giovedì 24 febbraio 2011

C'è un nodo politico che aggrava i debiti dell'Europa Il Sussidiario 25 febbraio

C'è un nodo politico che aggrava i debiti dell'Europa
Giuseppe Pennisi
venerdì 25 febbraio 2011
Foto Ansa
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Tra i documenti all’attenzione del G20 finanziario, dell’Ecofin e, in particolare, dell’Eurogruppo, di particolare interesse è un “policy brief” di Daniel Gros (Center for European Policy Studies) e Thomas Mayer (CEPS Policy Brief No. 233, ancora in forma preliminare e disponibile unicamente in formato elettronico). Contiene lo schema di una proposta che, per quanto ancora abbozzata, merita di essere esaminata con cura: come ridurre il debito estero di Stati dell’eurozona senza effettuare ristrutturazioni tali da poter essere percepite come insolvenze.

La percezione di insolvenze potrebbe mettere a repentaglio l’intero disegno dell’unione monetaria, oppure portare a riorganizzare i confini dell’area dell’euro attorno a un “nucleo duro”, integrato da una zona a cambi gestiti collegialmente attorno a parità centrali (per intenderci un po’ come quando erano in vigore gli accordi europei sui cambi, giornalisticamente conosciuti come lo Sme).

La proposta parte dall’assunto che, dopo il recente impegno ad ampliarne la dotazione, il Fondo europeo per la stabilità finanziaria (European Financial Stability Facility, in gergo EFSF) può parare minacce d’insolvenza da parte di Grecia, Irlanda e Portogallo (lo sta già facendo per i primi due), ma non ha risorse sufficienti in caso sia necessario organizzare operazioni di salvataggio per la Spagna e ancor meno ove, malauguratamente, i mercati considerassero a rischio anche l’Italia. Non solo, ma in tal caso la credibilità dello schema andrebbe a gambe all’aria, come avvenne nel giugno 1992, quando la Danimarca bocciò, per referendum, l’adesione alla moneta unica.

La proposta prende l’avvio da un assunto implicito: prima di dover fare i conti con Spagna (ed eventualmente Italia) occorre mettere a posto una volta per tutte i problemi di Grecia, Irlanda e Portogallo (il gruppo GIP), invece di tamponare singole minacce di crisi man mano che si presentano (come ha fatto sino a ora l’EFSF). In tal modo, chiusa una partita, ci potrebbero essere risorse per le altre (ove fosse necessario). Si può chiudere la partita a costo zero per l’EFSF, ovvero per i contribuenti degli Stati virtuosi che all’EFSF forniscono risorse?

La proposta delinea un approccio di mercato in due fasi. Nella prima, l’EFSF offrirebbe ai detentori di titoli dei paesi GIP (che abbiano accettato un programma di riassetto strutturale concordato con il Fondo e che lo stiano effettivamente attuando) di rilevarli ai prezzi prevalenti sul mercato secondario prima della definizione dei pertinenti programmi di riassetto strutturale, presumibilmente inferiori, anche in misura significativa, ai valori nominali. L’offerta resterebbe valida per non più di 90 giorni; le banche, si presume, avrebbero un forte incentivo ad accettare l’offerta, poiché l’alternativa sarebbe l’aumento degli accantonamenti per eventuali insolvenze.

Una volta acquisito il debito GIP, l’EFSF condurrebbe un’analisi approfondita della sostenibilità Paese per Paese, chiedendo misure addizionali (privatizzazioni, vendite di beni dello Stato, riforme previdenziali, aumento della pressione tributaria, riduzione di spese pubbliche, e via discorrendo). A questo punto inizierebbe la seconda fase, il cui elemento cruciale diventerebbero le condizioni a cui il Paese GIP dovrebbe rimborsare l’EFSF, divenuto se non l’unico, almeno il principale creditore estero.

Se, nonostante i titoli siano stati acquistati a un valore inferiore a quello nominale, l’onere del debito non fosse tale da assicurare crescita sostenibile, l’EFSF potrebbe concordare con il Paese GIP un ulteriore miglioramento dei termini (ad esempio, un ribasso dei tassi d’interesse), accompagnato da garanzie reali connesse, in vario modo, al patrimonio pubblico; il credito EFSF non avrebbe priorità rispetto a quelli di altri, al fine di facilitare il ritorno del Paese all’accesso al mercato internazionale dei capitali. Se necessario, il Fondo monetario fornirebbe un prestito-ponte a breve termine. La Bce potrebbe cessare il proprio “Securities Market Program” che avrebbe perso ragione d’essere. Il debito GIP verrebbe ridotto a livelli sostenibili e l’EFSF verrebbe rimborsato, ricostituendo, così, la propria dotazione. Che potrebbe, quindi, essere disponibile per altre operazioni di riduzione del debito senza ristrutturazione.
Lo schema è ingegnoso. Ricorda alcune tipologie di “Brady Bonds” utilizzate per le crisi debitorie dell’America Latina, prima, e dell’Asia, poi. Non solamente, però, è macchinoso, ma è imperniato quasi interamente su analisi della sostenibilità di scenari alternativi. Tale scenari, poi, non sarebbero collegati alla valutazione di quelli che, per semplificare, possiamo chiamare EFSF Bonds ma a quella delle politiche di riassetto strutturale, di finanza pubblica e di crescita dei GIP. Ciò comporta problemi tecnici di non facile situazione: occorre costruire e valutare scenari contro-fattuali in condizioni d’incertezza, compiti per effettuare i quali sono essenziali matrici di contabilità sociale aggiornate e modelli computabili di equilibrio economico (credo che tra i GIP solo il Portogallo disponga della strumentazione necessaria).

Ancora più difficili i nodi politici: chi, una volta condotte le analisi, emetterà il verdetto? Il management dell’EFSF (un organo tecnocratico)? Il Consiglio dei Ministri Economici e Finanziari dell’eurozona (un organo eminentemente politico la cui credibilità è stata, a volte, messa un gioco)? Una combinazione dei due? Occorre sciogliere questo nodo prima ancora di affrontare i numerosi aspetti tecnici della proposta.

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