Paradossalmente gli stessi elementi strutturali della società e dell’economia italiana che hanno tenuto il paese al riparo dagli effetti più gravi della crisi finanziaria sono quelli che si pongono come freni ad una politica di crescita.
Una demografia anziana – il 20 per cento della popolazione ha più di 65 anni, l’età media dei lavoratori dipendenti è attorno a 45 anni – fa sì che i risparmiatori italiani (il tasso di risparmio delle famiglie è ancora elevato, il 12 per cento del reddito disponibile) venga collocato in investimenti “che non danno pensiero”, quasi sempre alla scopo di integrare le pensioni, e non in intraprese innovative (ma, quindi, anche rischiose). Sono anziani anche funzionari, dirigenti e management di banche e finanziarie; la loro cautela ci ha tenuto al riparo dei nodi venuti al pettine nel 2007-2010, ma non suggerisce che siano pronti ad abbracciare una strategia finanziaria attiva in supporto di una più aggressiva politica di sviluppo.
Demografia anziana vuol anche dire corporazioni che si difendono dall’ingresso di altri (in primo luogo i giovani) nei loro “giardinetti”: eloquenti gli studi di Andrea Mattiozzi (California Institute of Technology) e Antonio Merlo (University of Pennsylvania) sulla “mediocrazia” del sistema corporativo italiano, analogo a quello giapponese (la cui economia ristagna da oltre un decennio) nel chiudersi a generazioni nuove ed innovative. La cancellazione del progetto di legge sulle tariffe minime per gli avvocati e dell’accordo sui taxi a Roma (contestato da Antitrust e Tribunali) dovrebbero essere i primi, immediati segnali di una svolta per lo sviluppo.
Il sistema industriale, inoltre, ha retto bene alla crisi grazie alla flessibilità di “distretti” o di “imprese-rete” articolati su aziende di piccole (spesso minuscole) dimensioni. Sono in grado di diventare il grimaldello per lo sviluppo? La piccola dimensione d’impresa è un ostacolo al miglioramento della “catena del valore” (ossia come ci si organizza per aumentare il valore di ciò che si produce) sul tipo di quella realizzata Oltre Reno – il “Rapport Beffa” francese alcuni anni fa lo ha detto a chiare note all’Eliseo – negli ultimi 20 anni (l’accordo Volkswagen può essere preso come spartiacque): mentre Francia, Italia, Spagna e altri scorporavano i servizi dal manifatturiero (tramite varie forme di outsourcing), in Germania le imprese accentuavano l’integrazione dei servizi nel manifatturiero. Strategia che è risultata vincente e ha permesso sia economia di scala sia internazionalizzazione di esternalità tecnologiche, mentre sovente l’outsourcing ha spesso portato i servizi scorporati nel labirinto poco efficiente della regolazione di competenza di enti locali.
In Italia, in aggiunta, il profilo mediamente anziano della forza lavoro è un freno a quella che gli economisti chiamano la produttività multifattoriale – ossia il combinato disposto della produttività del lavoro e del capitale – anche in quanto coniugata con un numero medio di ore effettivamente lavorate nell’impiego dipendente (1.450) almeno il 20 per cento più basso della media Ue, e circa il 50 per cento della media statunitense, per non parlare dei Paesi emergenti asiatici (in Corea del Sud si sfiorano le 2.800 ore l’anno). Ciò implica non solo misure per incoraggiare un aumento della dimensione d’imprese, per portare o riportare i servizi nel manifatturiero ma anche un “grande patto sociale” per aumentare le ore effettivamente lavorate al fine che la capacità degli impianti non resti in parte non utilizzata. L’"Intesa” del 4 febbraio, che svuota la “legge Brunetta” non augura un percorso facile.
© - FOGLIO QUOTIDIANO
di Giuseppe Pennisi
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