martedì 30 marzo 2010

SCONCERTO Il Foglio 31 marzo

SCONCERTO
Giuseppe Pennisi
Parafrasando il Galileo Galilei di Bertold Brecht, “beati i Paesi che non hanno bisogno di osannare i loro Direttori d’orchestra”. Il pubblico romano ha coperto d’ applausi Claudio Abbado, che non veniva nella capitale da quattro anni. Le più alte cariche dello Stato sono corse alla “prima” del concerto replicato nella Sala Santa Cecilia il 26, 28 e 29 marzo, nell’ambito del cartellone in abbonamento dell’Accademia. I critici milanesi che di solito ascoltano con sussiego la musica che si esegue a Roma (e non amano “scendere” nella città “eterna”), sono corsi a frotte; dalle loro testate hanno coperto di lodi il Maestro, l’Orchestra Mozart da lui creata, il programma del concerto e la sua esecuzione. Ciò ha accentuato la vera e propria “febbre Abbado” in quella chiamata (non so quanto appropriatamente) “capitale morale” della Repubblica per i concerti che verranno tenuti al Teatro alla Scala all’inizio di giugno, non solo c’è già il “tutto esaurito” (per i biglietti in pre-vendita; un certo numero di posti deve, in ogni caso, essere disponibile al botteghino nelle ultime 24 ore) ma sono stati segnali casi di bagarinaggio.
Non voglio essere un bastian contrario ad ogni costo, ma credo non sia neanche nell’interesse del Maestro Abbado e della Orchestra Mozart, che tutti si accodino pedissequamente ai coretti a cappella. Ero alla Sala Santa Cecilia, in posizione acusticamente perfetta (fila 14 posto 42) , per il concerto pomeridiano di domenica 28 marzo. A mio avviso, gli osanna vanno temperati da numerosi rilievi.
Il primo riguarda il programma. Prevedeva tre composizioni, la Sinfonia “L’Italiana” di Felix Mendelssohn Bartholdy, il Concerto in Sol Maggiore K 216 di Wolfgang Amadeus Mozart e la Sinfonia in Do Maggiore “Jupiter” K. 551 sempre di Mozart. Due “fuori programma” in risposta alle richieste di bis: un breve pezzo per violino ed orchestra a chiusura della prima parte e l’ouverture “Egmont” di Ludwig van Beethoven al termine della seconda parte. Devo ammettere che non ho neanche riconosciuto il primo “bis” poiché sostanzialmente incolore. Il programma che andava “sul sicuro”: “pezzi” molto noti al grande pubblico, tutti composti a cavallo tra fine Settecento ed inizio Ottocento – repertorio consueto dei concerti domenicali dell’Accademia di Santa Cecilia. Per un “ritorno” a Roma, Abbado avrebbe dovuto osare di più, giustapponendo, ad esempio, quel repertorio venerato dal pubblico più tradizionale (e che comporta organici ridotti) con quegli esempi del grande sinfonismo (se possibile italiano, ad esempio Respighi, Martucci) sovente coperto da una corte di oblio. Abbado è Maestro proprio di grande sinfonismo . Viene il dubbio che i 40 elementi della “sua” Orchestra Mozart sappiano di non potere osare di più. In effetti, a Milano, per la Seconda Sinfonia di Mahler “Resurrezione” vengono rafforzati dai Filarmonici della Scala, da tre cori di prestigio e da due solisti di rango
Abbado ha diretto senza spartito, quasi immobile, con un gesto larghissimo del braccio sinistro e movimenti quasi impercettibili della bacchetta. Uno stile austero ed elegante, teso più a cesellare ed a ricamare che a dare emozioni. L”Italiana” di Mendelssohn Bartholdi, senza dubbio la parte migliore del concerto, è parsa priva della vita interiore e dei turbamenti del giovane compositore del Nord della Germania alle prese con il calore ed il colore mediterraneo. Nel Concerto per violino ed orchestra di Mozart è parso mancare il dialogo tra il violinista , Giuliano Carmignola, ed il complesso orchestrale – quasi duro il primo mentre il secondo voleva essere un merletto. Nella “Jupiter” di Mozart, infine, non si è avvertito il messaggio più profondo della sinfonia, l’ultima , in ordine cronologico, del salisburghese: quella di testamento del Settecento , ormai finito, verso l’incalzare dell’Ottocento e del Romanticismo. E per di più il cellulare nella tasca di un violoncellista ha squillato proprio nel bel mezzo dell’esecuzione. L’Orchestra Mozart deve ancora crescere; le ovazioni non la aiutano a diventare adulta.

Regionali, se avesse vinto la sinistra… Il Velino 30 marzo

Regionali, se avesse vinto la sinistra…
Quello che dicono i 20 maggiori istituti econometrici internazionali

Roma, 30 mar (Velino) - L'ha scampata bella ed evitata quasi di un soffio. Che scenario economico nazionale (al di là di quelli delle singole Regioni) si sarebbe prospettato ove alle elezioni avesse vinto la coalizione di sinistra? Facciamo parlare i numeri utilizzando gli scenari del “consensus” (il gruppo dei 20 maggiori istituti econometrici internazionali, tutti privati, nessuno italiano; quindi, distinti e distanti dalle nostre questioni di bottega) sulla base delle stime prodotte il 27 marzo e distribuite via web agli abbonati (tra cui i think tanks della sinistra), ma non rese note al grande pubblico a ragione dei divieti posti dalla normativa sulle campagne elettorali.

La conseguenza immediata sarebbe stata inevitabilmente una maggiore instabilità politica (quale quella in atto in Francia in questi giorni); con richieste di dimissioni del governo (d’altronde già annunciate da esponenti dell’opposizione parlamentare). Il Fondo monetario internazionale (non certo tacciabile di essere di parte) stima, in un documento appena messo sul web, che ciò comporterebbe un rallentamento del tasso di crescita. La stima si basa sull’esperienza di 169 Stati nell’arco di tempo 1960-2004 analizzando (con strumentazione econometria) lassi di tempo quinquennali. L’instabilità - afferma l’analisi, NIPE Working Paper N.5/2010, che chiunque può verificare - avrebbe avuto come sua prima vittima la produttività di lavoro e capitale. Tramite i consueti canali di trasmissione, ciò avrebbe voluto dire una riduzione dell’aumento del benessere per tutti. Interpolando con le stime del “consensus” la crescita del Pil sarebbe dello 0,7 per cento nel 2010 e del 0,9 per cento nel 2011, invece che dell’1 per cento e dell’1,2 per cento previsti il 27 marzo (media delle stime dei 20 centri di analisi previsionale) in caso di governo stabile. (segue)

Inevitabili le implicazioni sul tasso di disoccupazione: dall’8,3 per cento a fine 2009 si sarebbe andati a più del 10 per cento all’inizio del 2011. Sarebbe aumentato il numero delle famiglie (oggi 7 milioni) sotto la linea della povertà. E per tutti l’indigenza sarebbe diventata più grave. Quindi, un’Italia meno benestante e più diseguale.

Se a queste conseguenze dell’instabilità politica si sarebbe cumulate alcune delle proposte elettorali di candidati Governatori della sinistra, le prospettive sarebbero diventate ancora più inquietanti. Otto dei 13 candidati della sinistra facevano leva su un’interpretazione complicata (sarebbe la Corte costituzionale a dire se è corretta) della legge D’Alema del 2000 sul decentramento per sostenere che, in caso di vittoria, re-introdurrebbero l’Ici. Alcuni parlavano apertamente di un’imposta patrimoniale (regionale). Il sangue (buono o cattivo) non mente: nella seconda metà degli Anni Novanta (con il centro sinistra al timone del governo), il carico tributario è stato aumentato (con il pretesto che questa fosse l’unica strada per entrare nell’euro) di sette punti percentuali del Pil (secondo un’analisi Bankitalia mai contestata). Stiamo ancora pagando il prezzo di tale aumento in termini di crescita inferiore al nostro potenziale pur di Paese maturo con demografia anziana e con impianti spesso obsoleti: lo afferma uno studio della Banca centrale europea che, pubblicato nel 2007, nessuno ha mai confutato.

(Giuseppe Pennisi) 30 mar 2010 16:06

lunedì 29 marzo 2010

Ha creato la “comunità mondiale”: adesso il web si merita il Nobel Ffwebmagazine 29 marzo

Soprattutto, lo merita l'informazione libera su internet
Ha creato la “comunità mondiale”:
adesso il web si merita il Nobel
di Giuseppe Pennisi L’idea iniziale è di Nicholas Negroponte, il creatore del Media Lab del Massachusetts Institute of Technology (il mitico Mit); l’ha presentata meno di due mesi fa al presidente della Camera Gianfranco Fini; nel giro di poche settimane sono state raccolte le firme di 160 parlamentari italiani. Di cosa di tratta? Della proposta di conferire a internet (la rete delle reti) il Premio Nobel per la Pace per il 2010. La notizia ha fatto il giro del mondo: Lawrence Lessing, di Harvard University e Consigliere del presidente degli Stati Uniti Barack Obama per la digitalizzazione degli Usa, in una lectio magistralis tenuta l’11 marzo a Montecitorio, ha detto di avere trovato a Roma, e in particolare, nel Parlamento italiano, il terreno più fertile per dare un forte impulso alla rete delle reti, raffrontandolo con il clima comparativamente sterile (Lessing ha parlato di “dinosauri”) incontrato nella tappa precedente (in Francia) del suo tour europeo.In un momento in cui i giornali italiani spesso associano l’alta tecnologia ad alcuni scandali tributari su cui la magistratura sta indagando, è importante sottolineare la notizia, le motivazioni della proposta, il ruolo di Roma nella sua attuazione e il problema pratico (ancora con risvolti per l’Italia) che la sua realizzazione comporta.In primo luogo, pochi sanno che Giuseppe Scanni in un libro del lontano 1995 (Miti e Speranze del Terzo Millennio) era stato quasi un precursore di Negroponte. La parte più corposa del saggio individuava nell’informatica, nei pc e nelle prime forme di internet le determinanti che avevano, se non causato, accelerato l’implosione dell’Impero Sovietico, la fine del comunismo reale (con l’eccezione dei camaleonti che ancora si vestono in varie guise) e l’inizio di una nuova fase storica ed economica. Internet è stato il grimaldello per una nuova epoca in cui 500 milioni di uomini e donne sono usciti dalla miseria più acuta nel giro di due decenni (un successo mai prima ricordato) e il Pil mondiale è cresciuto a tassi mai prima segnati, diffondendo quel benessere che è ingrediente essenziale della pace.In secondo luogo, internet accomuna le giovani generazioni quali che siano le differenze di lingua, di ceto sociale, di razza, di religione. In meno di due decenni ha creato quella “comunità mondiale” che la Società delle Nazioni, prima, e le Nazioni, Unite, poi, con tutta l’architettura di agenzie specializzate (circa 100.000 dipendenti) non sono riuscite (nell’arco di un secolo) a far sorgere. È questa comunità la grande speranza per il futuro. Speranza non solo di aumento dei tenori di vita ma anche di migliore distribuzione e, quindi, di concordia.In terzo luogo, modificherei la proposta: il Nobel per la Pace lo merita più che internet per sé, l’informazione e l’analisi giornalistica tramite internet. E ciò per due motivi: è l’informazione e l’analisi giornalistica (più che altri aspetti del web) che fanno paura a chi non vuole che i propri concittadini sappiano cosa avviene nel mondo (a dittature grandi e piccole) ; il giornalismo su internet pare destinato a soppiantare la stampa su carta (e in una prospettiva più lunga la stessa tv) – destinate a diventare sempre più strumenti di nicchia oppure di servizio a livello locale. Negli ultimi dieci anni, il numero dei giornalisti della stampa scritta e della tv sono passati, negli Usa, da 425.000 a 300.000. In Francia, nonostante i forti aiuti pubblici, stampa scritta e tv hanno mandato a casa 2300 giornalisti. Ciò vuol dire anche che l’informazione su internet merita la stessa attenzione di quella su carta o su tv dei poteri pubblici (e pari trattamento).In quarto luogo, però, internet non è né una persona né un’organizzazione chiaramente identificabile, ma una rete di centinaia di milioni di computer. Si pone il problema di chi ha titolo a ritirare il Nobel. Facciamo da Roma una proposta concreta: il Cern, (allora guidato dall’italiano Carlo Rubbia), dove nel 1993, proprio grazie all’impulso di Rubbia, la tecnologia del World Wide Web, pur se inizialmente elaborata al Mit negli Anni Sessanta, è stata resa gratuitamente pubblica, innescando la diffusione mondiale di internet. Rubbia ha già ritirato un Nobel (nel 1984 per la fisica). Sarebbe giustificato che sia lui a ritirare il Nobel a internet, per devolverne la somma al Cern. Certo, se Rubbia non può o non vuole, ci candidiamo noi di Ffwebmagazine...

