13 febbraio 2011
Il nuovo teatro mette in scena spettacoli per soddisfare le attese del grande pubblico e appassionare le nuove generazioni
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In questo periodo, sia a Roma che a Palermo, il Teatro d’Opera italiano sta voltando pagina. A Roma è stata messa in scena, col Lyric Opera di Chicago, “A view from the bridge” (“Uno sguardo dal ponte”) di William Bolcom. A Palermo la stagione del Teatro Massimo è stata inaugurata con “Senso” di Marco Tutino, su libretto di Giuseppe Di Leva, dalla novella di Camillo Boito che ispirò Luchino Visconti. Il lavoro di Bolcom è in prima europea ma la produzione risale al 1999. Quello di Tutino una prima mondiale co-prodotta dal Teatro d’Opera di Varsavia e già in programmato a Bologna e a Trieste, nonché probabilmente a Los Angeles.
E’ un cambiamento di rotta importante: un saggio recente di Pier Vittorio Marvasi (L’Europa all’Opera- Radici Musicali dell’Unione Europea) ricorda come il Teatro d’Opera ebbe la propria culla in Italia, fu teatro commerciale a Venezia nel Seicento e in tutta la Penisola dal 1820 al 1910 ma soprattutto plasmò la cultura europea.
Persa questa prassi, il repertorio diventò sempre più vieto (spesso stantio) e il pubblico sempre più anziano. Mentre oltre atlantico la “nuova Opera americana”, distante dall’avanguardia alla Philip Glass o alla John Cage, era fatta per soddisfare le attese del grande pubblico e portare a teatro le nuove generazioni. Sino a ora unicamente (o quasi) il Regio di Torino ha proposto esempi della “nuova opera americana”, per esempio “A streetcar named desire” di André Prévin (un lavoro del 1998). Pochi in Italia hanno mai ascoltato “Sophie’s choice” di Nicholas Maw, “Seven attempted escapes from silence”, un libretto di Jonathan Safran Foer messo in musica da sette giovani compositori di paesi musicali differenti, “Doctor Atomic” di John Adams e tanti altri titoli che, nati negli Usa, hanno un grande successo in tutto il mondo perché trattano di argomenti noti e hanno una scrittura vocale e orchestrale diatomica, melodica e facilmente orecchiabile. Già negli anni Settanta, i teatri in America venivano riempiti dai lavori di Thomas Pasatieri e Dominick Argento, i cui tempi e la cui scrittura erano molto graditi dal pubblico. “The Seagull” del primo e “Passport from Marocco” del secondo sono capolavori assoluti dell’ultimo scorcio del Novecento.
In America i teatri sono privati e le sponsorizzazioni sono agevolate sotto il profilo tributario, ma i sovrintendenti sono costretti a tener d’occhio il botteghino (gli stessi sponsor guardano con attenzione l’affluenza e il gradimento del pubblico). Ebbene, nonostante la crisi finanziaria, la scorsa stagione sono state presentate dodici prime mondiali di cui alcune (ad esempio, “Il Giardino dei Finzi Contini” di Ricky Ian Gordon) tratte da romanzi e film italiani.
Tanto “A View from the Bridge” quanto “Senso” si pongono in questo solco ormai internazionale. Si basano su drammi o racconti già tradotti in film e quindi noti al pubblico.
Hanno una scrittura orchestrale e vocale ardita ma non concepita per un’élite, tale da essere apprezzata dalle nuove generazione. In orchestra, si avvertono temi e citazioni di lavori noti. Ampio spazio al declamato (con parole che possono essere facilmente comprese) che si scoglie in ariosi, non in numeri chiusi, e consente un’azione serrata. Grande ruolo al coro.
Soffermiamoci su “Senso” all’inizio del suo percorso internazionale. L’allestimento scenico di Hugo de Ana si ispira a Visconti ma con una ricchezza più decadente. Si contrappongono due mondi: quello diatonico dei “patrioti”, aristocratici o meno, che parteggiano per l’unione del Veneto all’appena creato Regno d’Italia (grandioso il concertato della Battaglia di Custoza); cromatico, e tale da odorare sesso, quello delle scene tra la protagonista e il suo amante austriaco, vero e proprio gaglioffo.
Il successo è stato non negli applausi a scena aperta o alla caduta del sipario ma quando, in un teatro stracolmo, circa cinquecento giovani hanno strillato all’unisono “Brava!” all’aristocratica protagonista che rispondeva con uno schiaffo all’ultimo insulto della prostituta che si accoppiava al bellimbusto a cui la gentildonna tutto aveva sacrificato. Quel “Brava!” voleva dire che i cinquecento ragazzi avevano compreso la complessa scrittura musicale e seguito con passione l’opera.
© - FOGLIO QUOTIDIANO
di Giuseppe Pennisi
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