L'avvocato dell'azienda Italia
Il timoniere dell’economia nei marosi dell’exit strategy
Roma, 30 dic (Velino) - Una premessa è d’obbligo: non faccio e non ho mai fatto parte dello staff o dei collaboratori del Prof. Avv. Giulio Tremonti, attualmente Ministro dell’Economia e delle Finanze. Abbiamo avuto una certa frequentazione negli Anni ’80 quando eravamo ambedue tra coloro che animavano il CESEC, un pensatoio liberal-socialista – ora si direbbe think tank e si utilizzerebbe l’ampolloso titolo di Fondazione (pur se senza dotazione, anzi alla sempreterna ricerca di fondi per pagare le bollette); il CESEC ebbe un certo ruolo nel plasmare le politiche di rientro dall’inflazione mantenendo un buon tasso di crescita che caratterizzarono quel periodo. Ci siamo incrociati in convegni su economia e diritto: una diecina di anni fa, dopo uno scambio di idee in un seminario, gli feci pervenire, su sua richiesta, un appunto sui problemi della previdenza tracciando possibili percorsi alternativi di riforma. In un passato non recente, ci siamo incrociati con una certa frequenza, ma per puro caso, perché l’abitazione dove vivo da trent’anni è prossima a quello che era il suo studio romano a Via Nicotera.
La premessa è tanto più necessaria perché in queste settimane è stato sollevato, in numerose occasioni, se, in un contesto internazionale ed interno come l’attuale, non sia più appropriato che porre il timone dell’economia e della finanza saldamente nelle mani di un economista piuttosto che di un avvocato, per di più esperto di questioni tributarie. In breve, può “l’uomo delle tasse” tirarci fuori dai marosi di una crisi la cui exist strategy ha contorni ancora incerti, meglio di quanto non potrebbe un broadly based economist (ossia un economista non specializzato in solo uno o due aspetti della triste scienza ma in grado di afferrarne tutte le complessità e di indirizzare sia il proprio staff sia i dirigenti del Ministero nel trovare soluzioni specifiche ai vari problemi)?
Ho esercitato la professione di economista per circa quattro decenni in Banca Mondiale, altri enti internazionali ed università americane ed italiane, e ritengo che c’è nel vero nel sostenere che un broadly based economist ha , di norma, la formazione per afferrare le varie sfaccettare di complessi problemi economici e finanziari di breve e medio-lungo periodo (ossia anche a carattere strutturale) meglio di un giurista, in particolare di un avvocato tributarista. Non mancano, naturalmente, eccezioni come testimoniano i Premi Nobel per l’Economia conferiti a giuristi quali (nel 1991) Ronald Coase (che rivoluzionò la teoria economica dell’impresa) e (nel 2009) a Oliver Williamson (che ha posto una pietra miliare in quello dello sviluppo delle economie complesse). In generale, tuttavia, gli economisti non tecnici sono meglio attrezzati di altri a vedere problemi macro e micro (e la loro interazione) e la connessione tra politiche di breve e medio termine e quelle strutturali. Mentre i giuristi, specialmente gli avvocati ed ancor di più gli avvocati d’impresa come i tributaristi, sono usi a studiare un cliente alla volta, ad assisterlo non solamente nei confronti degli altri (ivi compresa l’autorità tributaria e giudiziaria) ma anche e soprattutto rispetto a se medesimo, consigliandogli e se del caso imponendogli (con la minaccia del ritiro del patrocinio) comportamenti coerenti con le finalità che si vogliono raggiungere.
In questa fase, l’Italia ha maggiormente bisogno di un economista che sappia vedere come interagiscono micro e macro nonché breve e lungo termine, o di un avvocato che, di fronte a due tribunali (i mercati internazionali, le autorità dell’Ue e dell’unione monetaria) sappia portarla sul percorso del proprio riassetto, dando prova di poterlo fare meglio di altri Paesi, meno “attenzionati” (per utilizzare il gergo delle pandette) da mercati e da autorità poiché, sulla base dei trascorsi, ritenuti più affidabili? Ritengo, con buona pace di molti colleghi economisti, che i limiti attribuiti, a torto od a ragione, ai giuristi (ed in particolare agli avvocati), ne sono adesso il loro punto forte.
Un esempio si ha proprio in questi giorni. La Repubblica Ellenica ha un Presidente del Consiglio, George Papandreu, laureato in sociologia economica ma cresciuto negli ambienti del pensiero economico Usa, dove suo padre, Andreas, ha insegnato per decenni. Il Ministro dell’Economia e delle Finanze George Papacostantinou ha studiato tra Londra e New York e conseguito un dottorato della London School of Economics (Lse, acronimo che economisti con meno galloni traducono sarcasticamente London School of Egomaniacs). Lo ricordo come simpaticissimo e bravo economista all’Ocse , dove ha lavorato dal 1988 al 1998. Il tandem dei due “Papa” non è in grado di convincere i mercati (e le autorità dell’Ue e dell’unione monetaria) della loro capacità di tenere le briglie della finanza pubblica ellenica e di frenare i loro collaboratori in quella che sembra, a torto o a ragione, essere un’inarrestabile tendenza a taroccare i conti, venendo quasi sempre scoperti e pubblicamente sculacciati.
mercoledì 30 dicembre 2009
MA IL CIELO DI ROMA VALE ORO Il Tempo 30 dicembre
MA IL CIELO DI ROMA VALE ORO
Giuseppe Pennisi
I cieli di Roma sono succulenti. Chi ha memoria, ricorderà che parte significativa del “tormentone” Alitalia riguardava i privilegi su alcune tratte che hanno nella capitale il loro punto di partenza o di arrivo (specialmente quella tra Fiumicino e Linate). Con 37 milioni di passeggeri nel 2008, gli aeroporti di Roma hanno resistito meglio di altri alla recessione del 2009: secondo i pre-consuntivi, una contrazione del 5% , mentre la media nazionale è stata del 10%. Ciò è tanto più significativo poiché il 2009 è stato l’anno, da un lato, del sofferto, avvio della nuova Alitalia e del miglioramento dei servizi ferroviari sui percorsi più redditizi (quali, Roma – Milano). Le previsioni per il futuro sono di un’ulteriore affermazione del ruolo centrale degli aeroporti della capitale tanto che si sta progettando un nuovo scalo.