Musica, il ritorno di Claudio Abbado a Roma Il Velino 29 marzo

CLT - Musica, il ritorno di Claudio Abbado a Roma


Roma, 29 mar (Velino) - Lo scorso giugno, per celebrare i 300 anni della nascita di Giovanni Battista Pergolesi, a Jesi si esibì in concerto l’Orchestra Mozart. Da quell’esibizione è stato tratto un pregevole cd, appena prodotto dalla Archiv in cui l’Orchestra, guidata dal direttore Claudio Abbado esegue lo “Stabat Mater”, il “Salve Regina” e il “Concerto per violino” di Pergolesi. In questi giorni l’Orchestra Mozart sta trionfando a Roma con tre concerti (l’ultimo si terrà stasera) prodotti dall’Accademia di Santa Cecilia nel quadro della propria stagione sinfonica in abbonamento. C’era grande attesa perché Abbado, che a 77 anni seleziona con cura le proprie apparizioni in quanto ha sofferto di un grave cancro allo stomaco, mancava dalla Capitale da quattro anni. I tre concerti romani si svolgono nel quadro di una tournée che porterà l’orchestra, la cui sede è a Bologna, a Milano, Parigi, Ravenna e Ferrara. L’Orchestra Mozart è una delle rarissime orchestre private italiane. Nata da un'idea di Carlo Maria Badini come progetto speciale dell'Accademia Filarmonica di Bologna grazie all'apporto determinante della Fondazione Cassa di Risparmio di Bologna, Abbado ne ha assunto la direzione artistica e ne ha delineato il profilo invitando strumentisti di rilievo internazionale, come Giuliano Carmignola, Danusha Waskiewicz, Wolfram Christ, Enrico Bronzi, Mario Brunello, Alois Posch, Jacques Zoon, Alessandro Carbonare, Alessio Allegrini. Accanto a loro, una quarantina di giovani musicisti provenienti da tutta Europa: Italia, Spagna, Francia, Germania, Austria, Olanda, Norvegia, Finlandia, Ungheria e Russia. E’ quindi una formazione adatta sia alla cameristica che alla sinfonica del Settecento e dell’Ottocento. Per la sinfonica a grande organico del Novecento deve essere rafforzata, come avverrà a Milano dove suonerà Mahler con i Filarmonici della Scala. Dalla stagione 2010, Abbado ha voluto al suo fianco Diego Matheuz come direttore ospite principale. Il venticinquenne direttore d'orchestra e violinista venezuelano, già assistente di Gustavo Dudamel, rappresenta uno degli esiti più felici del ben noto “Sistema” di Josè Antonio Abreu e si sta rapidamente imponendo come uno dei giovani talenti più promettenti a livello internazionale.

L'Orchestra Mozart ha debuttato il 4 novembre 2004 al Teatro Manzoni di Bologna, diretta proprio da Abbado. Da allora sono saliti sul podio grandi direttori come John Eliot Gardiner, Ottavio Dantone, Trevor Pinnock e Frans Brüggen. Il 25 ottobre 2008, al PalaDozza di Bologna, l'Orchestra ha eseguito un memorabile “Te Deum” di Berlioz, assieme all'Orchestra Giovanile Cherubini, all'Orchestra Giovanile Italiana, al Coro del Teatro Comunale di Bologna e al Coro Verdi di Milano. L'imponente coro di voci bianche era composto da più di seicento bambini. Il concerto è stato fortemente voluto da Claudio Abbado, che ha così accolto l'appello del Comitato Nazionale per l'Apprendimento Pratico della Musica a dare un forte segnale di sensibilizzazione su questo importante aspetto di politica culturale. Il 13 giugno 2009, all’Auditorium della Scuola della Guardia di Finanza di Coppito (L’Aquila), Abbado e l'Orchestra Mozart hanno voluto dedicare un concerto alle popolazioni abruzzesi colpite dal sisma. Parallelamente è stata promossa l'iniziativa “Orchestra Mozart per l'Abruzzo. Una casa per la musica”, per raccogliere fondi destinati alla realizzazione di una struttura in cui tutte le realtà musicali aquilane possano riprendere immediatamente le proprie attività. L'Orchestra promuove, inoltre, sinergie nel tessuto musicale e sociale di Bologna e di tutta l'Emilia Romagna. Concerti speciali e prove generali vengono riservati alle associazioni del Terzo Settore (più di cinquanta quelle convenzionate) e agli studenti, collegandosi al ciclo didattico “Viaggio nella storia della musica”, promosso dall'Accademia Filarmonica, a cui partecipano ogni anno più di mille ragazzi. Abbado ha poi voluto rivolgere diverse iniziative a realtà quali Caritas, Istituto Penale Minorile e Casa Circondariale.

Il programma presentato a Roma comprende, nella prima parte, la “Sinfonia No 4. L’Italiana di Felix Mendelssohn Bartholdy e il “Concerto in Sol Maggiore” per violino e orchestra K 216 di Wolfgang Amadeus Mozart e, nella seconda parte, il “Concerto in Do” maggiore k. 551 Jupiter, sempre di Mozart. Come fuori programma, alle richieste di bis, Abbado e l’orchestra hanno risposto generosamente con l’Ouverture “Egmont” di Ludwig van Beethoven. Un programma, quindi, che spazia dalla fine del Settecento al romanticismo ottocentesco, un tessuto interessante di affinità e continuità, in cui si privilegiano composizioni, note al grande pubblico e tali da richiedere una formazione orchestrale contenuta. Abbado dirige senza spartito, quasi immobile, con un gesto larghissimo del braccio sinistro e movimenti quasi impercettibili della bacchetta. Uno stile al tempo stesso austero ed elegantissimo che ricorda quello di Carlos Kleiber (si veda il volume di Alessandro Zignani “Carlos Kleber –Il Tramonto dell’Occidente” appena uscito per i tipi di Zecchini Editore). Ne l’”Italiana”, Abbado e l’Orchestra hanno cesellato i ricordi di Mendelssohn Bartholdy del proprio soggiorno nella Penisola e il senso di gioia e di piacere che il viaggio diede all’allora giovane compositore. Nel Concerto per violino ed orchestra, al merletto orchestrale non ha corrisposto una pari raffinatezza da parte del solista Giuliano Carmignola (più adatto al repertorio barocco). Trionfale l’esecuzione della “Jupiter”, più vicina – tra quelle di riferimento- a Karl Böhm (anche per la delicatezza con cui viene trattato il “Rondò”) che a quella di Richard Strauss. In breve, un vero e proprio testamento di un secolo che termina, seguito dall’irruenza dell’”Egmont” che simbolizza quello che inizia.

(Hans Sachs) 29 mar 2010 16:34

sabato 27 marzo 2010

Simon Boccanegra spoglio ed efficace Milano Finanza 27 marzo

Simon Boccanegra spoglio ed efficace
Di Giuseppe Pennisi

Inscena
Il notoriamente severo loggione del Regio di Parma, dopo avere applaudito a scena aperta, ha prolungato per 15 minuti le ovazioni quando è calato il sipario su Simon Boccanegra, a cui Verdi ha lavorato circa 30 anni. Nella città emiliana fino al 3 aprile in un'edizione quasi spoglia (quinte e scene dipinte di Guido Fiorato, regia di Giorgio Gallone), l'opera si presenta molto differente da quella grandiosa di Tiezzi-Balò in arrivo a Milano da Berlino e in scena alla Scala dal 16 aprile al 7 maggio. In una Genova in bianco e nero che trae ispirazione da un'incisione tedesca del Quattrocento, si intrecciano due drammi: uno dell'uomo del mare che entra in politica per sposare la donna amata ed è logorato dagli intrighi, l'altro della paternità sofferta dei due protagonisti: a uno muore la figlia giovane, l'altro ritrova la propria il giorno prima di morire. Daniele Callegari dà la tinta giusta, ossia un grigio cupo, all'orchestra. Ancor più scura la concertazione dilatata di Daniel Baremboim. Trionfo per il giovane Francesco Meli e per la giovanissima, e sconosciuta in Italia, Tamar Iverio. A circa 70 anni, Leo Nucci riempie il teatro con la sua voce baritonale; nel prologo sembra un 25nne e nei tre atti un 50nne precocemente logorato dal potere. Roberto Scandiuzzi, un basso dai mezzi poderosi, è il suo antagonista. Un'ultima scoperta è Simone Piazzola nei panni del malvagio Paolo Albiani, anche lui debuttante o quasi, ma già più che una promessa. A Milano, la grande attesa è per Placido Domingo (appena operato) nel ruolo baritonale di Simon. (riproduzione riservata)

venerdì 26 marzo 2010

OGGI TARANTELLI AVREBBE DATO SOSTANZA ALL’IDEA FORZA DEL RISCATTO DEL SUD Avvenire 26 marzo

Il 27 marzo dell’anno scorso veniva ucciso l’economista cattolico

Giuseppe Pennisi
Il 27 marzo ricorrono i 25 anni dall’assassinio di Ezio Tarantalli, l’economista che, con un’idea semplice semplice, cambiò, più di ogni altra, il corso dell’economia (e della politica) italiana negli Anni 80. Ezio viene commemorato con un convegno internazionale di due giorni alla “sua” università, La Sapienza di Roma, venerdì e sabato quando il Capo dello Stato del Premio conferirà il Premio istituito in suo nome “per la migliore idea economica” dal Club dell’Economia (un’associazione di economisti e di editorialisti economici). Si badi bene “idea”, non teoria, teorema o algoritmo.
Molti ricordano che il problema economico centrale dell’Italia di quel periodo consisteva nel coniugare strategie economiche per ridurre l’inflazione (che aveva raggiunto le due cifre) con quelle per mantenere al tempo stesso un tasso di crescita adeguato. Un rebus che pareva irrisolvibile. Pochi sanno che l’idea della predeterminazione degli scatti della scala mobile venne ad Ezio in volo dagli Usa in Italia. In una di quelle lunghe traversate senza poter riposare, Tarantelli ebbe l’idea e la vergò su un tovagliolino di carta con una nitida equazione:da economista avvezzo al ragionamento matematico, definiva il nesso tra scala mobile ed inflazione e, quindi, come ridurre l’avanzata dei prezzi senza frenare quella dell’economia.
Cattolico, creatore e Presidente del Centro Studi dell’Economia e del lavoro della Cisl, venne ucciso mentre usciva dalla Facoltà dopo avere tenuto una lezione. Meno di tre mesi dopo, gli italiani onorarono in massa la sua memoria respingendo quel referendum abrogativo in materia di modifiche alla scala mobile (nate dalla sua idea), un referendum voluto dal Pci e dai suoi alleati anche sindacali. All’esito del referendum, ha contribuito la reazione dell’Italia che lavora e che produce alla brutalità dell’assassinio.
I suoi scritti principali sono stati raccolti in L’utopia dei deboli è la paura dei forti (Milano 1988) ed in La forza delle idee (Roma-Bari 1995). I suoi lavori teorici sul salario, sulla contrattazione , sul sindacato hanno un posto importante nella storia del pensiero economico del Ventesimo Secolo. Tuttavia, è l’idea , adombrata in un saggio a quattro mani con Franco Modigliani nel 1972, ma sviluppata e formalizzata durante quel volo attraverso l’Atlantico che lascia il messaggio più profondo di Ezio: le ide (più delle teorie e degli algoritmi) cambiano il mondo e, per esse, si può perdere la propria esistenza terrena.
Oggi , il nodo di fondo proprio all’economia italiana (distinto, quindi, da quelli internazionali) non è coniugare crescita con lotta all’inflazione ma ridurre il divario tra il Sud ed il resto del Paese. Un gap che si colma solo con profondi mutamenti dei comportamenti. Il Premio in memoria di Ezio non viene attribuito ad un economista, ma ad un industriale, Ivanhoe Lo Bello per le sue denunce per la spesa clientelare che alimenta la malavita e per la sua proposta di espellere dalle associazioni imprenditoriali coloro che cedono a prassi come il pizzo e le tangenti. Trenta anni fa, un’idea del genere era adombrata in alcuni degli scritti raccolti in L’utopia dei deboli è la paura dei forti . Allora , però, la priorità centrale era un’altra : tornare a crescere senza inflazione (la tassa più iniqua) e rendere l’Italia uno dei protagonisti della scena mondiale. Se Ezio non fosse stato assassinato, probabilmente, oggi avrebbe formalizzato idee come quella di Lo Bello sarebbe tra

giovedì 25 marzo 2010

Opera, Parma si prepara a bicentenario verdiano con "Boccanegra" Il Velino 25 marzo

CLT -

Roma, 25 mar (Velino) - Il “Simon Boccanegra” di Giuseppe Verdi, in scena a Parma fino al 3 aprile, si caratterizza per due aspetti che spiegano la buona gestione del Teatro Regio nel diffondere la “musa bizzarra ed altera”. Innanzitutto è la ripresa di una co-produzione a costi contenuti, facilmente trasportabile da un palcoscenico all’altro, dei teatri di Bologna e Palermo che con il tempo sembra maturare e migliorare. Inoltre propone un cast in cui interpeti affermati da anni, se non da decenni, sono affiancati da giovani di cui due del tutto ignoti a spettatori e critica. L’arcigno pubblico del Regio ha salutato lo spettacolo con applausi a scena aperta e quindici minuti di ovazioni. Sarà il “Boccanegra” per eccellenza, in quanto verrà registrato per il cofanetto di dvd che il Regio di Parma sta preparando per il bicentenario verdiano del 2013. “Boccanegra”, opera “maledetta” e ignorata da fine Ottocento al 1937, si può vedere e ascoltare anche in una coproduzione tra La Scala, il Metropolitan e la Staatsoper unter den Linden di Berlino. Quella che arriverà a Milano il 16 aprile, per restarci sino al 7 maggio, ha un impianto scenico grandioso: un elemento di grande interesse è Placido Domingo, che a 69 anni dovrebbe affrontare il ruolo baritonale del protagonista, sempre che la salute glielo consenta (è stato operato in questi giorni di cancro al colon).

