo in Stati neo-comunitari dell’Europa dell’Est ma nello stesso Canton Ticino e nel francese Departement Rhones-Alpes quasi ai confini con il Piemonte. Appare urgente una sunset legislation (normativa del tramonto) che, dopo un certo numero di anni, imponga il decadimento di leggi e regolamenti se non approvati di nuovo dall’autorità politica (Parlamento, Consiglio Regionale, o Provinciale o Comunale).
In secondo luogo, il metodo delle “riduzioni lineari” per la spesa pubblica (ridurre ciascun esercizio finanziario della medesima percentuale le spese di ciascun Ministero, Regione, Provincia, Comune) ha il fiato corto e , paradossalmente , mina sia la crescita economica sia la coesione sociale in quanto non attacca che molto indirettamente le sacche di inefficienza e di privilegio. Occorre adottare un metodo selettivo. Si è tentato, di mutuare, non con grandi esiti, le Spending Reviews britanniche ma si è posta poca attenzione al Programme de Rationalization des Choix Budgettaires – da me esaminato in altre sedi una ventina di anni fa – grazie al quale la Francia degli Anni Ottanta è passata da una situazione di deficit crescenti e svalutazioni periodiche al Patto del Louvre del 1987 con il quale veniva stabilito (a conti risanati) il cambio fisso tra franco francese e marco tedesco. Caratteristiche del Programme erano la selettività e la trasparenza poiché gli studi e le analisi che portavano a tagli selettivi venivano pubblicati in un periodico edito da La Documentation Française e diventavano oggetto di dibattito specializzato (in seminari tecnici) e pubblico (sulla stampa). Quale che sia la strada scelta - Spending Reviews o Programme de Rationalization des Choix Budgettaires – sarà essenziale rivalorizzare il servizio studi della Ragioneria Generale dello Stato (che è stato creato alcuni anni fa appositamente a questo scopo) ed i servizi studi dei due rami del Parlamento.
La selettività della spesa Una selettività delle politiche di spesa non deve restare declamatoria o non può limitarsi all’individuazione delle sacche di inefficienza e di privilegio. Deve anche essere positiva . Si possono proporre due obiettivi, in linea con quelli europei: crescita ed innovazione, da un canto, coesione sociale, dall’altro.
Una linea interessante emerge dalle analisi relative ai “miracoli economici” del secondo dopoguerra . A mio avviso, sono specialmente significativi i lavori di Charles Kindleberger, economista così noto da non richiedere presentazione, e di Ferenc Jánossy, genero di Lukacs e di formazione matematico-ingegneristica prima che economica. Scritti a pochi anni di distanza l’uno dell’altro, ma senza che i due autori avessero conoscenza l’uno dei lavori dell’altro, i libri di Kindlegerger e Janossy individuano nella qualità della forza lavoro- e quindi dell’istruzione e della formazione ( ma anche delle politiche sanitarie, previdenziali e del mercato del lavoro) – la determinante principale dei “miracoli economici”. Kindleberger guarda esclusivamente all’Europa occidentale, e con attenzione particolare all’Italia. Janossy che lavorava in Ungheria e scriveva in magiaro guarda pure all’esperienza del “miracolo” (poco noto in Occidente) del proprio Paese centreuropeo. Mentre Kindleberger costruisce un modello esplicativo per comprendere come si sia stato innescato il “miracolo economico”, le analisi di Jánossy (per quanto basate su statistiche rudimentali, rispetto alla dotazione di cui disponeva Kindleberger) riguardano non solo come e perché i “miracoli economici” si sono avviati ma anche come e perché si sono affievoliti e spenti. La individua nella discrasia tra capitale umano (da considerarsi come “cambiamento strutturale delle conoscenze provocato dalla divisione del lavoro , non di una crescita generale derivante dalla sommatoria delle conoscenze individuali”), da un lato, e struttura produttiva ed occupazionale, dall’altro; in altri termini quando il capitale umano non è più in linea con le trasformazioni della struttura della produzione e del mercato del lavoro, la spinta che ha dato vita al “miracolo” si esaurisce e si torna su una tendenza di lungo periodo fatta di adattamenti continui, per tentativi, errori e correzioni. Quindi, l’indicazione di una politica economica basata su una politica attiva della formazione del capitale umano, nonché su quella del funzionamento del mercato del lavoro, della politica della salute e del sistema previdenziale. La differenza tra l’analisi di Kindleberger e quella di Jánossy deriva principalmente dal fatto che i due economisti operavano in contesti concettuali e socio-politici (oltre che economici) differenti. Per Kindleberger, che lavorava in un’economia di mercato, il mercato, con i suoi segnali, avrebbe agevolato i ri-aggiustamenti tra formazione e capitale umano, da un lato, e struttura produttiva ed occupazionale (ed, indi, le regole e le prassi per la sua utilizzazione). Per Jánossy, che lavorava, invece, in un’economia “a socialismo reale”, invece, tale ri-aggiustamenti sarebbero dovuti essere il risultato della programmazione, dunque dell’azione politica.