In parallelo, la situazione finanziarie delle low cost , Ryan Air in particolare, è meno florida di quello che è parso in passato. Sul loro “business model” hanno inciso, da un lato, la riduzione del turismo (determinante fondamentale della domanda per i loro servigi) e, dall’altro, l’aumento dei costi del carburante. In novembre, l’amministratore delegato di Ryanair, Micheal O’ Leary ha affermato che se i prezzi del carburante “nei prossimi quattro mesi rimarranno stabili , chiuderemo il bilancio in pareggio" e tratteggiava una strategia di crescita, basata in gran misura sul mercato italiano , criticando, al tempo stesso, le tariffe aeroportuali e “le ingiustificate sovrattasse carburante”. I prezzi del carburante non promettono affatto di rimanere stabili (soprattutto a fronte di una ripresa internazionale). Né c’è cenno di riduzione di tariffe e sovrattasse.
Questi due elementi sono essenziali per comprendere la “battaglia di fine d’anno” tra la maggiore low cost e l’Enac. Ieri 29 dicembre, Ryanair ha annunciato di essere stata obbligata a cancellare le sue rotte nazionali in Italia poiché ”la sicurezza di questi voli e’ stata minacciata dall’insistenza di Enac che i passeggeri vengano accettati senza identificazioni sicure e in alcuni casi venga loro permesso di viaggiare con niente di più sicuro di una licenza di pesca”.
In punta di diritto, è la tesi dell’Enac è ineccepibile. L’art. 35 del DPR 28 dicembre 2000 n. 445, confermato dalla sentenza del TAR Lazio sez. 3T del 17 dicembre 2009 è lapalissiano : “sono equipollenti alla carta di identità il passaporto, la patente di guida, la patente nautica, il libretto di pensione, il patentino di abilitazione alla conduzione di impianti termici, il porto d'armi, le tessere di riconoscimento, purché' munite di fotografia e di timbro o di altra segnatura equivalente, rilasciate da un'amministrazione dello Stato”. L’Enac non può che richiedere l’applicazione della norma, definita tra uno dei passi del processo di semplificazione iniziato circa 10 anni fa.
Tuttavia, la materia non è solamente giuridica : il blog www.youngeconomist.it (un gruppo vivace di giovani economisti italiani) sottolinea come al limite l’utilizzo di un qualsiasi documento con foto rilasciato ad un amministrazione pubblica italiana può essere fatto sono con personale italiano in grado di riconoscere i differenti documenti: altrimenti “si può salire anche con la carta del video noleggio). Ciò comporterebbe un duplice aumento dei costi a Raynair: modificare il proprio sistema di prenotazioni e disporre di personale italiano al check in per l’imbarco. Inoltre, il DPR è del 2000- forse sarebbe stato opportuno aggiornarlo alla luce dell’11 settembre 2001 e rivederlo ancora dopo gli ultimi attentati aerei.
Il vero nodo è che se le low cost ( i cui conti sono in un equilibrio molto delicato) se ne andranno dal mercato italiano saranno i consumatori a soffrirne. C’è, invece, chi non potrà non trarne vantaggio – la nuova Alitalia, la cui ombra si staglia in questa vicenda come quella del Banquo shakespeariano.
Giuseppe Pennisi
I cieli di Roma sono succulenti. Chi ha memoria, ricorderà che parte significativa del “tormentone” Alitalia riguardava i privilegi su alcune tratte che hanno nella capitale il loro punto di partenza o di arrivo (specialmente quella tra Fiumicino e Linate). Con 37 milioni di passeggeri nel 2008, gli aeroporti di Roma hanno resistito meglio di altri alla recessione del 2009: secondo i pre-consuntivi, una contrazione del 5% , mentre la media nazionale è stata del 10%. Ciò è tanto più significativo poiché il 2009 è stato l’anno, da un lato, del sofferto, avvio della nuova Alitalia e del miglioramento dei servizi ferroviari sui percorsi più redditizi (quali, Roma – Milano). Le previsioni per il futuro sono di un’ulteriore affermazione del ruolo centrale degli aeroporti della capitale tanto che si sta progettando un nuovo scalo.
In parallelo, la situazione finanziarie delle low cost , Ryan Air in particolare, è meno florida di quello che è parso in passato. Sul loro “business model” hanno inciso, da un lato, la riduzione del turismo (determinante fondamentale della domanda per i loro servigi) e, dall’altro, l’aumento dei costi del carburante. In novembre, l’amministratore delegato di Ryanair, Micheal O’ Leary ha affermato che se i prezzi del carburante “nei prossimi quattro mesi rimarranno stabili , chiuderemo il bilancio in pareggio" e tratteggiava una strategia di crescita, basata in gran misura sul mercato italiano , criticando, al tempo stesso, le tariffe aeroportuali e “le ingiustificate sovrattasse carburante”. I prezzi del carburante non promettono affatto di rimanere stabili (soprattutto a fronte di una ripresa internazionale). Né c’è cenno di riduzione di tariffe e sovrattasse.
Questi due elementi sono essenziali per comprendere la “battaglia di fine d’anno” tra la maggiore low cost e l’Enac. Ieri 29 dicembre, Ryanair ha annunciato di essere stata obbligata a cancellare le sue rotte nazionali in Italia poiché ”la sicurezza di questi voli e’ stata minacciata dall’insistenza di Enac che i passeggeri vengano accettati senza identificazioni sicure e in alcuni casi venga loro permesso di viaggiare con niente di più sicuro di una licenza di pesca”.