Simon Boccanegra è stato, storicamente, il primo doge di Genova nel periodo di transito dal Medioevo al Rinascimento. L’opera fu un tonfo alla “prima” alla Fenice nel 1857 e, rimaneggiata nel libretto e nella musica, ebbe esiti modesti nelle riprese a Reggio Emilia, Milano, Napoli e Firenze nel 1858-59. Venne modificata nel 1868 in una versione vista solo a Boston e a Londra pochi anni fa. Ripensata con l’aiuto di Arrigo Boito, che rimise mano a parti essenziali del libretto, fu un successo di breve durata quando la versione, adesso corrente, raggiunse La Scala nel 1881. Nell’ultimo scorcio dell’Ottocento e nella prima metà del Novecento, venne dimenticata. Gino Marinuzzi, consapevole che si trattasse di un capolavoro unico nel teatro verdiano ed europeo più in generale, tentò di rilanciarla, a Roma, nel 1934. Da allora, “Boccanegra” ha ripreso un lento cammino, giungendo alla consacrazione internazionale vera e propria all’inizio degli anni Settanta grazie a due edizioni eccellenti, ma molto differenti: quella di Gianandrea Gavazzeni, tragica, cupa, quasi infernale (ascoltabile in un mirabile cd della Rca – purtroppo adesso fuori catalogo - nettamente superiore a una versione sempre curata da Gavazzeni pochi anni prima), e quella di Claudio Abbado, dolce, densa di colori chiari e di volumi leggeri (impareggiabili le evocazioni marine) che in un allestimento di Strehler e Frigerio ha viaggiato a Londra, Parigi, Mosca, Washington e Vienna ed è disponibile in cd e dvd.

È anche una delle opere più apertamente “politiche” di Verdi. Le diverse versioni di “Boccanegra” e l’epistolario del maestro di Busseto rivelano come inizialmente Verdi avesse partecipato al movimento di unità nazionale, ma poi rimase progressivamente deluso da una “politica politicante”, come il protagonista del romanzo incompiuto “L’imperio” di Federico De Roberto, sempre più distante dalla sua visione lungimirante. Nella scena-chiave di “Boccanegra”, il doge fa proprio l’appello di Francesco Petrarca di porre fine alle guerre tra le repubbliche di Genova e di Venezia allo scopo di lavorare insieme per un’Italia libera, ma non è compreso né dai patrizi né dai plebei. Ciò innesca l’intrigo che porta alla catarsi finale. “Boccanegra” (i cui temi “politici” in parte verranno ripresi in “Don Carlo” e in “Otello”) svela un rapporto tormentato con la politica analogo a quello con la religione: la visione a lungo raggio della Politica con la “p” maiuscola e i programmi per realizzarla, vengono bloccati da una politica con la “p” minuscola ridotta a intrighi.

Nell’allestimento di Parma, regia, scene, costumi e luci sono affidati a Giorgio Gallione, Guido Fiorato e Bruno Ciulli. Concerta Daniele Callegari. L’orchestra ha la tinta e i tempi, appropriati mentre nell’edizione Berlino-La Scala, Daniel Baremboim li dilata. Sorprendente Leo Nucci: a 70 anni è ancora un grande Boccanegra sia scenicamente che localmente. Nel prologo ha l’agilità di un 25enne, nei tre atti è un 50enne logorato dalla politica. Il suo avversario è Roberto Scandiuzzi, uno Jacopo Fiesco da antologia per la morbidezza del canto anche nelle tonalità più gravi. Le vere scoperte sono i tre giovani: a 30 anni, Francesco Meli sta transitando da tenore lirico da coloratura e agilità a tenore verdiano spinto: il suo prossimo debutto è Werther di Jules Massenet che richiede una vocalità più leggera di quella del Gabriele Adorno di “Boccanegra”. Vale un viaggio per testarne gli esiti. Giovanissima Tamar Iveri (Amelia/Maria), di cui nulla si sa tranne che viene dalla Georgia o giù di lì: un’eccezionale sorpresa (la vocalità della Freni, nella celebre incisione di Abbado, ma con uno straordinario volume). Sconosciuto anche Simone Piazzola (il perfido Paolo Albiani): lo resterà per poco visto lo svolazzo di critici e agenti al termine dello spettacolo.

(Hans Sachs) 25 mar 2010 10:56

Tarantelli 25 anni dopo, continua la campagna d'odio Il Velino 25 marzo

POL -
Roma, 25 mar (Velino) - Il 27 marzo di 25 anni fa, terminata una lezione ai suoi studenti ed avviandosi alla sua automobile nel parcheggio della Facoltà d’Economia dell’Università La Sapienza, in quel di Castro Laurenziano a Roma, Ezio Tarantelli veniva freddato da quella che allora venne chiamata “una scheggia impazzita” delle Brigate Rosse. La colpa attribuitagli dai terroristi era di avere trovato, con una formula matematica, un modo per ridurre l’inflazione senza contenere la crescita. Ezio non poteva essere definito un “emblema del capitalismo”; era, in un certo qual modo, espressione del sindacato, in quanto aveva, tra l’altro, istituito il centro studi della CISL, un centro che presiedeva con maestria.

In occasione del quarto di secolo dal suo assassinio, l’Università La Sapienza lo commemora con un convegno internazionale di due giorni (il 26-27 marzo) e con il conferimento di un Premio in suo nome da parte del Club dell’Economia, un’associazione apolitica di economisti ed editorialisti.

In questo quarto di secolo molte cose sono cambiate: oggi il tema centrale della politica economica non è il rientro dall’inflazione senza frenare la crescita ma la exit strategy dalla crisi internazionale in corso dal 2007. Se fosse stato vivo, Ezio, avrebbe, senza dubbio, dato un contributo importante di idee e di proposte alle strategie in via di elaborazione. Tuttavia, un elemento fondante non è cambiato: la campagna d’odio che avvelena la politica italiana e che, dopo quella di Ezio, ha portato via la vita di Massimo D’Antona e di Marco Biagi. (segue)

Gli agguati a Massimo D’Antona ed a Marco Biagi sono stati ancora una volta imputati a “schegge impazzite” . Le vicende non solo degli ultimi decenni ma soprattutto degli ultimi mesi e delle ultime settimane dimostrano che tali “schegge” hanno bisogno di un terreno fertile e di concimi appropriati per crescere e diventare pericolose. Nei mesi precedenti l’assassinio di Tarantelli – e quelli di D’Antona e di Biagi – venne scatenata una vera e propria campagna d’odio analoga a quella che si respira oggi. Le radici delle Brigate Rosse, vecchie e nuove, sono analizzate nel bel libro di Alessandro Orsini "Anatomia delle Brigate Rosse – Le radici ideologiche del terrorismo rivoluzionario" (Rubettino, 2009). Ne raccomando la lettura a tutti coloro che anche indirettamente, e senza rendersene conto, stanno alimentando il clima d’odio nel quale gli italiani stanno andando a votare per elezioni regionali. E’ uno studio documentato ed approfondito che va meditato con cura, specialmente da coloro che mostrano simpatia per lo schieramento legatosi a forze estremiste (pur se solamente per motivi di convenienza elettorale di breve periodo, e da tutti quelli che pensano di disertare il voto.

Occorre andare alle urne – e votare bene- per Ezio, per Massimo, per Marco per tanti altri.

(Giuseppe Pennisi) 25 mar 2010 10:32

L’ FMI E LE NOSTRE PENSIONI Il Temp 24 marzo

Giuseppe Pennisi
La consueta missione primaverile Fmi, in Italia in queste settimane, questa volta non pone la previdenza degli italiani al centro delle discussioni. Ciò non vuol dire che non verrà sfiorato il capitolo pensioni. Si parlerà di “manutenzione straordinaria” tra qualche anno, ma non di riassetto impellente ed urgente. Nella 19sima strada di quel di Washington (dove alberga il Fmi), sulle scrivanie del Dipartimento Europa dell’organizzazione troneggiano in bella vista la tabella riprodotta in questa pagina, due volumi di Nicholar Barr (London School od Economics) e Peter Diamond (due dei massimi esperti di previdenza) ed un lavoro di Robert Holzmann(a lungo Vice Presidente alla Protezione Sociale in Banca mondiale, l’istituzione cugina, e dirimpettaia, del Fmi).
La tabella è eloquente:in una colonna estrae dai dati ufficiali il rapporto stock di debito pubblici e Pil prima dell’attuale crisi (che lo ha dilatato in alcuni Paesi – quali Germania, Gran Bretagna, Francia), nell’altra indica quale sarebbe lo stock se vi venissero aggiunte le passività future (attualizzate ad oggi) delle istituzioni pubbliche previdenziali (quali si profilano nei prossimi 30 anni). I calcoli sono stati, sempre a Washington, da Jagadeesh Gokhale, del Cato Institute, frequente consulente di istituzioni finanziarie internazionali, pubblicati (su supporto magnetico) e nessuno li ha smentiti o confutati. In breve, il debito pubblico italiano è da capogiro se si include anche quello degli istituti previdenziali: ben il 364% del Pil. E’, però, inferiore alla media dell’Ue a 25 (ossia senza considerare Bulgaria e Romania): un massiccio 434% del Pil, con i dati per la Polonia (1550% del Pil), della Slovacchia (1149% del pil) e della Grecia (875% del Pil), addirittura da svenimento. E’ un fardello meno pensante di Francia (550% del Pil), Gran Bretagna (442% del Pil) e Germia (418% del Pil). Pare leggero se raffrontato alle stime per gli Usa dove ad un debito pubblico totale (Governo federale, Stati dell’Unione, previdenza obbligatoria, sanità per i poveri e gli anziani) che sfiora il 500% si aggiunge un debito di individui, famiglie ed imprese pari al 300% del Pil- fa tremare anche i Pini di Roma più secolari.
Non c’è da stare allegri, soprattutto per le nuove generazioni. Ma altrove la situazione è ben peggiore che da noi, soprattutto in Francia, oltre che in Grecia: nei due Paesi l’età “normale” della pensione è 60 anni- sia Sarkozy sia Papandreu hanno tentato di cambiarla, senza alcun esito (almeno per ora). Il lavoro di Holzaùmann, ben presente alla squadra Fmi, indica il sistema contributivo figurativo (di cui Italia e Svezia sono stati i precursori nel 1995) come la strada da seguire per rimettere le cose a posto in Europa. Analoghe le conclusioni dei due volumi di Barr e Diamond, anche se, correttamente, insistono per una serie di modifiche per rendere più semplici gli adeguamenti alla dinamiche demografiche ed economico-finanziarie.

martedì 23 marzo 2010

I dimenticati di Kos: Nel paese c'è tanta voglia di serenità e di memoria condivisa Il Velino 22 marzo

di Giuseppe Pennisi

Perché tornare oggi su un tema , anzi su un libro prodotto da una piccola casa editrice, di cui il nostro web magazine si è interessato già lo scorso novembre? Perché per conoscere i contorni di una foresta occorre studiare le foglie degli alberi, siamo negli ultimi giorni della campagna elettorale più avvelenata dal giorno in cui è stata proclamata l’Unità d’Italia ed un albero (dei tanti) afferma, ad alta voce, che il paese non vuole veleni ma condivisione di amore.

L’albero riguarda i “dimenticati di Kos”. Chi erano? La loro vicenda la ricostruisce Pietro Giovanni Liuzzi (dopo lungo lavoro d’archivio ed incontri con i pochi testimoni ancora vivi sia in Italia sia nell’Egeo (Kos- Una tragedia dimenticata. Settembre 1943-Maggio 1945, Edit@ pp. 240 € 12). Occupare il Dodecaneso è sempre stata la mira di Churchill; da tempo, egli aveva ordinato l’approntamento di un piano operativo per l’invasione. A ragione del marasma creatosi nelle forze armate italiane dopo la firma dell’armistizio del 8 settembre 1943, Churchill ritenne giunto il momento di agire e dette il via all’operazione “Accolade” il cui scopo era d’utilizzare l’aeroporto di Kos al fine di accorciare i tempi di volo degli aerei della Raf, dislocati al Cairo e a Cipro, per colpire obiettivi nei Balcani e dare copertura aerea alle unità navali nell’Egeo.