L’interessante intuizione di Jánossy ha suscitato un certo dibattito tra economisti europei nella prima parte degli Anni Settanta ma è stata presto coperta da una fitta coltre di oblio. Un’ipotesi analoga a quella di Jánossy è stata formulata di recente, pur se senza fare riferimento agli ormai ritenuti vecchi lavori dell’economista ungherese, dal Premio Nobel James Heckman della Università di Chicago e da Bas Jacobs della Università di Tilburg – due centri di ricerca strettamente incardinati nel pensiero economico neo-classico di economia di mercato: la loro analisi individua il rallentamento di lungo periodo dell’UE nella carenze delle politiche della formazione e di utilizzazione di capitale umano, politiche che dovrebbero essere “re-inventate” anche a ragione dell’invecchiamento della popolazione: “occorre riconoscere la complementarità dinamica della formazione di competenze”, “è necessario espandere l’investimento nei più giovani, dove si hanno maggiori rendimenti in termini sia di efficienza sia di distribuzione del reddito, rispetto a quello per la riqualificazione dei lavoratori anziani”, “tentare di rimediare più tardi nel ciclo vitale a carenze di competenze è spesso inefficace”. Heckman e Jacobs sottolineano (con toni analoghi a quelli di Janossy) come la formazione di capitale umano venga frustata se il resto delle politiche economiche ha l’effetto di abbassare i rendimenti dell’istruzione e della formazione: ad esempio, alti tassi marginali d’imposizione tributaria e ammortizzatori occupazionali e sociali molto generosi riducono i tassi di partecipazione alla forza lavoro e le ore effettivamente lavorate con la conseguenza di una utilizzazione del capitale umano più bassa dell’ottimale . La regolamentazione del mercato del lavoro può avere, in ceri casi, effetti negativi analoghi. Osservazioni analoghe possono essere fatte per sistemi o regimi previdenziali che incentivano a lasciare la vita produttiva in età relativamente giovane. Da queste analisi si può partire per giungere a indicazioni più specifiche sia in materia di riduzioni di bilancio sia, infine, di politiche attive per l’inclusione sociale: va in questa direzione, pur senza fare riferimento al sostrato analitico, il Piano d’Azione per l’Occupabilità dei Giovani presentato di recente dai Ministeri del Lavoro e dell’Istruzione ed intitolato Italia 2020.
Le politiche attive dell’inclusione Per individuare cosa fare in materia di politiche attive, particolarmente utile un lavoro di David Card (Università della California a Berkeley), Jochen Kluve (Iza, ossia istituto federale tedesco per lo studio del lavoro) e Andrea Weber (Università di Mannhein) pubblicato sul numero di novembre di The Economic Journal . Il lavoro copre un periodo lungo – dal 1995 (massima diffusione delle politiche ”attive”) al 2007 (lo scoppio della crisi)- ed esamina l’impatto di 199 programmi sulla base di 97 studi empirici al fine di trarne implicazioni di politica legislativa e di allocazione di risorse. Copre , quindi, un arco di tempo molto più ampio ed un campione di “casi di studio” molto più vasto di quelli di solito utilizzati in analisi di centri di ricerca nazionali o negli stessi studi comparati di organizzazioni internazionali come l’annuale Employment Outlook dell’Ocse. Inoltre , nel lavoro, viene impiegata una metodologia statistica piuttosto elaborata per ricavare una tassonomia (ossia una casistica di politiche) tramite la quale categorizzare i 1999 programmi e giungere a stime quantitative omogenee di impatti. La conclusione è che le politiche “attive” meno efficaci sono quelle imperniate su programmi d’occupazione nel settore pubblico (per intenderci, i lavori socialmente utili o di pubblica utilità). Abbastanza efficaci , invece, le misure di assistenza alla ricerca di un impiego. Mentre, nel breve periodo, la formazione e la riqualificazione sembrano avere impatti modesti, dopo due-tre anni paiono avere risultati significativi.