In punta di diritto, è la tesi dell’Enac è ineccepibile. L’art. 35 del DPR 28 dicembre 2000 n. 445, confermato dalla sentenza del TAR Lazio sez. 3T del 17 dicembre 2009 è lapalissiano : “sono equipollenti alla carta di identità il passaporto, la patente di guida, la patente nautica, il libretto di pensione, il patentino di abilitazione alla conduzione di impianti termici, il porto d'armi, le tessere di riconoscimento, purché' munite di fotografia e di timbro o di altra segnatura equivalente, rilasciate da un'amministrazione dello Stato”. L’Enac non può che richiedere l’applicazione della norma, definita tra uno dei passi del processo di semplificazione iniziato circa 10 anni fa.
Tuttavia, la materia non è solamente giuridica : il blog www.youngeconomist.it (un gruppo vivace di giovani economisti italiani) sottolinea come al limite l’utilizzo di un qualsiasi documento con foto rilasciato ad un amministrazione pubblica italiana può essere fatto sono con personale italiano in grado di riconoscere i differenti documenti: altrimenti “si può salire anche con la carta del video noleggio). Ciò comporterebbe un duplice aumento dei costi a Raynair: modificare il proprio sistema di prenotazioni e disporre di personale italiano al check in per l’imbarco. Inoltre, il DPR è del 2000- forse sarebbe stato opportuno aggiornarlo alla luce dell’11 settembre 2001 e rivederlo ancora dopo gli ultimi attentati aerei.
Il vero nodo è che se le low cost ( i cui conti sono in un equilibrio molto delicato) se ne andranno dal mercato italiano saranno i consumatori a soffrirne. C’è, invece, chi non potrà non trarne vantaggio – la nuova Alitalia, la cui ombra si staglia in questa vicenda come quella del Banquo shakespeariano.
OPERA ELETTRONICA: TRA ALFREDO E VIOLETTA ARRIVA IL COMPUTER Il Tempo 30 dicembre
OPERA ELETTRONICA: TRA ALFREDO E VIOLETTA ARRIVA IL COMPUTER
Giuseppe Pennisi
Il turista che arriva a Roma crede,a torto o a ragione, di potere gustare una bella opera nella Patria del melodramma.”La Traviata” al Teatro dell’Opera è esauritissima da mesi; il Teatro chiude dal primo al 23 gennaio. La sola alternative sono le rappresentazioni di compagnie di dilettanti o semi-dilettanti in Chiese anglicane la cui pubblicità è affissa in vari chioschi d’informazioni turistica? Quasi tutte programmano “La Traviata”; poco si addicono altari e candelabri agli amori sensuali, oltre che passionali, tra Violetta ed Alfredo:
C’è, però, un’alternativa che ha assunto rilievo internazionale, anche se pochi romani la conosco. Quasi nascosto nei vicoli che da Piazza della Pigna portano al Collegio Romano, in via Santo Stefano del Cacco, c’è un teatrino di 150 posti, quasi sempre pieno: il Piccolo Lirico. Dal lontano Giappone si è mosso addirittura Suguru Agata, segretario generale del Japan Electronic Keyboard Society per visionare di persona due spettacoli, Tosca e Madama Butterfly. Agatai ha inserito il Piccolo Lirico tra i teatri di ricerca e sperimentazione sull'opera lirica censiti dall' “Open Research Center Project” dell'università della Musica di Showa. Agata è rimasto colpito dal fatto che mentre in Giappone, pur sempre impero di alta tecnologia, i concerti e le arie (non risultano le opere intere), sono eseguite con l’accompagnamento di un unico strumento elettronico, l'electone (strumento a due tastiere sovrapposte) mischiato a qualche strumento convenzionale, a via Santo Stefano del Cacco si mettono in scena opere intere con quattro tastiere separate per riprodurre tutti i suoni di un’orchestra di 60 elementi. Da quest'anno l’uscita dei suoni, grazie al sistema sviluppato nel piccolo teatro della Roma rinascimentale, sono corrispondenti alla posizione dei singoli strumenti riprodotti dai pianisti “esecutori dei sistemi midi” quindi con una resa più fedele possibile e perfezionabile.
Tosca e Madama Butterfly in bilico fra tradizione e sperimentazione sono in scena fino al 12 giugno. Non ci si aspetti di andare alla Scala: opere e drammi in musica vengono ridotti eliminando scene di massa e comprimari, lo spettacolo dura 90 minuti intervallo compresa ed inizia alle 20 per dare modo di andare a cena nei tanti ristoranti dei dintorni, i cantanti sono giovani (vi debuttò la ora notissima Amarilli Nizza) Di forte impatto le scenografie virtuali (ossia computerizzate): in Butterfly mostrano la storia della pittura giapponese da Tawara Sotatsu all'avanguardia, in Tosca la Roma dei tempi “che Pinelli immortalò”
Giuseppe Pennisi
Il turista che arriva a Roma crede,a torto o a ragione, di potere gustare una bella opera nella Patria del melodramma.”La Traviata” al Teatro dell’Opera è esauritissima da mesi; il Teatro chiude dal primo al 23 gennaio. La sola alternative sono le rappresentazioni di compagnie di dilettanti o semi-dilettanti in Chiese anglicane la cui pubblicità è affissa in vari chioschi d’informazioni turistica? Quasi tutte programmano “La Traviata”; poco si addicono altari e candelabri agli amori sensuali, oltre che passionali, tra Violetta ed Alfredo:
C’è, però, un’alternativa che ha assunto rilievo internazionale, anche se pochi romani la conosco. Quasi nascosto nei vicoli che da Piazza della Pigna portano al Collegio Romano, in via Santo Stefano del Cacco, c’è un teatrino di 150 posti, quasi sempre pieno: il Piccolo Lirico. Dal lontano Giappone si è mosso addirittura Suguru Agata, segretario generale del Japan Electronic Keyboard Society per visionare di persona due spettacoli, Tosca e Madama Butterfly. Agatai ha inserito il Piccolo Lirico tra i teatri di ricerca e sperimentazione sull'opera lirica censiti dall' “Open Research Center Project” dell'università della Musica di Showa. Agata è rimasto colpito dal fatto che mentre in Giappone, pur sempre impero di alta tecnologia, i concerti e le arie (non risultano le opere intere), sono eseguite con l’accompagnamento di un unico strumento elettronico, l'electone (strumento a due tastiere sovrapposte) mischiato a qualche strumento convenzionale, a via Santo Stefano del Cacco si mettono in scena opere intere con quattro tastiere separate per riprodurre tutti i suoni di un’orchestra di 60 elementi. Da quest'anno l’uscita dei suoni, grazie al sistema sviluppato nel piccolo teatro della Roma rinascimentale, sono corrispondenti alla posizione dei singoli strumenti riprodotti dai pianisti “esecutori dei sistemi midi” quindi con una resa più fedele possibile e perfezionabile.