I movimenti britannici furono rilevati dalla sorveglianza aerea tedesca che attaccò Kos con inusitata sorpresa , nella notte tra il 2 ed il 3 ottobre. Sostenute dall’intensa attività della Luftwaffe, dotate di equipaggiamento ed armamento moderno, i tedeschi ebbero il sopravvento sulle scollegate azioni difensive italiane e britanniche. Dopo 38 ore di combattimento, il comando italiano dichiarava la resa alle 14 del giorno 4 ottobre 1943. Mentre gran parte dei britannici raggiunse, con mezzi di fortuna, la Turchia ed altri, catturati, vennero trasferiti in Grecia continentale e trattati da prigionieri di guerra secondo quanto previsto dalla Convenzione di Ginevra. Tremila italiani, dei quattromila presenti nell’isola, furono ammassati nel Castello di Kos dove subirono, per venti mesi, malversazioni.

Gli ufficiali italiani erano 148: sette passarono con i tedeschi, ventotto riuscirono a fuggire in Turchia, dieci ricoverati in ospedale e trasferiti in Germania, 103 fucilati. 66 corpi vennero ritrovati in 8 fosse comuni ma solo 42 furono riconosciuti. Gli altri 37 corpi, da allora, non furono mai cercati sebbene si conoscano i possibili luoghi delle fucilazioni. Nel dopoguerra, l’Italia allacciava nuove relazioni internazionali e nella vicenda di Kos né i tedeschi né i britannici avevano dato una buona prova. Sessantasei anni dopo, è imperativo ricordarsi che tra il sangue dei vinti c’è pure quello di Kos.
Con pazienza certosina (è stato rievocato il film L’Arpa Birmana) Liuzzi ha ricostruito la vicenda e la ha documentata in dettaglio. Ha anche predisposto una “petizione” al Capo dello Stato perché «si commemorino pubblicamente e con gli onori dovuti i 103 ufficiali dimenticati, si ricerchino le altre 37 salme a Lambi, zona nord-est dell'isola di Kos, come da testimonianze disponibili e si includa Kos negli itinerari della memoria insieme a Cefalonia, El Alamein, Sant’Anna di Stazzena, Foibe, eccetera». In due settimane, Liuzzi che opera, da pensionato, dalla propria casa a Latina, ha raccolto 400 firme e viene invitato a conferenze nelle scuole.


Al termine di una delle sue conferenze, una professoressa di scuola secondaria superiore ha scritto ai propri allievi una lettera in cui si dice: «Adesso avete un'idea più precisa di quali sacrifici, lacrime e sangue comporti l'adempimento del proprio dovere sia in pace che in guerra. Adesso capite meglio quanto sia importante lo studio della storia: è proprio grazie a questa disciplina che forse, per un attimo, siete riusciti idealmente a rivedere tanti nostri eroici caduti che giacciono nell'oblio lontani dai propri cari, dal suolo natio e dalla Patria. Ancora molti , purtroppo, non sanno o forse preferiscono non sapere quali immani distruzioni (di cose e di affetti) e quali tragiche conseguenze può causare un conflitto mondiale: può giungere perfino a sconvolgere l'intera società umana e a sovvertire le eterne leggi della natura. Io, vissuta durante il secondo conflitto mondiale, ho ancora avanti agli occhi le scie luminose tracciate nel cielo notturno da aeroplani colpiti e abbattuti con il loro carico di uomini e di bombe; a volte, di notte, mi pare ancora di vedere le luci accecanti dei bengala e di sentire il fischio sinistro delle sirene di allarme aereo o navale; rabbrividisco , impotente, al ricordo delle grida disperate e dei lamenti dei feriti e all'angoscia dei moribondi... È proprio il caso di dire buona volontà di bene, di pace, di perdono, di fratellanza tra popoli che anche adesso sono coinvolti in una spirale di guerre senza confini. E allora uniamoci insieme nella fervida , celeberrima preghiera di San Francesco (per la pace – n.d.r)»

Uno studente ha risposto: «Gentile Signora, io e lei non ci conosciamo. Io sono uno dei tanti destinatari della lettera da lei scritta a proposito dei fatti di Kos e Cefalonia e dei "racconti", come lui stesso li definisce, del Colonnello Liuzzi.Una lettera vera, scritta con il cuore; una lettera da cui traspare voglia di Pace (uso la lettera maiuscola non a caso), di riscatto ma anche di perdono. In un tempo in cui le parole "perdono", "pietà", "fratellanza" sono così tanto usate da essersi consumate, lei le fa rivivere in me. Sono felice di questo. Nella sua lettera lei parla dell'importanza della storia: anche qui mi trova pienamente d'accordo. Eppure, quale è la triste verità? Solo un docente su dieci sa far appassionare i ragazzi alla materia. Anche all'università spesso è tutto in funzione di quel mondo del lavoro che tanto spaventa noi giovani. Quanti di noi si mettono a studiare autonomamente la storia? Pochi. Quanti la storia del proprio paese? Pochissimi. Quanti cercano la verità sotto i documenti ufficiali? Quasi nessuno. Lungi da me l'idea di aprire un dibattito sulla scuola, sarebbe inutile e noioso; ma è tristemente vero che chi scrive la storia sono gli stessi che impiccano gli eroi. Era così ai tempi della Scozia vogliosa di indipendenza, era così ai tempi della Francia rivoluzionaria. Oggi è così. Spero non sia così anche domani. Dario Bellucco».


Queste due lettere dicono tutto sui sentimenti dell’Italia Reale e su quelli dell’Italia Immaginaria che la sinistra ed i suoi corifei e telepredicatori cercano di mostrare agli elettori.

22 marzo 2010


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lunedì 22 marzo 2010

Opera, alla Scala un “Tannhäuser” in stile Rajasthan Il Velino 22 marzo

CLT - Opera, alla Scala un “Tannhäuser” in stile Rajasthan


Roma, 22 mar (Velino) - Quando nell’ultimo scorcio del 2009 il VELINO recensì il “Tannhäuser” di Richard Wagner presentato a Roma, mise l’accento sul carattere moralista dello spettacolo e avvertì: “Dal 17 marzo al 2 aprile, il “Tannhäuser” parigino sarà in scena alla Scala in una edizione curata dai catalani de La Fura dels Baus, con la regia di Carlos Padrissa: ne vedremo delle belle, da fare arrossire lo stesso Robert Carsen”, la cui edizione parigina, programmata ma non messa in scena in Roma, prevedeva 90 nudi integrali nella prima parte del primo atto. In effetti, nella Sala del Piermarini, lo scorso 17 marzo, se ne sono viste di belle e di brutte. Anche una vistosa suonata di fischi dalle gallerie e da alcuni palchi, pur se gran parte del pubblico ha cortesemente applaudito e dopo cinque ore di spettacolo se ne è andato a gambe levate. Da qualche anno “Tannhäuser” non porta bene alla Scala. Nel 2005, l’allestimento Tate-Curran lasciò il pubblico alquanto freddo. Adesso, questo Mehta-La Fura lo ha lasciato perplesso, nonostante lo spettacolo salutasse il ritorno di Zubin Mehta nella fossa del Piermarini per dirigere un’opera dopo oltre 30 anni.

Del lavoro esistono due versioni principali: quella di Dresda del 1843 (molto tersa e compatta) e quella di Parigi del 1861 (cromatica) rivista, dopo alcuni mesi, per Vienna. I due “Tannhäuser” sono opere profondamente differenti nella concezione drammatica e nella partitura. Tranne poche modifiche (il balletto richiesto dell’Opéra e proposto come “baccanale” all’inizio dell’opera, invece che al secondo atto, come da prassi), il testo di arie, recitativi, sestetti non è cambiato (“Tannhäuser”, precede “Lohengrin”, ed è un’“opera romantica” in senso stretto, non un “musikdrama). Nel 1842-45 Wagner era un buon luterano, fedele alla moglie Minna (con cui aveva condiviso molte ristrettezze prima di approdare al “posto” a Dresda) e lavorava per la puritana Corte di Sassonia. La vicenda del bel menestrello fuorviato dal piacere della carne, del suo pentimento e del perdono divino, era un apologo edificante, con una partitura rigorosamente diatonica in cui vere e proprie “canzoni” venivano inserite nel flusso orchestrale. Nel 1860, invece, non soltanto Wagner era stato costretto ad aggiungere il balletto, ma conduceva un’esistenza sessuale quanto meno distinta e distante da quella che avrebbe dovuto seguire un buon luterano. Aveva abbandonato Minna, dopo averla tradita con varie ninfette e veline ante litteram, stava per portare via la moglie al proprio benefattore (l’industriale tessile Wesendock), aveva un ménage à trois con Cosima Litz ed il di lei marito (il suo direttore d’orchestra favorito von Bülow), anzi à quatre (perché nel letto di Cosima finiva spesso l’allora giovanissimo Hermann Levi, che qualche anno dopo, dato un “ben servito” a von Bülow, ne avrebbe preso il posto come direttore d’orchestra favorito di casa Wagner).

Il tutto accompagnato da un fiume inarrestabile di denaro, proveniente dai suoi benefattori. Chi non ha il tempo o voglia di leggersi la monumentali biografie di Wagner (la più nota è in ben sei volumi), trova il tutto in un piacevole libro di 150 pagine appena giunto in libreria (Vincenzo Ramón Bisogni “Richard Wagner- Das Rheingeld, un fiume di denaro”, Zecchini Editore). Questa vita complicata si rispecchia a pieno nella “versione di Parigi” del lavoro: Venere non è un genio del male da bordello (il Wagner trentenne, li frequentava, nonostante avesse continui complessi di colpa dato che voleva essere fedele a Minna), ma una donna appassionata e sinceramente innamorata del menestrello, disposta a tutto pur di tenerlo nel suo letto, nel primo atto, e riportarcelo, nel terzo. La partitura, inoltre, è intrisa di cromatismi , quelli con cui in “Tristan und Isolde” aveva gettato il germe della musica contemporanea. Buon senso consiglia di scegliere. In autunno a Roma si è vista e ascoltata la versione di Parigi quale riadattata, in tedesco, per Vienna.

Alla Scala è in scena una versione ibrida, detta “di Monaco 1994”, in cui, essenzialmente, si sostituisce la parte iniziale della “versione di Dresda” per introdurre il baccanale della “versione di Parigi”. Tra macchine sceniche, proiezioni e mimi, viene offerto un vero e proprio Bignami delle posizioni erotiche per ogni genere, gusto e tendenza. Anche se i mimi non sono nudi ma coperti da una guaina per non incorrere in divieti, dato che in scena ci sono anche minori, a cominciare dal pastorello. Occorre un divieto non solo per porre una moratoria alle proiezioni computerizzate, che a volte distolgono dalla musica, ma anche per stoppare fellatio e sodomia in scena. Non tanto per moralismo, quanto perché ormai sono il vetusto del vetusto. Ove ciò non bastasse, la vicenda è spostata dalla Turingia medioevale a un Rajasthan, visto con gli occhi dei film di Bollywood: in breve, più “Mother India” che “Mahabaharata” nell’indimenticabile versione di Peter Brook. Quindi un Rajasthan da pubblico poco colto e molto confuso. Ma non è finita. Nell’ultima scena, sulle lenzuola stese ad asciugare da volenterose lavandaie, appare un filmato in bianco e nero di Papa Giovanni Paolo II in India: la sua benedizione scaccia la voluttuosa Venere dai pensieri del protagonista, che, dopo avere tanto peccato, muore redento. In breve, “la grande opera romantica in tre atti” ridotta a un film parrocchiale di quelli che si vedevano oltre mezzo secolo fa in provincia.

E la parte musicale? Zubin sembrava dirigesse con il braccio destro legato dietro la spalla: in breve, tempi lunghi e suono incolore (con ottoni bandistici). Non occorre dare al concertatore tutte le responsabilità. Cercava di coprire i difetti di alcuni cantanti: il protagonista Robert Dean Smith, che in difficoltà con gli acuti, puntava tutto sul registro di centro e Roman Trekel (Wolfram) con una bella voce baritonale, ma un volume piccolo e schiacciato, nel concertato alla fine del primo atto e in tutto il terzo atto, da Georg Zeppenfeld nel ruolo del Langravio. Meglio le due protagoniste femminili: Anja Harteros conferma di essere una dei migliori “soprani assoluti” su piazza, in grado di fare apprezzare lo spettacolo anche se mascherata da Sonia Gandhi; Julia Gertseva in grado di supplire con avvenenza e recitazione a qualche piccola carenza.