Ciò ha implicazioni significative pure per l’Italia . Nonostante il Libro Bianco sul Futuro Modello del Modello Sociale del Paese (e lavori che ne hanno costruito il sostato, quali i saggi La Società Attiva di Maurizio Sacconi, Paolo Reboani e Michele Tiraboschi e Flessibilità e Sicurezze curato da Salvatore Pirrone per l’Arel) mostrino una convergenza su strategie quali quelle riassunte (anche da parte di culture politiche differenti”), in pratica gran parte della spesa pubblica per ammortizzatori occupazionali è per politiche “passive” di sostegno del reddito, nel cui ambito hanno assunto un ruolo sempre maggiore quelle “in deroga” (ossia per categorie tradizionalmente al di fuori dal “comparto” degli ammortizzatori. Siamo, però, riusciti a smaltire una percentuale molto significativa dei programma d’occupazione del settore pubblico: ItaliaLavoro SpA , la principale agenzia in questo campo, ha ri-tarato la propria attività da gestore di lavoratori socialmente utili e di pubblica utilità (tramite società miste) a supporto tecnico dei centri per l’impiego, la cui efficacia viene riportata in graduale ma progressivo miglioramento. Non fanno difetto le risorse per la formazione, e riqualificazione ; tuttavia, dati recenti indicano che le Regioni dove le esigenze sono maggiori (quelle del Sud e delle Isole) sono in grande ritardo nell’utilizzazione di fondi europei (che rischiano di essere convogliati verso altri Stati dell’Ue). Inoltre, qualità, rilevanza ed efficacia spesso lasciano a desiderare, come suggerito tra l’altra da un serie di saggi nel n. 46 della Rassegna Italiana di Valutazione (il periodico dell’Associazione Italiana di Valutazione- AIV) in uscita in queste settimane. Nel silenzio dell’Isfol (da anni ibernato per se con 600 dipendenti – istituto che meriterebbe attenzione nell’ambito di un Programme de Rationalization des Choix Budgettaires) si può contare sul pregevole lavoro dell’Invalsi e di iniziative come quelle dell’AIV.
Conclusioni In questo articolo, partendo dallo scenario internazionale e dal contesto europeo, si delinea alcuni aspetti fondanti di una politica selettiva di riduzioni della spesa pubblica e di potenziamento del capitale umano che possano rimettere in marcia l’Italia con una strategia inclusiva di crescita economica e sociale .
Riferimenti
Balcerowitcs L. Il Fallimento degli Stati Sovrani: una Prospettiva Comparata Milano IBL –Libri 2010
Card D., Kluve J., Weber A. Active Labour Market Policy Evaluation: a Meta Analysis The Economic Journal, November 2010
Commissione Europea Europa 2020 Bruxelles, 2010
Cwik T. , Wieland V. Keynesian Government Spending Multipliers and Spillovers in the Euro Area European Central Bank Working Paper n. 1267
De Filippi G., Pennisi G. The State and New Social Responsibilities in a Globalising World Starsbourg , The Council of Europe 2003
Guerriei P. (a cura di) Global out look Roma , Istituto Affari Internazionali, 2010
Heckman J., Jacobs B. Policies to Create and to Destroy Human Capital in Europe, IZA Discussion Paper No. 4680 2010
Istat Annuario Statistico Italiano 2010, Roma 2010
Jánossy F La Fin des Miracles Economiques Pari s Du Seuil, 1973
Kindleberger Ch. Europe's Postwar Growth. The Role of Labor Supply Cambridge, Massachusetts Harvard University Press, , 1967
Maddison A. Contours of the World Economy 1-2030 AD” London. Oxford University Press, 2007
Ministero del Lavoro, della Salute e delle Politiche Sociali Libro Bianco sul Futuro del Modello Sociale del Paese. La Vita Buona nella Società Attiva Roma, 2010
Ministero del Lavoro, della Salute e delle Politiche Sociali, Ministero dell’Istruzione dell’Università e della Ricerca Italia 2020: Piano d’Azione per l’Occupabilità dei Giovani attraverso l’integrazione tra apprendimento e lavoro, Roma 2010.
Pennisi G. Esclusione ed Inclusione Sociale4 nell’Età della Tecnologia dell’Informazione e della Comunicazione, Sociologia n. 2-3 1995
Pennisi G. L’Insostenibile Leggerezza del Mercato del Lavoro , Rassegna Economica gennaio-marzo 1996
Pennisi G. , Peterlini E. Spesa Pubblica e Bisogno d’Inefficienza Bologna, Il Mulino
Pirrone S. (a cura di) Flessibilità e Sicurezza , Bologna Il Mulino 2008
Pirrone S. e Sestito P. Disoccupati in Italia, Bologna Il Mulino 2006
Presidenza del Consiglio dei Ministri- Dipartimento delle Politiche Comunitarie Programma per l’Innovazione, la Crescita e la Competitività (PICO) Roma 2005
Sacconi M, Reboani P, Tiraboschi M. La Società Attiva Venezia ,Marsilio 2004
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Giuseppe Pennisi , Componente del Consiglio Nazionale dell’Economia e del Lavoro, insegna all’Università Europea di Roma ed all’Università di Malta a Roma.

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