Serve un riassetto organico della materia, che si attende da troppo tempo
I bilanci delle authority:
una "reforma desaparecida"?
di Giuseppe Pennisi
In questi giorni i commentatori economici, della stampa finanziaria e non solo, stanno versando fiumi d’inchiostro sulle difficoltà di bilancio di alcune authority, e sulla relativa larghezza dei conti di altre. Una proposta presentata in Parlamento prevede che i fondi (attualmente versati dalle aziende e dagli enti “vigilati” per il funzionamento di ciascuna authority) vadano, invece, a costituire un fondo unico presso il ministero dell’Economia e delle finanze in modo che la mano politica lo eroghi a ciascuna authority secondo le esigenze. Si sono sollevate le solite “anime pie”, sostenendo che ciò sarebbe una forma larvata di socialismo semi-reale. La proposta è stata modificata; ora si prevede una perequazione di breve termine tra le authority a corto di cassa e quelle che, invece, galleggiano nella liquidità.
Tanto la prima quanto la seconda proposta rappresentano un’occasione mancata: le difficoltà finanziarie in cui si dibattono le authority dovrebbero essere utilizzate dal Parlamento per la “reforma desaparecida”: un riassetto organico della materia che si tenta da circa dieci anni, senza giungere a risultati concreti, perché ciascuna proposta è stata affossata da interessi particolaristici. Sarebbe un campo tecnico in cui, in passato, idee di maggioranza e di opposizione non sono state molto divergenti ed ora si potrebbe dare prova di spirito bipartisan mentre in altri campi infuriano polemiche acerrime e senza esclusione di colpi.
Andiamo con ordine. Il tema dovrebbe essere in cima ai programmi del governo poiché nel 2001-2006 si era lavorato a uno schema di disegno di legge e nel febbraio 2007 l’esecutivo guidato, per così dire, da Romano Prodi ha licenziato 22 articoli, in seguito, però, mai usciti dalla Commissione pertinente del Senato. L’obiettivo iniziale era, ed è, colmare vuoti di regolazione (principalmente nel campo di servizi a rete), semplificare l’architettura specialmente in materia di vigilanza finanziaria, adeguare ordinamenti, numero dei componenti e metodi di nomina. Attendendo tale riordino (si guardi il pur benevolo rapporto Ocse Italia - assicurare la qualità della regolazione a tutti i livelli di governo), autorità grandi e piccole a livello regionale (e in certi casi comunale) si stanno accavallando a quelle nazionali ed europee. Secondo alcune stime (approssimate per difetto) il solo costo alle imprese di fornire informazioni alla selva delle authority raggiunge i 40 miliardi di euro l’anno. A tale costo non corrisponde efficienza ed efficacia – men che meno una vera tutela dei mercati e di chi vi opera.
Un saggio di Simon Deakin della Università di Cambridge (Regno Unito) pubblicato sullo European Law Journal (Vol. 12, No. 4, pp. 440-454) mostra quanto sia serio il problema nell’ambito dell’Ue e della stessa unione monetaria. Da un lato, c’è il modello anglossassone di federalismo competitivo: lo Stato che ha le authority più efficienti (e meno ingombranti) è quello che cresce meglio e di più, come documenta, tra l’altro, con ricchezza di dati empirici un lavoro della Banca mondiale (Il World Bank Policy Research Working Paper No. 3623). C’è, poi, il modello dell’Europa continentale che, secondo Deakin, si basa sul «concetto, interamente europeo, di armonizzazione riflessiva» – ossia di mutuo riconoscimento di regolazione e di authority. Ciò comporta pure un processo di apprendimento e miglioramento graduale, che consente di evitare alcune rozzezze delle authority dei singoli Stati dell’Unione (negli Usa). È interessante notare che nel diritto societario europeo, il primo modello sta gradualmente entrando nel secondo e che tale processo ha avuto un’accelerazione dall’ampliamento dell’Ue da 15 a 27 Stati membri. Non è unicamente una congettura che le authority dei singoli Stati europei di domani (per le quali si programma con il ddl di oggi) e ancora di più le authority comunitarie si avvicineranno sempre più a un modello competitivo atlantico (come, peraltro, già sta avvenendo in materia di mercati finanziari e di Borse).Il nostro sistema rispecchia il “modello europeo”; il ddl Prodi lo avrebbe rafforzato ulteriormente. Uno studio fresco di stampa (Antonio La Spina, Sabina Cavatorto Le autorità indipendenti, Il Mulino 2008 pp. 400 € 30) da parte di due esperti non certo vicini al centro-destra (La Spina ha fatto parte della segreteria Ds della regione Sicilia) conduce una puntuale analisi empirica di quattro casi – Consob, Antitrust, autorità per l’Energia, autorità per le Comunicazioni. Pur evidenziando alcuni aspetti innovativi, il libro conclude che «il sistema italiano delle autorità indipendenti è lungi dall’essere compiuto». Un libro molto bello, appena pubblicato dalla Mit Press – The Paradox of Scientific Authority- The Role of Scientific Advice in Democracies di Wiebe E. Bijker, Roland Bal e Rudd Hendriks – esamina in dettaglio il funzionamento della authority di regolazione della salute nei Paesi Bassi per giungere a conclusioni più generali sull’interazione tra authority tecniche e democrazia parlamentare. Merita di essere letto e meditato. La crisi finanziaria internazionale – e le proposte di nuovi organi di regolazione sovranazionali – dovrebbe essere un ulteriore stimolo a mettere mano alla “reforma desaparecida” e, soprattutto, a darle corpo.
9 dicembre 2009
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