(Hans Sachs) 22 mar 2010 11:47

domenica 21 marzo 2010

EMMA NON E’ ABBASTANZA Il Tempo 20 marzo

EMMA NON E’ ABBASTANZA
Giuseppe Pennisi
Nell’ultimo scorcio di una campagna elettorale in cui i media (e le procure) hanno enfatizzato temi surreali, occorre chiedersi chi tra Renata Polverini o Emma Bonino (con le coalizioni che le appoggiano) è più adatta a risolvere i problemi reali di coloro che vivono e lavorano nel Lazio. Le conosco ambedue come persone sincere, in buona fede e non prive di energia.
Alcuni nodi sono intrattabili sia che Renato o Emma vincano le lezioni: il più grave è quello della finanza del sistema sanitario (ereditato dalla Giunta Marrazzo) che comporta un riassetto (fusione di Azl, chiusura di piccoli ospedali) dove i contrasti sono tra il Centro (la Regione) e la periferia (la miriade di localismi). E’ più facile scioglierlo, però, se si ha successo sugli altri fronti: a) snellimento dei pagamenti della Regione alle imprese ; b) realizzazione delle infrastrutture (Roma-Latina, Sora-Frosinone, Orte-Civitavecchia, raddoppio Salaria, nuovo aeroporto); c) difficoltà dei distretti industriali (specialmente quello dell’elettronica); c) rilancio dell’audiovisivo (200.000 addetti, il cuore italiano è Roma e dintorni); d) miglioramento del credito industriale e della finanza di progetto; e) riequilibrio tra piccola e grande distribuzione commerciale.
La Regione ha un modello econometrico (forse un po’ vecchiotto) che avrebbe consentito di simulare gli effetti di politiche alternative e di presentarli all’attenzione degli elettori. Il fatto che ciò non sia stato fatto è rivelatore: la coalizione oggi in maggioranza alla Pisana ed in supporto di Emma non ha, nel suo ambito, un accordo (neanche di massima) su cosa fare: quindi, il modello non può girare. D’altronde, mentre la candidata alla guida della Regione è liberal-liberista – un’ottima Presidente “onoraria” dell’Istituto Bruno Leoni- nella coalizione ci sono i punti di vista più divergenze. Infrastrutturare il Lazio è sempre stato una bestia nera dei “verdi”. Lo snellimento dei pagamenti è obiettivo condiviso unicamente a condizione che non si tocchino le macchinose procedure (messe in atto dalla sinistra ma perché ciascuna tutela una delle tante categorie che considerano il servizio pubblico un ammortizzatore per i dipendenti). Risolvere le difficoltà dei distretti industriali (divenuti di competenza regionale con la legge Amato del 2001 tramite la quale si è spolpato il Ministero dello Sviluppo Economico) richiede interventi virtuosistici per essere efficaci nel rispetto di severi vincoli di bilancio. L’audiovisivo è, poi, terreno minato a proposito del quale le varie “anime” sono ai ferri corti: di chi teme di dare indirettamente una mano alle imprese create da Berlusconi a chi sogna una soluzione alle francese con nuovi enti pubblici e laute “indennità di non lavoro” tra una scrittura e l’altra. Divergenze ancora più profonde in campo di edilizia.
Dai nodi alle potenzialità da sfruttare: il patrimonio culturale e il farmaceutico. Sul primo, a sinistra la tutela (con i suoi vincoli) ha premio sulla valorizzazione. Sul secondo, a sinistra albergano molte paure biotecnologiche. Emma è donna d’azione, ma la coalizione promette “la pace dell’avel” (con crescita rasoterra o sottozero).

NINETY STARS ARE BORN Music & Vision March 4

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NINETY STARS ARE BORN

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GIUSEPPE PENNISI tours Austria
with a young Italian symphony orchestra



The second half of February is a charming time to visit Austria; the snow is beginning to melt and the first signs of Spring can be smelt in the air. It is especially enchanting to tour Austria, from Styria to Vienna via Salzburg, in three buses with a young orchestra invited to perform four concerts during a week in some of the most prestigious halls of continental Europe. Before summarizing the journey, it may be useful to recall that last Autumn, the periodical Gig (incorporating International Arts Manager) devoted two full pages to the Orchestra Sinfonica di Roma (OSR), a comparatively new formation in the Italian and European landscape. The Gig article is an important signal of the international attention received by a symphony orchestra which began operating only about eight years ago. Also a left-of-center Italian think tank (Astrid) is joining forces with a free market research institution (Istituto Bruno Leoni) for a study of OSR's artistic and financial success; the study will form the core of a forthcoming book on the Italian performing arts.

Francesco La Vecchia conducting the Orchestra Sinfonica di Roma in Salzburg. Photo © 2010 Antonio Tirocchi
Francesco La Vecchia conducting the Orchestra Sinfonica di Roma in Salzburg. Photo © 2010 Antonio Tirocchi

The OSR was the outcome of a training course financed by the European Commission and organized by the Arts Academy, a non-profit but fully private music school. Occasionally the Brussels bureaucrats do something good even for music. After the course, there was no employment in sight for the young musicians, so the Arts Academy mastermind -- the headstrong and highly experienced Maestro Francesco La Vecchia -- decided to seek funds to form an orchestra. Many thought he was a hopeless and helpless dreamer, but he met another dreamer, the president of a charity; in its turn, the charity owns one of the oldest Italian savings and loans associations and its profits are deemed to be channeled to social and cultural undertakings. The dream became a hard and solid reality -- and a source of stable long-term employment for ninety musicians (to be supplemented by contract instrumentalists as and when needed). At the time, their average age was twenty three.

The OSR has some important features:

1. It is the only completely private symphony orchestra in Italy, and one of the very few in Continental Europe. It does not receive any state, regional, provincial or municipal support -- even though in 2009 it was given a ten thousand euro grant (US$ 15,000) by the Ministry of Culture.
2. It is financed mostly by the Fondazione Roma, a nonprofit registered charity with a mission to 'organise social freedom'. The Fondazione Rome does not operate only in the field of music, but runs a private museum and performs important activities in the fields of health, education, scientific research and aid to the under-privileged. The OSR is also helped by a few locally-based small companies, and by an association of its subscribers and fans. The OSR also carries out charity activities, such as free concerts in small towns and even in jails.
3. The OSR has ninety permanent musicians with an average age now of around thirty, a budget less than one-sixth of that of the main symphony orchestra in the Italian capital (Accademia Nazionale di Santa Cecilia) and a low-priced ticket policy to attract young and old people with modest incomes -- season tickets for thirty concerts vary from 90 to 260 euros according to the category.
4. The orchestra's music director and permanent conductor is Maestro Francesco La Vecchia, who is also principal guest conductor of the Berliner Symphoniker. La Vecchia has been music director of opera houses and symphony orchestras in Central Europe (Budapest), Latin America (Rio de Janeiro) and Portugal (Lisbon). He also often conducts in Shanghai's large concert hall.

During its eight years, the OSR has also gained an important place on the international music scene due to its tour of Brazil, Russia, the UK, Spain, Germany, Poland and China. After the Austrian tour, the group's next symphonic journey is slated for the USA and Canada in June. Significantly, the OSR was chosen by the Austrian Government as the Italian orchestra to participate in the 31 May 2009 celebrations for Haydn's bicentenary. As many of our readers may know, the Austrian Ministry of Culture and the Committee for the Celebrations of Haydn's Bicentenary had a brilliant idea: on 31 May, the day of the composer's death, twenty symphony orchestras and/or opera houses performed one of his greatest and best known oratorios, Die Schöpfung ('The Creation'). Due to the different time zones, Die Schöpfung day started in New Zealand and ended in Honolulu. An earnest radio listener could enjoy the different performances over 24 hours and appreciate the differences in conducting as well as in singing. Opera houses were included because in certain countries (such as Germany), Die Schöpfung is also staged as a music drama: computer technology and animation are a superb support in depicting the initial chaos, the creation of the animals, of the flowers, of the lakes, of the rivers and of the mountain as well as the Garden of Eden with the passionate duet by Adam and Eve. The Accademia Nazionale di Santa Cecilia did not appreciate that the OSR was preferred, and performed the work for its subscribers early in the Spring of 2009.

I have been a steady listener to OSR concerts, not only because they are set at convenient times (5.30pm on Sundays and 8.30pm on Mondays) in a pleasant 1,800 seat auditorium just a few steps away from my home in Rome. The main reason is that they offer an innovative program (as compared with the Accademia di Santa Cecilia and other major orchestras in Italy): the OSR combines Nono with Schubert, Stravinsky with Bruckner, Casella with Brahms, Tchaikovsky with Mailipiero, Liszt with Shostakovich. Until twenty years ago, such a blend was provided, in Rome, by the Italian public radio and television concerts, but these concerts were discontinued and the marvelous acoustically-perfect Roman auditorium was converted to a TV studio for mere entertainment and games.

This 2009-2010 season started on 17 October with Beethoven's Ninth Symphony. The program includes all of Beethoven's orchestral compositions, to be performed in eight of the thirty concerts, and also all of Bach's Brandenburg Concertos and all of the Suites. The twentieth century is not forgotten: the OSR is recording all orchestral works by Martucci, Casella and Malipiero -- some of them are in the 2009-2010 season -- and offers two very rare and exquisite compositions by Respighi: Poema autunnale and Vetrate di Chiesa.

The Orchestra Sinfonica di Roma performing in Graz. Photo © 2010 Antonio Tirocchi
The Orchestra Sinfonica di Roma performing in Graz. Photo © 2010 Antonio Tirocchi

Finally, for a Christmas-New Year gift, a small blue and gold coffer with four Naxos CDs containing all the most significant compositions of Giuseppe Marcucci (1856-1909) and commemorating the centenary of his death. Nearly forgotten now, Marcucci was one of the few Italian composers specializing in symphonic music when melodrama was the main musical attraction. Toscanini had a veneration for him, and in 1932 organized a series of concerts to play all his works.

The Orchestra Sinfonica di Roma in Graz. Photo © 2010 Antonio Tirocchi
The Orchestra Sinfonica di Roma in Graz. Photo © 2010 Antonio Tirocchi

The Austrian tour (17-24 February) was anchored to two different musical programs. As is customary in OSR concerts, the first program combined a well known tone poem (Musorgsky's Pictures at an Exhibition in Ravel's orchestration) with two tone poems (Respighi's Fontane di Roma ('Fountains of Rome') and I Pini di Roma ('Pines of Rome') less familiar to the Austrian general symphonic music audience. The second blended late nineteenth century Italian symphonic music (Martucci's Colore Orientale, Notturno No 2 and Tarantella) with very widely known orchestral music by mostly opera composers (Puccini's Intermezzo from Manon Lescaut, Verdi's overture to I Vespri Siciliani and Rossini's overture to Guillaume Tell). This quite astute programming allowed part of the second concert's compositions to be used as an encore to the first concert. In Graz, the encore was Verdi's overture. In Salzburg, the first concert was supplemented with Martucci's Notturno and the second with the final movement of Respighi's I Pini. In Vienna, at the Musikverein's Golden Hall, the accolades never seemed to stop: the first program was supplemented by Martucci's Notturno, Verdi's I Vespri and the second part of Rossini's Guillaume Tell overture. Naturally, due to the Musorgsky-Ravel and Respighi tone poems, the permanent ninety-strong OSR was expanded to 110, by including some of the best members of Rome's Teatro dell'Opera orchestra.

Francesco La Vecchia and the Orchestra Sinfonica di Roma in Vienna's Große Musikvereinssaal. Photo © 2010 Antonio Tirocchi
Francesco La Vecchia and the Orchestra Sinfonica di Roma in Vienna's Große Musikvereinssaal. Photo © 2010 Antonio Tirocchi

In Graz, the capital of Styria and the second largest city of Austria, the OSR performed in the 1200 seat Stefaniensaal, a beautiful and acoustically splendid hall built between 1905 and 1908 in pure Art Déco style. In Salzburg, the two concerts were held in the university's 700 seat Mozart Aula (because Easter Festival productions were being rehearsed in the other halls, and the Festival administration was also dealing with a complicated financial scandal). In Vienna, the OSR was invited to the Musikverein, that sanctuary to which only superior international orchestras are given admission. Fifteen minutes of accolades followed the Musikverein concert. It had started at 7.30pm and the encore ended after 10pm.

Francesco La Vecchia and the Orchestra Sinfonica di Roma in Vienna's Musikverein. Photo © 2010 Antonio Tirocchi
Francesco La Vecchia and the Orchestra Sinfonica di Roma in Vienna's Musikverein. Photo © 2010 Antonio Tirocchi

Travelling with a hundred and ten young and enthusiastic musicians is a challenging and rewarding experience. Obviously, initially they were nervous in approaching an Austrian audience with the reputation of being much more sophisticated than their listeners in Rome. La Vecchia encouraged them in a fatherly way as they travelled from Graz to Salzburg and on to the terrific and terrifying Musikverein. Naturally, they unwound with a joyful party after the performance, even though their alarm clocks were set at dawn in order to catch a very early charter flight to Rome on 24 February, and to be ready to rehearse on 25 February for concerts on 28 February and 1 March (J S Bach's Brandeburg Concertos Nos 1, 2 and 3 and Orchestral Suites Nos 1 and 2 under the baton of Lior Shambadal).