Tosca e Madama Butterfly in bilico fra tradizione e sperimentazione sono in scena fino al 12 giugno. Non ci si aspetti di andare alla Scala: opere e drammi in musica vengono ridotti eliminando scene di massa e comprimari, lo spettacolo dura 90 minuti intervallo compresa ed inizia alle 20 per dare modo di andare a cena nei tanti ristoranti dei dintorni, i cantanti sono giovani (vi debuttò la ora notissima Amarilli Nizza) Di forte impatto le scenografie virtuali (ossia computerizzate): in Butterfly mostrano la storia della pittura giapponese da Tawara Sotatsu all'avanguardia, in Tosca la Roma dei tempi “che Pinelli immortalò”
lunedì 28 dicembre 2009
L’uccello di fuoco del russo impolitico che “venerava” Mussolini Il Velino 28 dicembre
CLT - L’uccello di fuoco del russo impolitico che “venerava” Mussolini
L’uccello di fuoco del russo impolitico che “venerava” Mussolini
Roma, 28 dic (Velino) - Una scorsa veloce ai cartelloni delle principali fondazioni lirico sinfoniche (unicamente tre - La Scala, l’Opera di Roma, ed il Massimo di Palermo- hanno ancora un corpo di ballo con pieno organico) pare indicare che un centenario importante rischia di essere obliato: quello de “L’oiseau de feu” di Igor Stravinskij il cui debutto ebbe luogo il 15 giugno 1910 all’Opéra di Parigi da cura di quei Ballets Russes, compagnia fondata da geniale Sergej Djagilev con danzatori transfughi dal teatro imperiale di San Pietroburgo che appena un anno prima , il 18 maggio 1909, sempre a Parigi, ma al meno ufficiale, Théâtre du Châtelet, aveva sconvolto la scena teatrale. Si dirà che non si tratta di una dimenticanza poiché nel 2009 a Bologna, a Firenze, a Spoleto e, soprattutto, a Roma si sono tenuti cicli di rappresentazioni dirette a ricordare la serata allo Châtelet ed il ruolo che i Ballets Russes ebbero nei successivi 20 anni nel cambiare il gusto degli appassionati di arti sceniche in tutto mondo.
Tuttavia, come fa notare Roman Vlad in un suo saggio di diversi anni fa, il successo immediato e travolgente de L’oiseau de feu non solo segnò un’importante tappa nella carriera di Stravinskij, ma mutò “tutta la concezione dei Ballets Russes che pur erano appena nati”. Invece di importare l’arte russa, Djagilev, incoraggiato dalla riuscita del lavoro, avrebbe cercato d’allora in poi di stimolare la creazione di nuove opere su piano internazionale e di promuovere – novità assoluta per quell’epoca – la fattiva collaborazione tra musicisti, letterati, pittori e scultori. Il risultato fu un nuovo modo di concepire non solamente la danza ma l’arte scenica nel suo complesso. La sera del 15 giugno erano corsi al Palais Garnier musicisti come Debussy e Ravel ed anche letterati come Proust, Claudel, Girardoux. Ad una delle prime repliche arrivò, inattesa, Sarah Bernhardt, allora un mito prima ancora di essere una bella donna ed un’attrice di grande successo.
Di per se stesso, non era l’intreccio de L’oiseau de feu ad essere innovativo. Tratto da un’antica leggenda, Katschei, l’immortale, era già stato messo in musica dall’italiano Catterino Cavos nel 1823 per uno di quei balletti che, secondo l’uso dell’epoca, venivano rappresentati al termine di un melodramma. In Russia, Rimiskij-Korsakov aveva evocato la leggenda in due delle sue opere fantastiche. La carica innovativa della musica di Stravinskij era nel vero e proprio fuoco posto nella partitura. L’intesa con il coreografo Fokine e con il protagonista Nijinky portarono ad uno spettacolo che nulla aveva di convenzionale, nella gestualità, nei numeri specifici, nell’impianto scenico e nei costumi. In breve, seguendo un percorso differente, si arrivava ad un approdo analogo a quello della Gesamtkustwerk, l’opera d’arte dell’avvenire, frutto d’integrazione tra le varie arti, teorizzata e sperimentata da Richard Wagner.
La scarsa attenzione al centenario de L’oiseau de feu induce a pensare male, ma forse a cogliere nel segno. Recenti ricerche storiografiche di Stefano Biguzzi (pubbliche nel libro L‘orchestra del Duce , rivelano che l’impolitico Stravinskij (detestava solo la rivoluzione russa che lo aveva costretto a scappare dalla Patria) dicesse di “venerare” Mussolini – questa fu una delle motivazioni per cui chiese di essere sepolto in terra italiana (i suoi resti sono al cimitero di Venezia) – non per le sue idee e proposte politiche ma per il supporto dato a musicisti contemporanei come Casella, Malipiero, e Dallapiccola e soprattutto avere creato il festival internazionale di musica contemporanea a Venezia.
