CLT - Roma, la musica elettronica omaggia il Grande Raccordo Anulare
Roma, la musica elettronica omaggia il Grande Raccordo Anulare
Roma, 4 dic (Velino) - Non era piena l’aula magna dell’università’ di Roma La Sapienza, martedì scorso, quando il gruppo Mev (Musica Elettronica Viva) ha presentato il lavoro “Grande Raccordo Anulare”. Chi è intervenuto al concerto e, a maggior ragione chi ha marcato visita, ha pensato che si sarebbe trovato alle prese con un gruppo di ragazzi scatenati e cacofonia ad altissimi decibel. I tre protagonisti, invece, sono nati rispettivamente nel 1939, Frederic Rzewski e Richard Teitelbaum, e nel 1965, Alvin Curran, il più giovane, che in tempi relativamente recenti si è unito agli altri due. Rappresentano il “cuore” della live electronics classica che, pochi lo sanno perché quella splendida stagione è stata coperta da una spessa coltre di oblio, ha avuto in Roma, negli anni ‘60, uno dei punti centrali. All’epoca, anche in quanto attirati dai festival Avanguardia Musicale, organizzati dall’Accademia Filarmonica, vivevano, suonavano e soprattutto sperimentavano nella Capitale, tra gli altri, Maurice Kagel, Vittorio Gelmetti, Luc Ferrari, David Bernham, John Phetteplace, Allan Bryant, Robnert Ashley, Cornelius Cardew, Alvin Lucie, Ivan Vandor oltre a naturalmente Rzewski e Teitelbaum. Roma era un luogo entusiasmante per chi voleva andare “oltre Darmstdat” e, in parte, vi si ponevano le basi di quello che sarebbe diventato l’Ircam di Parigi. Chi in quegli anni era appassionato di musica “colta” contemporanea e viveva a Roma, si sentiva al centro del mondo, anche se lo guardavano come fosse matto.
Rzewski, Teitelbaum e Curran hanno avuto splendide carriere sia concertistiche che accademiche non solamente negli Stati Uniti ma anche in Europa (i primi due hanno lauree Honoris Causa alle università di Berlino, Liegi e premi raccolti anche in Giappone). Sono tornati per un concerto a Roma, in maglione, senza “cravatta bianca” come usavano circa 45 anni fa, per presentare con “Grande Raccordo Anulare”, un commosso e commovente omaggio alla Capitale. Un piano, due tastiere per sintetizzatori elettronici, echi di voci dell’epoca su nastri stereofonici: il Gra, allora da pochi anni inaugurato, è il contenitore della Roma della loro giovinezza, delle improvvisazioni elettroacustiche, della fusione tra strumenti convenzionali (il pianoforte a coda) e suoni elettronici su nastro. Struggenti i “pianissimo” densi di nostalgia. Mai chiassosi i rumori del Grande raccordo. Spettacolo bellissimo che s’inserisce in una serie di serate organizzate dall’Istituzione universitaria dei concerti (Iuc) dedicati alla musica contemporanea. C’erano molti giovani (il biglietto per gli studenti è di 8 euro).
Chi, per ragioni anagrafiche, non ha vissuto quel periodo vi si può accostare leggendo le memorie di Marjorie Wright, “La Wright, una cantante fuori dal comune”, (Zecchini editore), a cui l’associazione Mario del Monaco e la rivista Musica hanno conferito, a Venezia, il Leon d’Argento alla carriera. Notissima nel mondo italiano della musica contemporanea degli anni ‘70 e ‘80 – ha diviso la sua vita tra la trasteverina via della Luce e le stradine della Milano antica nei pressi della Scala – è stata per due decenni l’interprete preferita di Dallapiccola, Sciarrino, Panni, Guaccero, Bussotti, Scelsi, Pennisi a ragione della sua capacità di acuti spericolati. Nata nell’Irlanda del Nord, ma culturalmente italianissima, lasciò il Belpaese a ragione di una serie di intrighi legati al complicato mondo della Scala. Sperava nel West End, dove finì, invece, a fare la commessa da Harrod’s e la cameriera presso spocchiose “nuove ricche”. Per riemergere, non più come soprano iperacuto, ma come contralto acuto, prima, allietò le crociere di lusso della Queen Elizabeth 2 e poi creò un one woman show(“How to Be a Bad Singer”) che furoreggia nel Regno Unito. La biografia della Wright ci svela, quindi, un’Italia dove, all’epoca di anni ricordati come quelli della “notte della Repubblica”, a Roma c’era un fervore d’innovazione e di sperimentazione pari solo a quello allora prevalente a New York. Le radici affondavano negli anni ‘30, come ricordato da Stefano Bigazzi nel libro “L’Orchestra del Duce” quando venne creato il Festival di Musica Contemporanea di Venezia come risposta polemica al paludato Festival di Salisburgo. In quell’epoca, Casella, Malipiero e Dallapiccola entravano e uscivano da palazzo Venezia in quanto Mussolini pensava, a torto o a ragione, di avere il bernoccolo della musica di avanguardia (glielo riconobbe Stravinskji in persona). Se ne parla poco, ma ancora oggi sperimentazione e contemporaneità hanno vita in Italia: tirando un bilancio di questo 2009, a Roma si sono eseguite più ore di musica contemporanea che a Berlino.
(Hans Sachs) 4 dic 2009 14:39
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