Copyright © 4 March 2010 Giuseppe Pennisi,
Rome, Italy

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A Perfect Falstaff Music and Vision February 28

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Ensemble

A Perfect Falstaff
GIUSEPPE PENNISI visits
the Vienna State Opera



Just a few weeks ago, I reviewed the two 'comic' operas by Verdi: Zeffirelli's production of Falstaff in Rome and Pizzi's production of Un Giorno di Regno in Parma. The Falstaff, although updated by Zeffirelli several times (the Rome staging was the ninth update), is nearly fifty years old, and it shows its age. Un Giorno di Regno was thirteen years old, but in revising and updating it, Pizzi achieved marvels in creating a good show on the basis of a modest libretto and a mediocre score.

In Vienna for a series of concerts, your reviewer took the opportunity to see Falstaff in Marco Arturo Marelli's production at the Staatsoper. The Wiener Staatsoper (Vienna State Opera) is a repertory opera house where good productions are revived for several years, even decades. In this year's program are some sixty titles, including ballet and children's operas, with a dozen being new productions. This Falstaff had its début in 2003 but still attracts audiences and, most likely, will continue to be performed several times each year for some time. On the evening of 22 February 2010, the house was packed with an audience from every age bracket and social condition.

Ambrogio Maestri in the title role of Verdi's 'Falstaff' at Vienna State Opera
Ambrogio Maestri in the title role of Verdi's 'Falstaff' at Vienna State Opera

For Zeffirelli, as pointed out a month ago, Falstaff is a truly comic opera, full of gags, and with a very fast rhythm. In Zeffirelli's view, Verd's intention was to make the audience laugh. The rich sets and costumes are inspired from Elizabethan paintings; within such an elegant context, there is plenty of action ... maybe too much. Boito and Verdi did label Falstaff a 'lyric comedy in three acts', not a 'comic opera' or an 'opera buffa'.

Actually, Falstaff is a serious opera upside down or reversed: the ageing protagonist is looking at the intrigues of life with melancholy, irony and detachment. It is also the only Verdi opera where erotic expression has a role, but this is erotic expression as seen through the memory of the protagonist in his last attempt to seduce a woman. Melancholy, irony and detachment have no place in Zeffirelli's fast moving direction but are, in my view, central to most modern readings of the work. Marco Arturo Marelli (stage direction and sets) has an approach much closer to this modern reading of the opera. The stage sets and the costumes (Dagmar Niefield) are atemporal.

Jane Henschel as Mrs Quickly and Ambrogio Maestri in the title role of Verdi's 'Falstaff' at Vienna State Opera
Jane Henschel as Mrs Quickly and Ambrogio Maestri in the title role of Verdi's 'Falstaff' at Vienna State Opera

The protagonist and his two servants are in Elizabethan attire, but all the others are in twentieth century clothing -- Mrs Quickly has a purple Queen Mother afternoon suit. The stage set is an inclined platform: with a few props, it becomes Windsor, Alice's living room and the forest. It opens up to became the tavern. Thus, timings for changing sets are minimal. The action is swift but also covered by melancholy of time (and youth) past.

Krassimira Stoyanova as Alice Ford and Ambrogio Maestri in the title role of Verdi's 'Falstaff' at Vienna State Opera
Krassimira Stoyanova as Alice Ford and Ambrogio Maestri in the title role of Verdi's 'Falstaff' at Vienna State Opera

The conductor, Asher Fish, also presided over the Rome Falstaff. Without Zeffirelli's gags and voiceless old protagonist, he did an excellent job in showing all the nuances of Verdi's score, including the anticipation of twentieth century music, for example in the final fugue.

Ambrogio Maestri in the title role of Verdi's 'Falstaff' at Vienna State Opera
Ambrogio Maestri in the title role of Verdi's 'Falstaff' at Vienna State Opera

The protagonist is Ambrogio Maestri; at forty, his is a perfect Falstaff, both vocally and scenically. The group of the ladies was just superb: Krassimira Stoyanova, Teodora Gheorghiu, Jane Henschel and Nadia Krasteva. The gents were also high quality: Boaz Daniel, Gergely Németi, Benedikt Kobel, Herwing Pecoraro and Janusz Monarcha.

Keep an eye on Romanian soprano Teodora Gheorghiu ... she will go far.

Copyright © 28 February 2010 Giuseppe Pennisi,
Rome, Italy

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GIUSEPPE VERDI

FALSTAFF

VIENNA STATE OPERA

VIENNA

AUSTRIA

ITALY

ROMANIA

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DUAL PERSONALITY? Music & Vision February 17

Music and Vision homepage


DUAL PERSONALITY?

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In the 20th anniversary year of Bernstein's death,
GIUSEPPE PENNISI writes about
Italy's homage to Lenny



Leonard Bernstein passed away on 14 October 1990. He was born on 25 August 1918 in Lawrence, Massachusetts, into a wealthy Jewish family which had emigrated from Rovno, then in Poland but today in Ukraine. He was among the first conductors born and educated in the United States of America to receive worldwide acclaim. He was probably best known to the public as the longtime music director of the New York Philharmonic, for conducting concerts given by many of the world's leading orchestras, and for writing the music for West Side Story, Candide, Wonderful Town and On the Town.

Bernstein was the first classical music conductor to make numerous television appearances, perhaps more than any other, all between 1954 and 1989. He had a formidable piano technique, and as a composer wrote many types of music from Broadway shows to symphonies. According to The New York Times, he was 'one of the most prodigally talented and successful musicians in American history'. However, he was not quintessentially American. As documented in a book recently published in Italy (Leonard Bernstein: un'anima divisa in due by Alessandro Zignani, Zecchini Editore, 2009), Bernstein had a split personality deeply rooted in his dual culture: a sophisticated European (and erudite Latinist) and a true yankee.

Leonard Bernstein conducts 'La bohème'
Leonard Bernstein conducts 'La bohème'

Bernstein was profoundly attached to Italy. He was the honorary chairman of one of the most important Italian musical institutions (the Accademia Nazionale di Santa Cecilia) from 1984 until his death, one of the most frequent and most appreciated conductors at La Scala, San Carlo and many other opera houses. He was a great and close personal friend of the Head of State, Sandro Pertini, and he was proud, almost ostentatious, in wearing his decoration of Cavaliere di Gran Croce della Repubblica -- the highest knighthood awarded in Italy.

Bernstein on Lexington Avenue
Bernstein on Lexington Avenue

And the Italians loved Lenny. For this reason, the twentieth anniversary of his death is being celebrated with many initiatives throughout the Italian musical world. The two most important are a major memorial concert, repeated 13-16 February at the main auditorium of the Accademia Nazionale di Santa Cecilia, and a co-production of Candide by four Italian teatri di tradizione -- provincial historical theatres, mostly supported by local governments -- those of Lucca, Livorno, Pisa and Ravenna -- as well as three theatres in Poland (the most important being the Poznam Opera House).

Leonard Bernstein
Leonard Bernstein

The Candide tour also started on 13 February, and will extend through March in Italy and visit Poland later in the Spring. Candide has been seen and listened to several times in Italy during the last few years, at La Scala in Milan, San Carlo in Naples and in two different productions in Rome (Accademia Nazionale di Santa Cecilia in a semi-staged version and Teatro Argentina in a US west coast production by Pacific Opera). This is the first time that this satire of the 'American way of life' in the 1950s and its mix of operetta, comic opera, terrific coloratura singing and brilliant musical solutions, is being seen and listened to in provincial Italian theatres. The company -- singers and conductor -- is very young, but the stage director is the very experienced Micha Znaniecki, the stage sets are signed by Luigi Scoglio (well known in Italy), and the costumes by Kornelia Piskorek. The production has all the signs of being worth a trip and a review in Music & Vision.

The Orchestra of the Accademia Nazionale di Santa Cecilia, conducted by Antonio Pappano. Photo © 2007 Riccardo Musacchio
The Orchestra of the Accademia Nazionale di Santa Cecilia, conducted by Antonio Pappano. Photo © 2007 Riccardo Musacchio

Let us focus on the homage the Accademia Nazionale di Santa Cecilia gave to its longtime honorary chairman. This reviewer was at the 13 February 2010 opening performance. Under the baton of Wayne Marshall, the orchestra discovered Lenny's dual personality very well: the program juxtaposed the American vitality of the dances from West Side Story with the mysticism of the Chichester Psalms, the experimentalism of Prelude, Fugue and Riffs and the European ironic flair of the suite from Candide.

Wayne Marshall. Photo © Edgar Brambis
Wayne Marshall. Photo © Edgar Brambis

Wayne Marshall had a very 'jazzy imprint': for example, he emphasized the connection between the scores and jazz. Also, he was working with a much larger orchestra than those normally associated with performances of West Side Story and Candide, especially those for Broadway theatres. The singers were chosen from within the Santa Cecilia company and not one of them was a native English or American speaker, so there were some diction problems. In general, however, the memorial concert was reasonably good. It's worth mentioning the group of the brass instruments: Marshall demanded a lot from these brass instrumentalists, and they responded quite well.

Copyright © 17 February 2010 Giuseppe Pennisi,
Rome, Italy

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LEONARD BERNSTEIN

WEST SIDE STORY

CHICHESTER PSALMS

CANDIDE

ITALY

UNITED STATES OF AMERICA

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sabato 20 marzo 2010

Mefistofele e Tannhauser non lasciano il segno , Milano Finanza 20 marzo

Mefistofele e Tannhauser non lasciano il segno
Di Giuseppe Pennisi

Inscena
Due opere le cui vicende si svolgono nello stesso periodo (il tramonto del Medioevo e l'inizio del Rinascimento) e che trattano temi affini, ossia la lotta tra Bene e Male sono in scena contemporaneamente a Roma fino al 24 marzo e a Milano, fino al 2 aprile. Mefistofele di Boito torna al Teatro dell'Opera dopo 50 anni e Tannhauser di Wagner segna il rientro, dopo 32 anni, di Zubin Mehta alla concertazione di un'opera alla Scala. Per l'ateo Boito, il Bene vince grazie all'operosità di Faust pur se immerso in un mondo diabolico. Per il luterano Wagner il perdono è concesso dalla Grazia divina al protagonista, sinceramente pentito. Nei due allestimenti imperversano le proiezioni computerizzate; l'azione di Mefistofele e Tannhauser è spostata rispettivamente dall'Assia e dalla Turingia del 1300 alla Lombardia della scapigliatura e all'India di Bollywood. Freddo il pubblico romano, non pochi i fischi dal loggione della Scala. Sotto il profilo musicale a Roma eccellono la direzione di Palumbo, il coro e il giovane protagonista Anastassov, mentre risultano incolori gli altri. A Milano è poco compatta e poco intensa la direzione di Mehta, di grande livello invece le due protagoniste femminili (Harteros e Gertseva), mentre quello maschile, Dean Smith, è in difficoltà con gli acuti in specie al secondo atto e l'amico più stretto Wolfram, cantato dal baritono Trekel, ha una buona voce, ma volume piccolo. (riproduzione riservata)

giovedì 18 marzo 2010

Opera, torna in Italia il “Mefistofele” (con spinello) di Boito Il Velino 17 marzo

CLT - Opera, torna in Italia il “Mefistofele” (con spinello) di Boito


Roma, 17 mar (Velino) - Torna dopo decenni sui palcoscenici del nostro Paese “Mefistofele”, l’unica opera completata da Arrigo Boito (1842-1918) che sembrava definitivamente uscita dai cartelloni dei teatri italiani. Nonostante sia di frequente allestito all’estero, negli ultimi venti anni in Italia “Mefistofele” è stato visto ed ascoltato solo sei volte: alla Scala, a Genova, a Macerata, a Torino (dove peraltro non è stato curato un nuovo allestimento, ma ne è stata importata una produzione del War Memorial Opera di San Francisco), a Chieti e a Palermo. Nel 2005 Riccardo Muti ne ha diretto una versione in forma di concerto al Ravenna Festival e nel 2009 Antonio Pappano ha presentato il “Prologo in Cielo” nella stagione dei concerti dell’Accademia di Santa Cecilia. Uno dei più noti critici d’inizio Novecento, Gustav Kobbe, autore di una monumentale enciclopedia dell’opera ancora periodicamente aggiornata, ha scritto profeticamente che “Mefistofele” è “una delle opere più profonde del repertorio lirico ed una delle più belle partiture mai scritte in Italia, pur se raramente rappresentata nel Paese d’origine”. Più di recente, Guido Salvetti l’ha definita “inimitabile” e ha sottolineato quanto Puccini e Giordano siano tributari di questo “unicum ancor oggi problematico e controverso”. Cosa spiega il ritorno di “Mefistofele” in questo primo scorcio di XXI secolo? Le determinanti musicali relative alla riscoperta del capolavoro perduto, o secondo alcuni “maledetto”, si accavallano su determinanti politiche ed economiche.