(Hans) 28 dic 2009 10:20
L’uccello di fuoco del russo impolitico che “venerava” Mussolini
Roma, 28 dic (Velino) - Una scorsa veloce ai cartelloni delle principali fondazioni lirico sinfoniche (unicamente tre - La Scala, l’Opera di Roma, ed il Massimo di Palermo- hanno ancora un corpo di ballo con pieno organico) pare indicare che un centenario importante rischia di essere obliato: quello de “L’oiseau de feu” di Igor Stravinskij il cui debutto ebbe luogo il 15 giugno 1910 all’Opéra di Parigi da cura di quei Ballets Russes, compagnia fondata da geniale Sergej Djagilev con danzatori transfughi dal teatro imperiale di San Pietroburgo che appena un anno prima , il 18 maggio 1909, sempre a Parigi, ma al meno ufficiale, Théâtre du Châtelet, aveva sconvolto la scena teatrale. Si dirà che non si tratta di una dimenticanza poiché nel 2009 a Bologna, a Firenze, a Spoleto e, soprattutto, a Roma si sono tenuti cicli di rappresentazioni dirette a ricordare la serata allo Châtelet ed il ruolo che i Ballets Russes ebbero nei successivi 20 anni nel cambiare il gusto degli appassionati di arti sceniche in tutto mondo.
Tuttavia, come fa notare Roman Vlad in un suo saggio di diversi anni fa, il successo immediato e travolgente de L’oiseau de feu non solo segnò un’importante tappa nella carriera di Stravinskij, ma mutò “tutta la concezione dei Ballets Russes che pur erano appena nati”. Invece di importare l’arte russa, Djagilev, incoraggiato dalla riuscita del lavoro, avrebbe cercato d’allora in poi di stimolare la creazione di nuove opere su piano internazionale e di promuovere – novità assoluta per quell’epoca – la fattiva collaborazione tra musicisti, letterati, pittori e scultori. Il risultato fu un nuovo modo di concepire non solamente la danza ma l’arte scenica nel suo complesso. La sera del 15 giugno erano corsi al Palais Garnier musicisti come Debussy e Ravel ed anche letterati come Proust, Claudel, Girardoux. Ad una delle prime repliche arrivò, inattesa, Sarah Bernhardt, allora un mito prima ancora di essere una bella donna ed un’attrice di grande successo.
Di per se stesso, non era l’intreccio de L’oiseau de feu ad essere innovativo. Tratto da un’antica leggenda, Katschei, l’immortale, era già stato messo in musica dall’italiano Catterino Cavos nel 1823 per uno di quei balletti che, secondo l’uso dell’epoca, venivano rappresentati al termine di un melodramma. In Russia, Rimiskij-Korsakov aveva evocato la leggenda in due delle sue opere fantastiche. La carica innovativa della musica di Stravinskij era nel vero e proprio fuoco posto nella partitura. L’intesa con il coreografo Fokine e con il protagonista Nijinky portarono ad uno spettacolo che nulla aveva di convenzionale, nella gestualità, nei numeri specifici, nell’impianto scenico e nei costumi. In breve, seguendo un percorso differente, si arrivava ad un approdo analogo a quello della Gesamtkustwerk, l’opera d’arte dell’avvenire, frutto d’integrazione tra le varie arti, teorizzata e sperimentata da Richard Wagner.
La scarsa attenzione al centenario de L’oiseau de feu induce a pensare male, ma forse a cogliere nel segno. Recenti ricerche storiografiche di Stefano Biguzzi (pubbliche nel libro L‘orchestra del Duce , rivelano che l’impolitico Stravinskij (detestava solo la rivoluzione russa che lo aveva costretto a scappare dalla Patria) dicesse di “venerare” Mussolini – questa fu una delle motivazioni per cui chiese di essere sepolto in terra italiana (i suoi resti sono al cimitero di Venezia) – non per le sue idee e proposte politiche ma per il supporto dato a musicisti contemporanei come Casella, Malipiero, e Dallapiccola e soprattutto avere creato il festival internazionale di musica contemporanea a Venezia.
(Hans) 28 dic 2009 10:20
Ecco come gli economisti possono combattere Al-Qaeda. Ffwebmagazine del 27 dicemnbre
L'economia del terrorismo, una disciplina dalle potenzialità forse inattese
Ecco come gli economisti
possono combattere Al-Qaeda
di Giuseppe Pennisi
Soltanto pochi giorni fa, alla vigilia di Natale, prendendo spunto dall’attentato a Milano nei confronti del presidente del Consiglio, su Ffwebmagazine ho affrontato il tema del contributo che gli economisti possono dare alla lotta contro il terrorismo. Oggi, a cavallo quasi tra il 2009 ed il 2010, ritengo necessario tornare sul tema perché pochi sanno che da alcuni lustri i servizi anti-terrorismo dei maggiori paesi industrializzati a economia di mercato hanno “ruoli” specifici per economisti con il duplice scopo di individuare come il terrorismo si finanzia e utilizzare la strumentazione della disciplina economica per combattere il terrorismo. Le nuove indicazioni dell’esistenza di focolai terroristici in Europa, e anche in Italia, dovrebbero indurre a pensare all’istituzione di un apposito ruolo per gli specialisti di finanza e di economia al Viminale. Da tempo si sa che l’economia “sommersa” è una delle fonti privilegiate perché il terrorismo trovi finanziamenti anche in Europa (e in Italia in particolare, a ragione della dimensione del sommerso nel Pil). Un’analisi recentissima di Tolga Koker (Yale University) e Karlos Yordan (Drew University) traccia la geografia economica di un fenomeno poco studiato: la micro-finanza del terrorismo che spesso di annida in una rete articolata e molto diffusa (orchestrata da Al-Qaeda) dietro il paravento di fondazioni e associazioni ufficialmente a scopo caritatevole. Ciò non vuol dire – si badi bene – che tutte le moschee sono ruscelli che alimentano il fiume e il mulino di Bin Laden. Significa, però, che attorno a moschee si sviluppano fonti di finanziamento singolarmente forse modeste, ma che rappresentano un sostegno importante per una rete disseminata sul territorio. La strumentazione economica , aiutando a comprendere come funzione il sistema (ci sono molte analogie con l’impresa-rete su cui, proprio in Italia, sono stati effettuati lavori pionieristici) è un ausilio importante agli “operativi” che devono cercare (anche infiltrandosi nella rete) di bloccarne tempestivamente le azioni.
