mercoledì 16 dicembre 2009

SE NON SI RIFORMA LA GIUSTIZIA, L’ITALIA RESTA AL PALO, Il Velino 16 Dicembre

SE NON SI RIFORMA LA GIUSTIZIA, L’ITALIA RESTA AL PALO
Giuseppe Pennisi
Daron Acemoglu è un giovane e simpatico economista turco-americano in odore di Nobel che insegna al M.I.T. Né Acemoglu né il M.I.T. possono essere considerati contigui al centrodestra italiano; verosimilmente, Acemoglu, così preso dai suoi studi, neanche sa di cosa si tratta. Federico Caffè è stato per decenni uno dei maggiori economisti italiani, capo di una scuola di pensiero che si è irradiata in tutte le maggiori università, collaboratore de Il Manifesto. Sparito improvvisamente prima che di Silvio Berlusconi si parlasse al di fuori di Milano2 e che il centrodestra venisse formato. Nessuno degli allievi di Caffè è noto per avere simpatie per l’attuale maggioranza. Hanno invitato Daron Acemoglu a pronunciare le “Federico Caffè Lectures” all’Università “La Sapienza”, uno degli eventi annuali più prestigiosi dell’ateneo , il 16 ed il 17 dicembre. Sala affollatissima di studenti e docenti.
Peccato che non c’era nessun esponente del partito dei magistrati che si oppone alla riforma dell’ordinamento giudiziario, alla separazione delle carriere tra pubblica accusa e giudici giudicanti ed alla fissazione di termini precisi per i processi. Avrebbero avuto molto da imparare dal buon Acemoglu e dalle “lectures” in onore di uno dei collaboratori più prestigiosi de Il Manifesto . La prima delle due lectures riguardava le prassi istituzionali, la seconda le oligarchie. Non si è parlato specificatamente del “caso giustizia” in Italia – troppo lontana dal M.I.T.. Ma di come cattive prassi giovano ad oligarchie e frenano la crescita economica.
Già nel lontano 1941, nel saggio Il nuovo processo civile e la scienza giuridica”, pubblicato nella Rivista di Diritto Processuale ,Piero Calamandrei (altra personalità che non può essere tacciato né di berlusconismo, se non altro per ragioni anagrafiche, né di vicinanza al centrodestra) aveva sottolineato come “l’eccessiva durata del processo” è “motivo di crisi” del sistema giudiziario e, quindi, delle libertà civili. Più di recente, il Premio Nobel per l’Economia Douglas North, nella sua opera principale molto diffusa in traduzione italiana (Istitutizioni, evoluzione istituzionale, andamento dell’economia) , ha sottolineato come l’aumento dei costi di transazione (derivante dalla durata eccessiva dei processi) sia un freno all’economia, pur se arricchisca alcuni (spesso membri dell’ordinamento giudiziario medesimo) tramite concordati extra-giudiziari.
Le citazioni potrebbe continuare. Sono note le continue severe critiche che ci vengono rivolte dalla Corte di Giustizia dei Diritti dell’Uomo di Strasburgo e dalla Corte di Giustizia Europea, nonché implicite nella analisi della Banca Mondiale e dell’Unctad (tutte organizzazioni distinte e distanti dalla nostre beghe) secondo cui la lunga durata dei procedimenti e la mancanza di chiara distinzione tra accusa e giudizi (tipica di tutti i Paesi civili) sono tra le determinanti principali dello scarso flusso d’investimenti privati dall’estero alla volta dell’Italia.
Ho difficoltà, da semplice economista, a comprendere perché molti magistrati si oppongono a proposta dirette a mettere l’Italia al passo con il resto dei Paesi Ocse. Ho , però una certezza: se ciò non avverrà resteremo al palo- lo stesso ufficio studi della Bce (altra organizzazione che poco ha a che fare con le nostre faccende) avverte che se non cambiamo il tasso di crescita massima del pil (nel dopo crisi) non potrà mai superare l’1,3% l’anno .

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