“Mefistofele è l’unica, tra le tante opere ispirate dal “Faust” di Goethe, che si pone l’obiettivo di mettere in musica sia la prima sia la seconda parte degli oltre dodicimila versi. Intende dare corpo non tanto alla vicenda passionale trattata, ad esempio, da Gounod, (tra Faust ringiovanito grazie al patto con il diavolo Mefistofele e l’innocente Margherita), ma alla ricerca del significato della vita, da trovarsi grazie alla Fede. È un lavoro monumentale in cui si spazia da un prologo in Cielo, alla Germania del Medioevo, dall’orgia dei diavoli all’Inferno, alla Grecia classica fino ad approdare alla catarsi finale. La versione iniziale (presentata alla Scala nel 1868) durava circa sei ore. Si esegue di norma quella rivista dallo stesso Boito per Bologna (1875) di circa tre ore e mezzo, intervalli compresi. Rompe tutti i canoni dell’opera italiana della seconda metà dell’Ottocento. La partitura è ardita (specialmente se giudicata nel contesto dei teatri italiani del 1868-80, dominati dal melodramma verdiano e, anzi, dagli epigoni del maestro di Busseto). È un vero e proprio strappo con una tradizione musicale allora isolata dalle correnti europee: introduce nell’opera italiana lezioni tratte da Beethoven e da Wagner, nonché da Chopin e da Schubert. In effetti, mentre i francesi (Gounod nel “Faust” e Berlioz ne “La damnation de Faust”) hanno dato una lettura perbenistica, ove non moralistica, del mito, il senso del capolavoro di Goethe è stato colto bene nella sinfonica tedesca (la “Faust symponie” di Liszt, l’“Ouverture Faust” di Wagner, l’“Ottavia Sinfonia” di Mahler), ma solo due compositori italiani sono riusciti, in modo molto differente, a portarlo in scena recependo alcuni dei messaggi essenziali del poeta di Weimar: Arrigo Boito, per l’appunto, con “Mefistofele” (nel 1868-1875) e Ferruccio Busoni in “Doktor Faust” (nel 1925), tratto, peraltro, da Marlowe piuttosto che da Goethe.

Tuttavia, non solo Boito, leader del movimento culturale milanese che sul finire dell’Ottocento faceva riferimento alla “Scapigliatura” come elemento di distinzione dall’intellighenzia dominante, ha avuto l’ambizione di ridurre in teatro in musica il succo del capolavoro di Goethe, ma lo ha intitolato non al vecchio scienziato, Faust, che stringe un patto con il diavolo, ma al dèmone: Mefistofele. Non è mero sotterfugio dipingere le due anime di Mefistofele (e dare loro significato universale astorico), così come Goethe era penetrato nelle due anime di Faust (e aveva dato loro significato universale ed astorico). In un passaggio importante del lavoro di Goethe, peraltro, non ripreso in nessuna delle versioni in dramma in musica, Faust parla e a lungo, delle sue due anime che lo tirano in due direzioni opposte e non conciliabili. Boito, rivoluzionario come lo può essere un conservatore della Destra storica (legato, inoltre, per un decennio ad Eleonora Duse) nell’epoca in cui, prima, si preparava e, poi, si attuava, il trasformismo dei governi Depetris, vuole invece scavare nelle due anime di Mefistofele: il più bello, il più intelligente, il più ambizioso degli angeli, respinto dal Cielo perché sfida Dio (prologo) e impegnato a dannare il più saggio degli uomini, Faust, portandolo a sedurre la più innocente delle donne, Margherita, e a partecipare alla più sfrenata delle orge (primo e secondo atto), a farla condannare al patibolo per matricidio ed infanticidio (terzo atto), a dargli la possibilità di fornicare con la più avvenente e più peccaminosa delle regine, Elena di Troia (quarto atto). È, però, distrutto, anzi annientato, dal pentimento di Faust e dalla commiserazione celeste (epilogo). Scavare nelle due anime di Mefistofele, una tesa versa una bellezza e un’ambizione che si trasformano da Bene in Male proprio perché senza freni e senza limiti, e una tesa invece verso la corruzione (altrui) e verso la dannazione eterna (propria), ha aspetti sia filosofici, sia politici, sia economici.

Sotto il profilo filosofico, lo evidenziarono il musicologo americano Gwin Morris e il basso Norman Triegle in alcuni scritti d’inizio anni Settanta, quando “Mefistofele” venne allestito dalla New York City Opera in una produzione che riscosse un successo che fece impallidire Broadway e portata in tournée in diversi stati Usa, il lavoro vuole rappresentare l’eterna tensione tra il Bene ed il Male, con la vittoria finale del primo. Anche “Nerone”, seconda opera di Boito che non riuscì mai a completare nonostante ci avesse cominciato a lavorare sin dal 1865, riprendeva questo tema giustapponendo la decadenza romana con l’alba del Cristianesimo. Il confronto, si badi bene, è molto più diretto di quelli tra “falchi” e “colombe” o tra “erodiani” e “zeloti” del “Don Giovanni”: non riguarda solamente le “regole” (e i tempi e i modi della modernizzazione), ma l’essenza stessa del significato della vita e della trascendenza. Mentre, tra “falchi” e “colombe” o tra “zeloti” ed “erodiani”, un punto di incontro e di compromesso si può trovare, le due anime di Mefistofele sono inconciliabili. Nell’attuale contesto politico-sociale italiano le due anime di Mefistofele sono al centro delle tensioni che caratterizzano il tentativo in atto da circa un ventennio di cambiare le regole. Non solo quelle scritte, esplicite, ma soprattutto quelle (molto più cogenti) non scritte, implicite, tali da plasmare i comportamenti degli agenti economici (individui, famiglie, imprese, pubbliche amministrazioni). Lo diceva quel “briccone” di Boito a un’Italia politica che viaggiava verso il trasformismo e ad un’Italia musicale che si rintanava nel melodramma tardo verdiano, chiudendosi all’innovazione (ove non rivoluzione) che veniva dall’altra parte delle Alpi.

Per quanto riguarda lo spettacolo, “Mefistofele” richiede enormi mezzi scenico-vocali e grande fantasia. La seconda non è mancata né nella ricca edizione vista nel 2009 al Teatro Massimo di Palermo, né in quella che partendo da un teatro considerato minore della Grande Mela (la New York City Opera) fece il giro negli Usa nella seconda metà degli anni Settanta con un’edizione necessariamente poco spettacolare. Il Teatro dell’Opera di Roma è in serie difficoltà finanziarie. Quindi punta a un tentativo originale: una scena unica (molto simile a quella del “Guglielmo Tell” scaligero di tre lustri orsono) integrata con proiezioni computerizzate di bozzetti predisposti da Camillo Parravicini negli anni Cinquanta per uno spettacolo mai realizzato. I bozzetti di Parravicini sono integrati con altro materiale chiaramente più recente. L’effetto complessivo è buono pur se ci sono tre difetti: la regia di Filippo Crivelli è adatta a un romanzo televisivo anni Sessanta, tanto edificante da essere quasi per educande, privo dell’atmosfera macera e peccaminosa intrinseca nell’opera (nell’orgia il massimo della trasgressione sono i diavoli e le diavolesse che fumano gli spinelli); il tenore che interpreta Faust, Stuart Niell, non ha il fisico del ruolo ed è goffo in scena; la mancanza di sovrattitoli, essenziali per un’opera poco nota e complessa, che si sarebbero potuti noleggiare dall’edizione di Palermo. Sotto il profilo musicale, gli elogi vanno a tre elementi: Renato Palumbo e l’orchestra hanno sprigionato il senso dell’ardua partitura, dandole il colore adatto per fondere il leit motive e il sinfonismo wagneriana con la tradizione melodica del melodramma italiano; i due cori, quello del Teatro diretto da Andrea Giorgi e quello di voci bianche guidato da José Maria Sciutta, veri co-protagonisti del lavoro; Orlin Anastassov nel ruolo del protagonista, dal timbro chiarissimo e perfetto attore (anche se la dizione era imprecisa nel registro di centro – una ragione in più per avere sovrattitoli). Stuart Neill non solo è goffo, ma ha spesso cantato in falsetto, con esiti non positivi specialmente nell’aria iniziale, nel quartetto del secondo atto e nel duetto del terzo. Amarilli Nizza ha lasciato a desiderare nel quartetto ma si è ripresa nella scena della prigione e nel quarto atto: dovrebbe curare maggiormente i ruoli che sceglie e forse ridurre gli impegni per non affaticare la voce.

(Hans Sachs) 17 mar 2010 15:39

mercoledì 17 marzo 2010

IL PARADOSSO DEI GIOVANI SEMPRE PIU’ DISOCCUPATI Avvenire 17 marzo

IL PARADOSSO DEI GIOVANI SEMPRE PIU’ DISOCCUPATI
Giuseppe Pennisi
Nella prima decade del Terzo Millennio, in Europa l’occupazione è aumentata a tassi mai sperati dalla fine del miracolo economico: nell’Unione Europea a 15 (Ue-15), l’incremento degli occupati è stato circa del 10%, in Spagna ed Irlanda ha rispettivamente sfiorato il 30% e superato il 25%; soltanto in Danimarca (4%) ed in Portogallo (3%), è stato contenuto (ma si tratta di due Paesi piccoli e alti tassi d’attività per la popolazione tra i 15 ed i 65 anni). Ciò nonostante, i giovani cercano lavoro senza trovarlo.
Nell’Unione Europea a 25 (Ue-25), appena il 37% di coloro tra i 15 ed i 24 anni sono occupati – la gamma di variazione è molto ampia , dal 68% nei Paesi Bassi al 21% in Ungheria. I giovani hanno in parte beneficiato del favorevole ciclo occupazionale: nel 2007 , nell’Ue-25 il tasso disoccupazione giovanile era sceso al 15, 3%, ma secondo i più recenti dati di Eurlife (la Fondazione Europea sulle condizioni di vita – un’agenzia Ue con sede in Irlanda) è di nuovo sul 18% - in alcuni Paesi dell’Europa centrale (Polonia, Slovenia, Slovacchia) sfiora il 30%.
Anche se una delle ragioni del basso tasso d’attività dei giovani in Europa è l’espandersi delle opportunità di istruzione e di formazione, occorre chiedersi quali sono le determinanti che frenano l’occupazione giovanile (nonostante i numerosi programmi specifici varati a questo scopo e la priorità data a questo obiettivo nell’allocazione dei Fondi strutturali europei). E’ uscita in questi giorni un’interessante analisi di Bruno Conti dell’Università di Torino ("Youth Employment in Europe: Institutions and Social Capital Explain Better than Mainstream Economics", disponibile, su supporto elettronico come IZA Discussion Paper No. 4718, IZA è l’acronimo dell’Istituto federale tedesco di studi sul lavoro). Lo studio, che spero sia presto pubblicato in italiano e dibattuto nel nostro Paese, offre una prospettiva relativamente nuova: il fenomeno non può essere spiegato con la cassetta degli attrezzi convenzionali degli economisti poiché numerose determinanti (invecchiamento della popolazione, denatalità, costo generalmente più basso del lavoro giovanile anche a ragione di sgravi fiscali-contributivi ed altri incentivi, flessibilità dei rapporti d’impiego, più alti tassi d’istruzione e di formazione, poca sindacalizzazione dei giovani) indurrebbero a stimare una riduzione della disoccupazione giovanile. Contini individua nell’economia neo-istituzionale spiegazioni migliori di quelle offerta dalla “triste scienza” tradizionale:”le regole informali del gioco”, i “valori”, il “capitale sociale” incidono più delle determinanti convenzionali sulla disoccupazione giovanile e sui dati ad essa pertinenti. Il fenomeno si presenta particolarmente grave in Paesi ed aree (si pensi al Mezzogiorno italiano) dove norme e regole sono poco osservate (e l’economia sommersa ha molto spazio), i valori sono vaghi ed incerti, c’è poco spirito associativo e capitale sociale, c’’è scarsa cooperazione e fiducia reciproca tra soggetti economici.
Quali le implicazioni di politica economica e sociale? Anche se Contini sostiene, con umiltà, che “ancora ne sappiamo troppo poco” (delle cause del fenomeno e, quindi, dei rimedi), credo che l’irreversibilità dell’unione monetaria (e delle regole implicite ad essa connesse) possa essere un grimaldello (quanto meno in aree come il nostro Mezzogiorno) per cambiare strada più efficace delle numerose mezze misure varate negli Anni 90 ed ancora in atto.

martedì 16 marzo 2010

Derivati: e se mutuassimo la regolazione dalla Cina popolare? Il Velino 16 marzo

Derivati: e se mutuassimo la regolazione dalla Cina popolare?