L’”economia del terrorismo” (nel senso di sviluppo della teoria economica del terrorismo e applicazioni d’analisi economica alla prevenzione dal terrorismo) ha avuto, per decenni, il suo centro all’Università di Chicago. Grazie a lavori effettuati a pochi chilometri dal Magnificent Mile (il lungolago della città dell’Illinois) è stato, ad esempio, possibile simulare, con l’ausilio della “teoria dei giochi” (specialmente dei “giochi a più livelli” ormai nella prassi delle scuole militari) le strategie e le tattiche di dirottamento aereo e ridurne, nell’arco di meno di un lustro, il numero dei dirottamenti da 30 a circa due l’anno. Gli “economisti del terrorismo” di Chicago hanno sviscerato l’”effetto di sostituzione” nelle strategie e nelle tattiche: a fronte dell’argine ai dirottamenti aerei, i terroristi si sono rivolti ad altri comparti, che, però, comportano costi maggiori e per essere attuati, richiedono risorse più ampie e risultati attesi molto più consistenti di quelli dei dirottamenti aerei.
In tempi più recenti, l’Università della California del Sud è diventato il fulcro americano più importante in materia: la figura di spicco è Todd Sandler. I lavori degli ultimi anni coniugano la “teoria dei giochi” con “la teoria economica dell’informazione e della comunicazione” e con paradigmi tratti dall’analisi dei mercati finanziari, quali la teoria delle opzioni e dei derivati. Da un lato, grazie a elaborati modelli esplicativi, questi studi documentano come il “terrorista razionale” cerchi risultati con vasto contenuto mediatico . Da un altro, le ricerche sugli “obiettivi anti-terroristi mirati” mostrano come un “anti-terrorismo a vasto raggio o a pioggia” avrebbe costi elevatissimi a fronte di risultati modesti; sono preferibili – affermano Todd Sandler e colleghi - strategie di prevenzione incentrate sulla decodificazione di segnali indiretti.
In Italia l’economia dell’informazione della comunicazione ha gradualmente trovato posto, negli ultimi tre lustri, tra le discipline insegnate nelle Facoltà di Economia delle maggiori università. Inoltre nel 2000-2006 si sono tenuti presso la Scuola superiore della Pubblica amministrazione (Sspa) corsi e percorsi formativi d’economia dell’informazione e comunicazione; sono stati purtroppo interrotti dal management nominato dal governo Prodi. Sarebbe auspicabile che riprendessero dato che da gennaio la Sspa avrà una nuova direzione. Con contenuti appropriati, tuttavia, potrebbero essere organizzati dalla Scuola superiore del ministero dell’Interno, anche in quanto seminari in materia vengono periodicamente tenuti al Nato Defense College a Roma e allo Staff College delle Nazioni Unite a Torino.
In Europa, il centro più importante di ricerche su questi temi è l’Università di Zurigo, dove gli studi economici sul terrorismo sono guidati da quel Bruno Frey che è anche uno dei maggiori teorici dell’”economia della felicità” e in passato ha contribuito in misura significativa alla teoria economica delle cultura e dei mercati delle arti sceniche. Altre sedi di rilievo sono quelle guidate da Mats Lundhal della Università di Stoccolma e da Kurt Konrad della Libera Università di Berlino.
Le analisi di più immediato effetto riguardano la strumentazione economica per disinnescare la rete finanziaria del terrorismo. Circa sette anni fa, un documento dell’amministrazione finanziaria degli Stati Uniti sui capitali all’estero della rete terroristica, ha documentato che almeno tre miliardi di dollari appartenuti al Governo di Saddam Hussein erano depositati in banche controllate dal governo di Damasco, soprattutto in Siria, Libano e Giordania. Di questo totale, 0,5 miliardi di dollari erano depositati in banche libanesi e una somma analoga in banche giordane. Degli altri due miliardi si sa poco o niente. Secondo lo studio, al momento dell’apertura delle ostilità, Saddam e i suoi avevano ben 1,7 miliardi di dollari in banche commerciali degli Stati Uniti, circa 600 presso la Banca dei Regolamenti Internazionali (Brs) a Basilea e in istituti di credito giapponesi. Di questi 2.45 miliardi di dollari, 300 milioni – ossia la metà di quanto trovato alla Brs – è stato restituito al (nuovo) governo iracheno; il resto è sotto sequestro. Queste risorse finanziarie sono state accantonate per uno scopo preciso che va ben oltre il supporto alla guerriglia in Irak; unitamente ad altre riserve e flussi (di cui è difficile stimare l’entità), servono al terrorismo che oggi richiede molto di più delle bombe, celate sotto i cappelli (chiamati a bombetta) dai nichilisti all’inizio del Novecento.
Un campo relativamente nuovo e di grande interesse è quello dell’analisi economica dell’impiego di kamizake reclutati tra giovani cresciuti in ambiente occidentale oppure “occidentalizzato” (i palestinesi nati e diventati adulti in Israele). Murihaf Jouejati della Università George Washington nella capitale Usa sottolinea come la scelta del suicidio-eccidio abbia determinanti economiche: i giovani musulmani, cresciuti negli Usa o in Europa, oppure nelle aree più occidentalizzate del Medio Oriente, lo compiono non per andare in un Paradiso in cui spesso non credono affatto, ma per sconfiggere il nemico in una guerra millenaria in cui l’intrusione occidentale avrebbe, agli occhi loro e dei loro maestri, tolto il primato economico, scientifico e culturale dell’Islam. Lo scontro con le libertà (e della democrazia e del mercato) rende più acuta la decisione di commettere gesti estremi come il suicidio-eccidio. Ciò spiega – come si è accennato in precedenza - la scelta di terroristi maturi e istruiti (oltre che probabilmente laicizzati) per le missioni più importanti. Attenzione: il suicidio-eccidio è contrario al Corano dove si prescrive che l’uomo non deve uccidere “neanche una formica” e la “guerra santa” è consentita unicamente per la riconquista e difesa dei “luoghi sacri”. Il kamikaze o è imbevuto di eresia, ossia di un’interpretazione distorta del Corano, oppure considera il suicidio-eccedio come strumento di una guerra laica tra civiltà necessariamente in forte contrapposizione.
