L'economia del terrorismo, una disciplina dalle potenzialità forse inattese
Ecco come gli economisti
possono combattere Al-Qaeda
di Giuseppe Pennisi
Soltanto pochi giorni fa, alla vigilia di Natale, prendendo spunto dall’attentato a Milano nei confronti del presidente del Consiglio, su Ffwebmagazine ho affrontato il tema del contributo che gli economisti possono dare alla lotta contro il terrorismo. Oggi, a cavallo quasi tra il 2009 ed il 2010, ritengo necessario tornare sul tema perché pochi sanno che da alcuni lustri i servizi anti-terrorismo dei maggiori paesi industrializzati a economia di mercato hanno “ruoli” specifici per economisti con il duplice scopo di individuare come il terrorismo si finanzia e utilizzare la strumentazione della disciplina economica per combattere il terrorismo. Le nuove indicazioni dell’esistenza di focolai terroristici in Europa, e anche in Italia, dovrebbero indurre a pensare all’istituzione di un apposito ruolo per gli specialisti di finanza e di economia al Viminale. Da tempo si sa che l’economia “sommersa” è una delle fonti privilegiate perché il terrorismo trovi finanziamenti anche in Europa (e in Italia in particolare, a ragione della dimensione del sommerso nel Pil). Un’analisi recentissima di Tolga Koker (Yale University) e Karlos Yordan (Drew University) traccia la geografia economica di un fenomeno poco studiato: la micro-finanza del terrorismo che spesso di annida in una rete articolata e molto diffusa (orchestrata da Al-Qaeda) dietro il paravento di fondazioni e associazioni ufficialmente a scopo caritatevole. Ciò non vuol dire – si badi bene – che tutte le moschee sono ruscelli che alimentano il fiume e il mulino di Bin Laden. Significa, però, che attorno a moschee si sviluppano fonti di finanziamento singolarmente forse modeste, ma che rappresentano un sostegno importante per una rete disseminata sul territorio. La strumentazione economica , aiutando a comprendere come funzione il sistema (ci sono molte analogie con l’impresa-rete su cui, proprio in Italia, sono stati effettuati lavori pionieristici) è un ausilio importante agli “operativi” che devono cercare (anche infiltrandosi nella rete) di bloccarne tempestivamente le azioni.
L’”economia del terrorismo” (nel senso di sviluppo della teoria economica del terrorismo e applicazioni d’analisi economica alla prevenzione dal terrorismo) ha avuto, per decenni, il suo centro all’Università di Chicago. Grazie a lavori effettuati a pochi chilometri dal Magnificent Mile (il lungolago della città dell’Illinois) è stato, ad esempio, possibile simulare, con l’ausilio della “teoria dei giochi” (specialmente dei “giochi a più livelli” ormai nella prassi delle scuole militari) le strategie e le tattiche di dirottamento aereo e ridurne, nell’arco di meno di un lustro, il numero dei dirottamenti da 30 a circa due l’anno. Gli “economisti del terrorismo” di Chicago hanno sviscerato l’”effetto di sostituzione” nelle strategie e nelle tattiche: a fronte dell’argine ai dirottamenti aerei, i terroristi si sono rivolti ad altri comparti, che, però, comportano costi maggiori e per essere attuati, richiedono risorse più ampie e risultati attesi molto più consistenti di quelli dei dirottamenti aerei.
In tempi più recenti, l’Università della California del Sud è diventato il fulcro americano più importante in materia: la figura di spicco è Todd Sandler. I lavori degli ultimi anni coniugano la “teoria dei giochi” con “la teoria economica dell’informazione e della comunicazione” e con paradigmi tratti dall’analisi dei mercati finanziari, quali la teoria delle opzioni e dei derivati. Da un lato, grazie a elaborati modelli esplicativi, questi studi documentano come il “terrorista razionale” cerchi risultati con vasto contenuto mediatico . Da un altro, le ricerche sugli “obiettivi anti-terroristi mirati” mostrano come un “anti-terrorismo a vasto raggio o a pioggia” avrebbe costi elevatissimi a fronte di risultati modesti; sono preferibili – affermano Todd Sandler e colleghi - strategie di prevenzione incentrate sulla decodificazione di segnali indiretti.
In Italia l’economia dell’informazione della comunicazione ha gradualmente trovato posto, negli ultimi tre lustri, tra le discipline insegnate nelle Facoltà di Economia delle maggiori università. Inoltre nel 2000-2006 si sono tenuti presso la Scuola superiore della Pubblica amministrazione (Sspa) corsi e percorsi formativi d’economia dell’informazione e comunicazione; sono stati purtroppo interrotti dal management nominato dal governo Prodi. Sarebbe auspicabile che riprendessero dato che da gennaio la Sspa avrà una nuova direzione. Con contenuti appropriati, tuttavia, potrebbero essere organizzati dalla Scuola superiore del ministero dell’Interno, anche in quanto seminari in materia vengono periodicamente tenuti al Nato Defense College a Roma e allo Staff College delle Nazioni Unite a Torino.
