Roma, 21 feb (Il Velino) - Torna in Italia il teatro in musica di Dmitri Šostakovi, con “Il Naso” che da domani al 2 marzo sarà di scena a Parma e Reggio Emilia. Il relativo oblio non è figlio del caso: Šostakovi, di cui quattro anni fa il centenario della nascita è stato “notato” solo da pochi teatri, è stato ed è un personaggio scomodo per ex, neo e post-comunisti. Tanto che nonostante il successo di pubblico in vari Paesi nessun distributore ha mandato nelle sale il film di Tony Palmer “Testimony”, del 1987, tratto dalle memorie del compositore raccolte dal giornalista Solomon Volkov. Nemmeno la Rai lo ha mai messo in onda, ma lo si è visto sul canale “Classica” di Sky, dove ha avuto successo e viene messo di tanto in tanto in programmazione. La vita e il percorso artistico di questo musicista sono una dimostrazione incontrovertibile delle estreme difficoltà che l’intellettuale, anche un comunista convinto come lui, ha avuto alle prese con il socialismo reale. Šostakovi nasce e studia a San Pietroburgo, dove si accosta ai movimenti dell’avanguardia culturale incarnata da Majakovskij, Mejer’hold, Prokof’ev. Cresce da comunista doc e il successo internazionale delle sue tre prime sinfonie lo fanno diventare uno degli autori più ricercati per la composizione di musiche da film (il cinematografo era agli inizi ed il Pcus ne aveva carpito l’importanza al fine di plasmare l’opinione pubblica. A soli 24 anni diventa direttore del Teatro della Gioventù operaia, il Malyi della sua città, ribattezzata nel frattempo Leningrado. Un incarico che poteva essere attribuito unicamente ad un fedelissimo del Partito.
È in questo clima che nasce la sua prima opera, “Il Naso”, da un racconto di Gogol del 1835, rappresentata con grande successo al Malyi il 18 gennaio 1930, quando Šostakovi non aveva ancora compiuto 25 anni. Il ritmo è incalzante: dodici quadri in poco più di due ore di musica. Nonostante un’orchestra da camera, ben 60 personaggi in scena, 27 dei quali solo nella settima scena. Una partitura che fonde citazioni dalla grande tradizione classica con musica di puro intrattenimento e un campionario di effetti modernistici, quali intervalli esageratamente ampi, movimenti di scale, moti pendolari, trilli, moti pendolari, canoni, artifici politonali. Come se ciò non bastasse a sbigottire, le scene erano astratte e cubiste e la regia si ispirava ai tempi velocissimi delle “comiche” del muto. Il pubblico, specialmente quello più giovane, andò in visibilio. Ma la critica accolse freddamente il lavoro per la sua distanza dal realismo socialista, che allora faceva i primi passi nell’estetica ufficiale. Dopo 14 repliche all’insegna del tutto esaurito, a Šostakovi venne suggerita una pausa; l’opera venne ripresa la stagione successiva, ma seguì poi un silenzio in Unione sovietica di ben 43 anni, nonostante lo spettacolo venisse rappresentato all’estero, dove era giunta la partitura ed era considerato come uno di capolavori della musica del Novecento.
Il testo irritò infatti Stalin: un alto burocrate perde, all’improvviso, il proprio naso e si mette, quindi, alla sua ansiosa ricerca nelle alte e nelle basse sfere della capitale (Palazzi, chiese, uffici, botteghe, redazioni di giornali), scoprendone di cotte e crude. Il sarcasmo surrealista si riferisce alle burocrazie di tutti i tempi, soprattutto a quella bolscevica. La musica sgomentò l’ortodossia ancora di più: su un impianto chiaramente slavo innesca jazz, atonalità, ritmi incalzanti (con forti dinamiche timbriche), stili di canto estremi (dal parlato al sovracuto alla polifonia). L’orchestra è snella, include strumenti inconsueti come la domra, la balalaika, il flexaton e in certi passaggi deve riuscire a evocare la grande tradizione sinfonica ottocentesca. In effetti Šostakovi prendeva per il naso lo stalinismo e lo stesso Stalin. Tuttavia, i veri problemi per quest’intellettuale comunista perbene, anche se “bon vivant”, stavano solo iniziando. A crearglieli, non era la vita personale complicata: bello e sciupa femmine, intratteneva relazioni parallele con tre-quattro donne. Non erano neanche la cameristica e le musiche per film e per teatro. Fu la sua seconda (e ultima) opera lirica a farlo cadere in disgrazia con il sistema e a metterlo su una lunga strada di persecuzione: “La Lady Macbeth del distretto di Mzendk”, una storiaccia di sesso e sangue in cui la protagonista, Katerina L’vovna, borghese di provincia mal ammogliata e assatanata da pulsioni erotiche, uccide tutti gli uomini che si porta sotto le lenzuola. L’opera sarebbe dovuta essere la prima di una tetralogia dedicata alla donna russa, ovviamente a quella post-rivoluzionaria, liberata sessualmente e “di livello assai superiore al suo ambiente”.
Nulla che potesse essere, almeno a prima vista, in contrasto con le tendenze del Partito in materia di arte e spettacolo. C’era, però, la musica: “fatta appositamente alla rovescia, in modo da non ricordare affatto la classica musica d’opera, da non avere nulla a che fare con il sinfonismo, con il linguaggio musicale semplice e comprensibile a tutti”. “La Lady Macbeth” ebbe la prima rappresentazione il 22 gennaio 1934 al Malyi con un esito trionfale, i cui echi furono tali da giungere oltre i confini dell’Urss, tanto che venne ripresa (oltre che dai maggiori teatri russi) anche Londra, a Praga e Cleveland nell’arco di meno di 18 mesi. Sembrava destinata a un successo tale da assicurare l’ascesa del suo autore ai piani più alti delle gerarchie artistiche del regime. Sino a quando, la mattina del 28 gennaio 1936, la Pravda pubblicò un editoriale non firmato, ma pare dettato dallo stesso Stalin, e intitolato “Caos anziché musica”: si accusava il lavoro di pornografia e di cacofonia. Da allora (si era nel 1936) iniziò per Šostakovi, non ancora 30enne, un processo di “mobbing” che durò sino alla fine degli anni ‘50. Le sue composizioni rappresentano un percorso sempre più allineato al tardoromanticismo del realismo socialista che piaceva a Andrej Zdanov, il responsabile per la cultura e l’arte del Pcus e solo dopo la morte di Stalin, Šostakovi ritornò moderatamente all’innovazione. “Il Naso” riappare sulle scene russe nel 1974, per iniziativa di una piccola compagnia, in un cinema-teatro con appena 200 posti: il Teatro Musicale da Camera creato e animato da Boris Provovskij. Proprio l’edizione che si vedrà a Parma e Reggio Emilia.
(Hans Sachs) 21 feb 2011 13:01
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