Quali sono, dunque, alcune delle principali lezioni che si traggono dall’”economia dell’antiterrosismo”, ad esempio dai tre volumi di 1700 pagine curati da Todd Sandler e Keith Hartley, dai lavori di Bruno Frey della Università di Zurigo e da quelli di Mats Lundhal della Università di Stoccolma e di Kurt Konrad della Libera Università di Berlino? In primo luogo, il contenimento del terrorismo è un “bene pubblico internazionale”, che non può essere fornito da un solo paese e di cui beneficia tutta la comunità mondiale; dopo le risoluzioni Onu, anche Siria e Libano hanno dato la loro disponibilità a operare di concerto con il resto del mondo per bloccare i soldi del terrore.
In secondo luogo, ciò implica vigilare su conti sospetti di “cellule” terroristiche dovunque esse siano; questa attività ha ramificazione per quanto riguarda la vigilanza bancaria: negli Stati Uniti, sono state potenziate, negli ultimi due anni e mezzo, le funzioni e le risorse a disposizione del Tesoro – tramite l’Irsa, l’agenzia delle entrate Usa, e il Controller of Currency (una direzione generale di del ministero del Tesoro). Anche in Italia si è creata una direzione generale presso il ministero dell’Economia e delle finanze nell’ambito del Dipartimento del Tesoro. Dobbiamo chiederci se le nostre attività di vigilanza finanziaria siano attrezzate alla bisogna.
In terzo luogo, occorre ridurre la capacità d’attrazione, abbassando l’attenzione dei media e aumentando, al tempo stesso, il costo opportunità ai terroristi, nonché “offrendo alternative” a potenziali reclute del terrorismo. Secondo Bruno Frey, il decentramento politico e amministrativo può ridurre in misura significativa i benefici ai terroristi, in quanto implica un più forte controllo sociale. Più complicato “offrire alternative” a potenziali terroristi: ciò vuole dire “strategie negoziali” o, in termini di gergo economico, “cooperative”. Percorso che pochi governi sono pronti a seguire.
Ecco come gli economisti
possono combattere Al-Qaeda
di Giuseppe Pennisi
Soltanto pochi giorni fa, alla vigilia di Natale, prendendo spunto dall’attentato a Milano nei confronti del presidente del Consiglio, su Ffwebmagazine ho affrontato il tema del contributo che gli economisti possono dare alla lotta contro il terrorismo. Oggi, a cavallo quasi tra il 2009 ed il 2010, ritengo necessario tornare sul tema perché pochi sanno che da alcuni lustri i servizi anti-terrorismo dei maggiori paesi industrializzati a economia di mercato hanno “ruoli” specifici per economisti con il duplice scopo di individuare come il terrorismo si finanzia e utilizzare la strumentazione della disciplina economica per combattere il terrorismo. Le nuove indicazioni dell’esistenza di focolai terroristici in Europa, e anche in Italia, dovrebbero indurre a pensare all’istituzione di un apposito ruolo per gli specialisti di finanza e di economia al Viminale. Da tempo si sa che l’economia “sommersa” è una delle fonti privilegiate perché il terrorismo trovi finanziamenti anche in Europa (e in Italia in particolare, a ragione della dimensione del sommerso nel Pil). Un’analisi recentissima di Tolga Koker (Yale University) e Karlos Yordan (Drew University) traccia la geografia economica di un fenomeno poco studiato: la micro-finanza del terrorismo che spesso di annida in una rete articolata e molto diffusa (orchestrata da Al-Qaeda) dietro il paravento di fondazioni e associazioni ufficialmente a scopo caritatevole. Ciò non vuol dire – si badi bene – che tutte le moschee sono ruscelli che alimentano il fiume e il mulino di Bin Laden. Significa, però, che attorno a moschee si sviluppano fonti di finanziamento singolarmente forse modeste, ma che rappresentano un sostegno importante per una rete disseminata sul territorio. La strumentazione economica , aiutando a comprendere come funzione il sistema (ci sono molte analogie con l’impresa-rete su cui, proprio in Italia, sono stati effettuati lavori pionieristici) è un ausilio importante agli “operativi” che devono cercare (anche infiltrandosi nella rete) di bloccarne tempestivamente le azioni.
L’”economia del terrorismo” (nel senso di sviluppo della teoria economica del terrorismo e applicazioni d’analisi economica alla prevenzione dal terrorismo) ha avuto, per decenni, il suo centro all’Università di Chicago. Grazie a lavori effettuati a pochi chilometri dal Magnificent Mile (il lungolago della città dell’Illinois) è stato, ad esempio, possibile simulare, con l’ausilio della “teoria dei giochi” (specialmente dei “giochi a più livelli” ormai nella prassi delle scuole militari) le strategie e le tattiche di dirottamento aereo e ridurne, nell’arco di meno di un lustro, il numero dei dirottamenti da 30 a circa due l’anno. Gli “economisti del terrorismo” di Chicago hanno sviscerato l’”effetto di sostituzione” nelle strategie e nelle tattiche: a fronte dell’argine ai dirottamenti aerei, i terroristi si sono rivolti ad altri comparti, che, però, comportano costi maggiori e per essere attuati, richiedono risorse più ampie e risultati attesi molto più consistenti di quelli dei dirottamenti aerei.
In tempi più recenti, l’Università della California del Sud è diventato il fulcro americano più importante in materia: la figura di spicco è Todd Sandler. I lavori degli ultimi anni coniugano la “teoria dei giochi” con “la teoria economica dell’informazione e della comunicazione” e con paradigmi tratti dall’analisi dei mercati finanziari, quali la teoria delle opzioni e dei derivati. Da un lato, grazie a elaborati modelli esplicativi, questi studi documentano come il “terrorista razionale” cerchi risultati con vasto contenuto mediatico . Da un altro, le ricerche sugli “obiettivi anti-terroristi mirati” mostrano come un “anti-terrorismo a vasto raggio o a pioggia” avrebbe costi elevatissimi a fronte di risultati modesti; sono preferibili – affermano Todd Sandler e colleghi - strategie di prevenzione incentrate sulla decodificazione di segnali indiretti.