In Europa, il centro più importante di ricerche su questi temi è l’Università di Zurigo, dove gli studi economici sul terrorismo sono guidati da quel Bruno Frey che è anche uno dei maggiori teorici dell’”economia della felicità” e in passato ha contribuito in misura significativa alla teoria economica delle cultura e dei mercati delle arti sceniche. Altre sedi di rilievo sono quelle guidate da Mats Lundhal della Università di Stoccolma e da Kurt Konrad della Libera Università di Berlino.
Le analisi di più immediato effetto riguardano la strumentazione economica per disinnescare la rete finanziaria del terrorismo. Circa sette anni fa, un documento dell’amministrazione finanziaria degli Stati Uniti sui capitali all’estero della rete terroristica, ha documentato che almeno tre miliardi di dollari appartenuti al Governo di Saddam Hussein erano depositati in banche controllate dal governo di Damasco, soprattutto in Siria, Libano e Giordania. Di questo totale, 0,5 miliardi di dollari erano depositati in banche libanesi e una somma analoga in banche giordane. Degli altri due miliardi si sa poco o niente. Secondo lo studio, al momento dell’apertura delle ostilità, Saddam e i suoi avevano ben 1,7 miliardi di dollari in banche commerciali degli Stati Uniti, circa 600 presso la Banca dei Regolamenti Internazionali (Brs) a Basilea e in istituti di credito giapponesi. Di questi 2.45 miliardi di dollari, 300 milioni – ossia la metà di quanto trovato alla Brs – è stato restituito al (nuovo) governo iracheno; il resto è sotto sequestro. Queste risorse finanziarie sono state accantonate per uno scopo preciso che va ben oltre il supporto alla guerriglia in Irak; unitamente ad altre riserve e flussi (di cui è difficile stimare l’entità), servono al terrorismo che oggi richiede molto di più delle bombe, celate sotto i cappelli (chiamati a bombetta) dai nichilisti all’inizio del Novecento.
Un campo relativamente nuovo e di grande interesse è quello dell’analisi economica dell’impiego di kamizake reclutati tra giovani cresciuti in ambiente occidentale oppure “occidentalizzato” (i palestinesi nati e diventati adulti in Israele). Murihaf Jouejati della Università George Washington nella capitale Usa sottolinea come la scelta del suicidio-eccidio abbia determinanti economiche: i giovani musulmani, cresciuti negli Usa o in Europa, oppure nelle aree più occidentalizzate del Medio Oriente, lo compiono non per andare in un Paradiso in cui spesso non credono affatto, ma per sconfiggere il nemico in una guerra millenaria in cui l’intrusione occidentale avrebbe, agli occhi loro e dei loro maestri, tolto il primato economico, scientifico e culturale dell’Islam. Lo scontro con le libertà (e della democrazia e del mercato) rende più acuta la decisione di commettere gesti estremi come il suicidio-eccidio. Ciò spiega – come si è accennato in precedenza - la scelta di terroristi maturi e istruiti (oltre che probabilmente laicizzati) per le missioni più importanti. Attenzione: il suicidio-eccidio è contrario al Corano dove si prescrive che l’uomo non deve uccidere “neanche una formica” e la “guerra santa” è consentita unicamente per la riconquista e difesa dei “luoghi sacri”. Il kamikaze o è imbevuto di eresia, ossia di un’interpretazione distorta del Corano, oppure considera il suicidio-eccedio come strumento di una guerra laica tra civiltà necessariamente in forte contrapposizione.
Quali sono, dunque, alcune delle principali lezioni che si traggono dall’”economia dell’antiterrosismo”, ad esempio dai tre volumi di 1700 pagine curati da Todd Sandler e Keith Hartley, dai lavori di Bruno Frey della Università di Zurigo e da quelli di Mats Lundhal della Università di Stoccolma e di Kurt Konrad della Libera Università di Berlino? In primo luogo, il contenimento del terrorismo è un “bene pubblico internazionale”, che non può essere fornito da un solo paese e di cui beneficia tutta la comunità mondiale; dopo le risoluzioni Onu, anche Siria e Libano hanno dato la loro disponibilità a operare di concerto con il resto del mondo per bloccare i soldi del terrore.
In secondo luogo, ciò implica vigilare su conti sospetti di “cellule” terroristiche dovunque esse siano; questa attività ha ramificazione per quanto riguarda la vigilanza bancaria: negli Stati Uniti, sono state potenziate, negli ultimi due anni e mezzo, le funzioni e le risorse a disposizione del Tesoro – tramite l’Irsa, l’agenzia delle entrate Usa, e il Controller of Currency (una direzione generale di del ministero del Tesoro). Anche in Italia si è creata una direzione generale presso il ministero dell’Economia e delle finanze nell’ambito del Dipartimento del Tesoro. Dobbiamo chiederci se le nostre attività di vigilanza finanziaria siano attrezzate alla bisogna.
In terzo luogo, occorre ridurre la capacità d’attrazione, abbassando l’attenzione dei media e aumentando, al tempo stesso, il costo opportunità ai terroristi, nonché “offrendo alternative” a potenziali reclute del terrorismo. Secondo Bruno Frey, il decentramento politico e amministrativo può ridurre in misura significativa i benefici ai terroristi, in quanto implica un più forte controllo sociale. Più complicato “offrire alternative” a potenziali terroristi: ciò vuole dire “strategie negoziali” o, in termini di gergo economico, “cooperative”. Percorso che pochi governi sono pronti a seguire.
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