lunedì 7 dicembre 2009

Opera, la Scala porta “Carmen” al Ballarò di Palermo, 7 Dicembre

CLT - Opera, la Scala porta “Carmen” al Ballarò di Palermo


Roma, 7 dic (Velino) - La policy del Teatro alla Scala è di inaugurare la stagione la sera di Sant’Ambrogio in grande spolvero – i posti in platea e palco questa volta sono stati fissati a 2.400 euro l’uno –, con un’opera molto conosciuta, a differenza di altri teatri che puntano a una novità o a una rarità per l’Italia. Quest’anno la scelta del teatro milanese è caduta sulla “Carmen” di Georges Bizet, un’opzione accorta per tre ordini di motivi. In primo luogo, nonostante l’esito incerto alla “prima” nel lontano 13 marzo 1875, è una delle opere più popolari. Per decenni è stata in testa alle classifiche stilate nel concorso radiofonico abbinato alla stagione del Metropolitan di New York, è stata tradotta in tutte le lingue e continua a mietere successi nonostante la versione di solito rappresentata sia quella con i dialoghi parlati messi in musica da Ernest Guiraut, molto distante da quanto volle Bizet. In secondo luogo, “Carmen” è tassello essenziale nella storia della lirica per comprendere, in Francia, il passaggio dal grand opéra all’opéra lyrique e, in Italia, dal melodramma verdiano alla “giovane scuola” di Puccini, Cilea, Leoncavallo, Giordano e Mascagni. Appassionò anche Wagner che la ascoltò a Genova nel 1881. Ha un nesso solo labile con la cruda e violenta novella di Mérimmée da cui è tratta. La sensualità e l’eros (ignoti sia al grand opéra sia al melodramma ma destinati a diventare centrali nell’opéra lyrique e nella “giovane scuola”) vengono immersi in un colore musicale inconfondibile in cui pur mantenendo arie, duetti e concertati le singole scene sono contrassegnate da un pastoso continuo orchestrale. Infine, si presta non solo ad allestimenti spettacolari, come quello di Franco Zeffirelli per l’Arena di Verona (notissimo grazie a un fortunato dvd) ma anche a interpretazioni basate su impianti scenici essenziali.

È una scelta che ha, però, una conseguenza: dato che “Carmen” è una delle opere più rappresentate in tutto il mondo, un teatro come La Scala, che ambisce a un primato nazionale ed internazionale, deve proporne una produzione “straordinaria” (nel senso etimologico di fuori dall’ordinario) ed “esemplare” (che segni una pietra miliare per altri templi della lirica). Non è né “straordinario” né “esemplare” quanto si è visto e ascoltato nella sala del Piermarini venerdì 4 all’anteprima per i giovani e oggi all’inaugurazione tra autorità, smoking, pellicce e gioielli. La regia è affidata a Emma Dante, giovane star del teatro sperimentale e la scena unica a Richard Peduzzi. La città d’ambientazione, Siviglia, assomiglia a un quartiere povero di Palermo, più a Ballarò che allo Zen: “picciotti” in slip bianchi, piacenti e vogliose operaie in sottovesti ancora bianche, immagini sacre, preti, monache, altarini, processioni e anche servizi religiosi in scena. In breve, molti crocefissi e nessun toro. L’idea della morte pervade sin dall’introduzione a sipario alzato. L’ambientazione temporale è indefinita, più franchista che “carlista” (dal nome delle guerre che insanguinarono la penisola iberica nel XIX secolo. Lo spostamento di ambientazione e la presenza, costante, della morte sono spunti registici visti molte altre volte in allestimenti del capolavoro di Bizet. Quindi, nulla di “straordinario” o contestabile. Tuttavia, l’allestimento è infarcito, sino allo spasimo, di simboli soprattutto religiosi (la Dante deve essere o una “new born christian” o una anticlericale sfegatata stile fine Ottocento), di mimi, omaggi al neorealismo onirico pasoliniano, accenni alla lotta di classe (sic!) e via discorrendo. Il dramma passionale ed erotico si perde in tale confusione, nonostante la Dante aggiunga, al quarto atto, lo stupro di Carmen da parte di Don José, non previsto affatto dal libretto e, in effetti, del tutto gratuito, per épater les bourgeois. Attenzione: nella stessa novella di Mérimée, Don José non è il candido soldatino portato alla dissoluzione del libretto e dell’opera, ma un delinquente pluriomicida frequentatore di bordelli, ma non certo uno stupratore.