Roma, 16 mar (Velino) - Credit default swaps (Cds) e Hedge funds (Hf) sono sul banco degli accusati: in questi giorni in sede europea e tra qualche settimana lo saranno alla riunione primaverile del Fondo monetario internazionale (Fmi) dove la loro ri-regolamentazione sarà uno dei temi principali dell’agenda di ministri e di Governatori di Banche centrali. Sono sul tappeto le proposte più varie e più variegate: ad esempio, troneggia sulle scrivanie del Tesoro Usa (alcuni dicono anche su quelle della Casa Bianca), un volume, appena arrivato nelle librerie, di Mark Hsiao della Università di Londra (Financial Regulations and Derivatives, Trust and Securitisation in China, Carswell Thomas Reuter) in cui si propone, in linguaggio piano e chiaro, che gli Stati Uniti (e gli altri) prendano esempio dalla regolazione in atto nella Repubblica Popolare Cinese, dopo un faticoso percorso iniziato negli Anni 80 (e peraltro in corso). Una lettura attenta del testo suggerisce che nella Repubblica Popolare si tenta di coniugare, con il bilancino giuridico e finanziario, dirigismo con libertà d’innovazione. Un matrimonio non certo facile ma in parte riuscito a ragione della dimensione relativamente modesta, nell’Impero di Mezzo, del mercato dei derivati in generale e di quello dei Cds e degli Hf in particolare. Ove mai la delegazione americana pensare di portare una proposta delineata sul “modello cinese” al tavolo Fmi od a quello del G20 basterebbe questo argomento per affossarla.

Nel contempo, tuttavia, in Europa (e nel resto del mondo) si è ancora lontani non soltanto da idee chiare ma anche dall’avvio delle tre nuove agenzie che dovrebbero migliorare la vigilanza sui mercati mobiliari, la valutazione del rischio sistemico e la supervisione sulle aziende specializzate in rating. Eddy Wymeersch dell’Istituto di Diritto Finanziario dell’Università di Ghent ha appena tracciato un bilancio per le istituzioni Ue (Ghent Financial Law Institute Working Paper 2010-01). La conclusione può sembrare banale (far decollare le tre agenzie ed assicurarsi che partano bene prima di arrovellarsi su altro)ma è piena di buon senso, specialmente se ci si accosta ai complessi nodi giuridici relativi ai derivati con un sottostante di natura creditizia – specialmente i Cds ma anche numerose forme di Hf. Lo spiega con grande chiarezza M. Todd Henderson della Facoltà di Giurisprudenza dell’Università di Chicago: i derivati creditizi non sono una forma di assicurazione (anche se alcune tipologie vi assomigliano e molte proposte sul campo mutuano un’eventuale regolamentazione internazionale da quelle vigenti per le assicurazioni, si pensi all’agenzia Miga del gruppo della Banca mondiale) a ragione principalmente della natura dell’emittente (nelle assicurazioni sono le compagnie ad emettere il contratto). Una soluzione possibile (ma non priva di problemi) sarebbe, secondo Henderson, quella di creare una centralized clearing house (una stanza di compensazione centralizzata); è quanto avviene in Cina (si torna, quindi, all’ultimo barlume che sembra affascinare parte dell’amministrazione Usa). Ciò che è possibile all’interno di un Paese pur grandissimo e popolassimo ma con un mercato finanziario di modeste dimensioni, è difficilmente praticabile a livello internazionale.

Non è incoraggiante neanche Jan A. Kregel, uno dei whiz kids del Centro Studi Confindustria negli Anni 80 e successivamente a lungo all’Università di Bologna, prima di tornare negli Usa. Considerato uno dei vati post-keynesiani, dovrebbe guardare con occhi positivi non solo alla regolazione dei derivati ma anche ai tentativi in atto negli Usa di tornare ad una distinzioni tra banche commerciale, banche d’investimento ed altre forme di servizi finanziari. Il suo lavoro più recente (Levy Economics Institute Working Paper N. 586) è apodittico: la normativa americana del 1999 (da molti considerata una delle determinanti del marasma che ha portato alla crisi finanziaria) ha meramente “ufficializzato l’abrogazione di separazioni e tutele varate negli Anni 30 e non più al passo con i tempi”.

Quindi, tutte le strade (o quasi) sono chiuse? Ci sono due percorsi virtualmente non esplorati e che vale la pena approfondire. In primo luogo, invece, di tentare quadrature del cerchio tramite il diritto finanziario internazionale, occorre constatare che la regolazione già in vigore è così pesante che induce a sfuggire alla ricerca di intermediari non regolati e difficilmente regolabili ed affrontare, invece, il nodo di come le banche trattano l’incertezza (e delle possibilità di uniformare i differenti approcci); questa strada potrebbe essere utile nel prevenire nuove crisi. Il secondo percorso prende l’avvio dai grandi investimenti pubblici (con partecipazione privata), quali le reti trans-europee potrebbero essere il grimaldello per una ri-regolazione, almeno su base europea. Sovente investimenti di questa natura hanno un valore economico significativo per la collettività nel lungo periodo ( si pensi ad una gamma che va dalla tutela e valorizzazione del patrimonio artistico e paesaggistico alla televisione digitale terrestre), ma possono avere risultati finanziari insoddisfacenti (per i partner privati) nel breve periodo. In passato, il divario veniva colmato da varie forme e guise di aiuto di Stato – oggi non più contemplabile a ragione non solo della normativa Ue ma anche dei vincoli di bilancio. Occorre, quindi, pensare a colmare il divario con la ri- regolazione; nazionale ed europea.

(Giuseppe Pennisi) 16 mar 2010 16:44

LA NUOVA EUROPA E L’EXIT STRATEGY DALLA CRISI INTERNAZIONALE Syntheisi febbraio

LA NUOVA EUROPA E L’EXIT STRATEGY DALLA CRISI INTERNAZIONALE
Giuseppe Pennisi
L’Europa cambia. Il primo dicembre è entrato in vigore il Trattato di Lisbona che introduce importanti innovazioni istituzionali (le votazioni a maggioranza per le materie di competenza Us, un sistema di co-decisione tra Consiglio dei Ministri e Parlamento Europeo).Il primo gennaio prendono possesso delle loro funzioni coloro che il Consiglio Europeo ha designato titolari delle due nuove cariche introdotte dal Trattato di Lisbona: il belga Herman Van Rompuy nella veste (per due anni e mezzo) di Presidente del Consiglio Europeo medesimo e la britannica Catherine Ashton in quella di Alto Rappresentante dell’Ue per la politica estera e di sicurezza comune. In gennaio, i componenti della nuova Commissione Europea si presenteranno al Parlamento Europea della cui fiducia hanno esigenza prima di iniziare ad operare.
Sarebbe sterile riprendere le polemiche sulle “nomine europee” e sul ruolo avuto più o meno incisivo avuto dall’Italia. Si deve guardare al futuro con ottimismo: Van Rompuy si è rivelato, in Patria, un ottimo negoziatore – la dote più importante per fare convergere 27 Stati molto differenti su posizioni comuni; Catherine Ashton rappresenta l’ala più moderna del socialismo europeo e ha (anche per ragioni di famiglia) una vasta rete di relazioni personali nella comunità internazionale. E’ utile ricordare quanto ha scritto in prima pagina il “New York Times” all’indomani delle nomine: il primo dovere dei nuovi leader europei è dare prova dell’unità del loro blocco.
Ciò è tanto più necessario poiché ci sono crescenti indicazioni della creazione strisciante di un G2 (Usa-Cina) come elemento apicale del G20 e, quindi, come pilota dell’economia mondiale, specialmente in questa fase di ricerca di una strategia di uscita dalla crisi finanziaria ed economica mondiale. Se ne sono visti segni eloquenti nella recente visita del Presidente degli Stati Uniti in Asia: un intesa molto al ribasso (rispetto alla attese, probabilmente eccessive, di alcuni) in materia di ambiente e clima ; un accordo implicito molto più sostanziale in materia di tasso di cambio (la moneta cinese verrà rivalutata gradualmente, ma leggermente, rispetto a quella Usa pur restando agganciata al “greenback” ). Mentre, al termine del vertice di Pittsburgh, i Grandi del G20 si congratulavano a vicenda, all’interno della delegazione Usa, si diceva che quello raggiunto è un equilibrio di Nash (dal nome del Premio Nobel, reso noto grazie al film A Beautiful Mind, che ha teorizzato equilibri dinamici, e quindi instabili). In seno alle delegazioni europee, invece, si faceva riferimento a una commedia settecentesca messa in musica da Antonio Salieri (Prima le parole, poi la musica), in altri termini se si potessero redigere le nuove regole mondiali sulla finanza (le parole) se non si fosse in precedenza risolto il nodo degli squilibri finanziari mondiali e dei tassi di cambio, specialmente del dollaro, di cui si teme un tracollo (la musica). Le due battute esprimono, in modo differente, lo stesso dilemma: è possibile un profondo riassetto delle regole in una fase in cui c è la minaccia di una tempesta valutaria? Nonostante gli appelli del Segretario al Tesoro Usa a favore di un dollaro forte, l’Amministrazione Obama continua a seguire ancora la politica del benign neglect (trascuratezza voluta) nei confronti del valore internazionale del dollaro, nonostante, con un debito totale interno (famiglie, imprese, settore pubblico) pari a tre volte il Pil il prossimo scossone finanziario potrebbe venire dall’estero (un dollaro a picco che provochi un ondata di sfiducia nonostante il quadro macro-economico paia migliorare). Il rapporto di cambio con la moneta unica europea si pone a 1,5 dollari per euro – livello che secondo il maggiore istituto di analisi economica tedesca (Diw Berlin) rappresenta il livello di soglia oltre il quale la sofferenza dell’export diventa eccessiva. In parallelo, uno studio ancora inedito di un giovane economista bolognese (ma di ruolo a Los Angeles) , Piero Cinquegrana, circola al ministero delle Finanze tedesco; nel lavoro, viene dimostrata la stabilità delle relazioni monetarie Usa-Cina nel lungo periodo. In aggiunta, le ultime stime di Angus Maddison, un economista che ha dedicato tutta la propria vita allo studio della contabilità economica nazionale, sostiene che in termini di parità di potere d’acquisto il Pil della Cina è pari all’80% di quello Usa (non al 50% come valutato dalla Banca Mondiale). Un rallentamento della crescita della Cina (inevitabile in caso di rivalutazione dello yuan) frenerebbe, quindi, l’intera economia mondiale, in una fase, per di più, delicatissima. Ciò, unitamente alle alte riserve in dollari Usa presso la Banca centrale cinese, spiega perché gli Usa non insistano più perché Pechino riveda le loro politiche valutarie e chiedono, invece, aiuto all’ Ue perché insista affinché l’Asia acceleri la propria crescita interna. Nell’Ue, però, nonostante la discesa in campo di Angela Merkel (più verbale che sostanziale) a favore del Lecce Framework , ossia del programma in gran misura italiano per modificare le regole della finanza internazionale, aumentano gli scetticismi sulla possibilità di effettuare cambiamenti radicali sino a quanto non si è definito un percorso per uscire dal crescente disavanzo dei conti con l estero Usa. Con tanti temi sul tappeto, un accordo a 20 è praticamente impossibile da raggiungere. Lo dimostra matematicamente un lavoro di Paul R. Masson e John C. Pattison della Joseph Rotman School of Management (si può chiedere a paul.masson@rotman.utoronto.ca, oppure a johnpattison@rogers.com ), il cui sunto troneggia sulla scrivania di Obama alla vigilia del G20. In tal senso, un eventuale G2 (che darebbe all’Europa un ruolo di comprimario nel processo decisionale mondiale) è figlio del G20.L’Europa stessa, però, sta facendo molto poco per darsi un ruolo maggiore: il confuso negoziato che ha portato alle “nomine europee” , la bagarre sulle poltrone europee al Fondo monetario e in Banca mondale, la disorientante strategia mediterranea e quella nei confronti dell ex-Urss, stanno dando al resto del G20 l’idea che la sigla Ue sia poco più di un sito web e di alcune tonnellate di carta intestata.
L’ormai ottantunenne, Stanley Hoffman dell’Università di Harvard, uno dei più noti specialisti di relazioni internazionali (molti hanno studiato sul suo libro “Gulliver’s Troubles” sulle difficoltà della politica estera Usa negli anni di Kennedy e di Johnson”, ha di recente dato alle stampe un saggio in cui si chiede se le relazioni transatlantiche (che hanno l’economia e la politica mondiale per 70 anni) sono “obsolete” od “ostinate”. Sta in gran misura alla nuova Ue dimostrare di essere un pilastro saldo della partnership e che la partnership medesima è centrale agli equilibri internazionali.