Indubbiamente, la direzione musicale di Daniel Barenboim ci fa ascoltare una “Carmen” differente da ciò che normalmente viene eseguito in teatri e sale di concerto. Viene utilizzata l’edizione critica di Robert Didion, con i recitativi parlati (non musicati e pasticciati nelle versioni tradizionali che seguono l’edizione Guiraut). Baranboim dilata i tempi (lo spettacolo dura 4 ore), ma offre un’orchestra dal suono rotondo e dà spazio ai solisti (indimenticabile il flauto nell’introduzione al terzo atto). Ha la tinta giusta di una Spagna vista da stranieri, specialmente quando, come ne la “Habanera”; Bizet cita altri compositori. Per essere straordinaria ed esemplare, però, la sua lettura richiede cantanti di livello, con una dizione perfetta del francese, con il fisico adatto e in grado di essere pure grandi attori. Erwin Schrott e Jonas Kaufmann, che pure in un’intervista ha espresso riserve sullo spettacolo, sono un Escamillo e un Don José rodati e pieni di esperienza. Il dvd del 2006 con Kaufmann, accanto a Caterina Antonacci, diretto da Antonio Pappano e con la regia di Francesca Zambello, dimostra cosa Kaufmann sia in grado di fare con un cast e una produzione appropriata. A Milano il bravo tenore non solo è alle prese con i simboli della Ballarò di Emma Dante, ma la sua Carmen è Anita Rachvelishvili, uscita fresca fresca dall’Accademia della Scala. Ha bella presenza e grandi capacità interpretative , ma deve crescere. Lo si avverte già dalla “Habanera”, passata peraltro inosservata, dove l’alternanza tra re maggiore e re minore viene presentata in modo sbiadito. La Rachvelishvili ha il potenziale per diventare una Carmen di livello tra alcuni anni. Era il caso di esporla al pubblico della Scala? Specialmente se in coppia con il proprio fidanzato, Riccardo Massi che “copre” Kaufmann quando quest’ultimo non può partecipare allo spettacolo, come è avvenuto, causa influenza, all’anteprima. Pure Massi viene dall’Accademia: è goffo in scena, ha un timbro poco gradevole, un volume insufficiente per le dimensioni e – diciamolo con franchezza – la pessima acustica della Scala. Ha dell’incredibile che per un’opera così rappresentata, il tempio milanese non abbia trovato un cover di livello e abbia inviato al vero e proprio massacro il povero Massi.

Pure il resto del cast è, in gran parte, giovane. La Micaela di Adriana Damato è un soprano lirico dal timbro chiaro, ma ha una voce piccola: si forza nell’aria del terzo atto gridandola tutta. Buono il resto del cast, specialmente i numerosi caratteristi, in particolare Michèle Losjer e Adriana Kucerova. Lodevole anche la dizione francese di quasi tutti, pur se Rachvelishvili e Massi mostrano di richiedere ancora lezioni di pronuncia. Un giudizio finale? Se non ci fossero Barenboim e l’orchestra scaligera, una “Carmen” siffatta, più che per la Scala, sarebbe adatta per Modena o Piacenza, teatri “di tradizione” che non hanno l’ambizione di essere il “Teatro Nazionale” della Repubblica.

(Hans Sachs) 7 dic 2009 18:37

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