In Italia l’economia dell’informazione della comunicazione ha gradualmente trovato posto, negli ultimi tre lustri, tra le discipline insegnate nelle Facoltà di Economia delle maggiori università. Inoltre nel 2000-2006 si sono tenuti presso la Scuola superiore della Pubblica amministrazione (Sspa) corsi e percorsi formativi d’economia dell’informazione e comunicazione; sono stati purtroppo interrotti dal management nominato dal governo Prodi. Sarebbe auspicabile che riprendessero dato che da gennaio la Sspa avrà una nuova direzione. Con contenuti appropriati, tuttavia, potrebbero essere organizzati dalla Scuola superiore del ministero dell’Interno, anche in quanto seminari in materia vengono periodicamente tenuti al Nato Defense College a Roma e allo Staff College delle Nazioni Unite a Torino.
In Europa, il centro più importante di ricerche su questi temi è l’Università di Zurigo, dove gli studi economici sul terrorismo sono guidati da quel Bruno Frey che è anche uno dei maggiori teorici dell’”economia della felicità” e in passato ha contribuito in misura significativa alla teoria economica delle cultura e dei mercati delle arti sceniche. Altre sedi di rilievo sono quelle guidate da Mats Lundhal della Università di Stoccolma e da Kurt Konrad della Libera Università di Berlino.
Le analisi di più immediato effetto riguardano la strumentazione economica per disinnescare la rete finanziaria del terrorismo. Circa sette anni fa, un documento dell’amministrazione finanziaria degli Stati Uniti sui capitali all’estero della rete terroristica, ha documentato che almeno tre miliardi di dollari appartenuti al Governo di Saddam Hussein erano depositati in banche controllate dal governo di Damasco, soprattutto in Siria, Libano e Giordania. Di questo totale, 0,5 miliardi di dollari erano depositati in banche libanesi e una somma analoga in banche giordane. Degli altri due miliardi si sa poco o niente. Secondo lo studio, al momento dell’apertura delle ostilità, Saddam e i suoi avevano ben 1,7 miliardi di dollari in banche commerciali degli Stati Uniti, circa 600 presso la Banca dei Regolamenti Internazionali (Brs) a Basilea e in istituti di credito giapponesi. Di questi 2.45 miliardi di dollari, 300 milioni – ossia la metà di quanto trovato alla Brs – è stato restituito al (nuovo) governo iracheno; il resto è sotto sequestro. Queste risorse finanziarie sono state accantonate per uno scopo preciso che va ben oltre il supporto alla guerriglia in Irak; unitamente ad altre riserve e flussi (di cui è difficile stimare l’entità), servono al terrorismo che oggi richiede molto di più delle bombe, celate sotto i cappelli (chiamati a bombetta) dai nichilisti all’inizio del Novecento.
Un campo relativamente nuovo e di grande interesse è quello dell’analisi economica dell’impiego di kamizake reclutati tra giovani cresciuti in ambiente occidentale oppure “occidentalizzato” (i palestinesi nati e diventati adulti in Israele). Murihaf Jouejati della Università George Washington nella capitale Usa sottolinea come la scelta del suicidio-eccidio abbia determinanti economiche: i giovani musulmani, cresciuti negli Usa o in Europa, oppure nelle aree più occidentalizzate del Medio Oriente, lo compiono non per andare in un Paradiso in cui spesso non credono affatto, ma per sconfiggere il nemico in una guerra millenaria in cui l’intrusione occidentale avrebbe, agli occhi loro e dei loro maestri, tolto il primato economico, scientifico e culturale dell’Islam. Lo scontro con le libertà (e della democrazia e del mercato) rende più acuta la decisione di commettere gesti estremi come il suicidio-eccidio. Ciò spiega – come si è accennato in precedenza - la scelta di terroristi maturi e istruiti (oltre che probabilmente laicizzati) per le missioni più importanti. Attenzione: il suicidio-eccidio è contrario al Corano dove si prescrive che l’uomo non deve uccidere “neanche una formica” e la “guerra santa” è consentita unicamente per la riconquista e difesa dei “luoghi sacri”. Il kamikaze o è imbevuto di eresia, ossia di un’interpretazione distorta del Corano, oppure considera il suicidio-eccedio come strumento di una guerra laica tra civiltà necessariamente in forte contrapposizione.
Quali sono, dunque, alcune delle principali lezioni che si traggono dall’”economia dell’antiterrosismo”, ad esempio dai tre volumi di 1700 pagine curati da Todd Sandler e Keith Hartley, dai lavori di Bruno Frey della Università di Zurigo e da quelli di Mats Lundhal della Università di Stoccolma e di Kurt Konrad della Libera Università di Berlino? In primo luogo, il contenimento del terrorismo è un “bene pubblico internazionale”, che non può essere fornito da un solo paese e di cui beneficia tutta la comunità mondiale; dopo le risoluzioni Onu, anche Siria e Libano hanno dato la loro disponibilità a operare di concerto con il resto del mondo per bloccare i soldi del terrore.
In secondo luogo, ciò implica vigilare su conti sospetti di “cellule” terroristiche dovunque esse siano; questa attività ha ramificazione per quanto riguarda la vigilanza bancaria: negli Stati Uniti, sono state potenziate, negli ultimi due anni e mezzo, le funzioni e le risorse a disposizione del Tesoro – tramite l’Irsa, l’agenzia delle entrate Usa, e il Controller of Currency (una direzione generale di del ministero del Tesoro). Anche in Italia si è creata una direzione generale presso il ministero dell’Economia e delle finanze nell’ambito del Dipartimento del Tesoro. Dobbiamo chiederci se le nostre attività di vigilanza finanziaria siano attrezzate alla bisogna.
In terzo luogo, occorre ridurre la capacità d’attrazione, abbassando l’attenzione dei media e aumentando, al tempo stesso, il costo opportunità ai terroristi, nonché “offrendo alternative” a potenziali reclute del terrorismo. Secondo Bruno Frey, il decentramento politico e amministrativo può ridurre in misura significativa i benefici ai terroristi, in quanto implica un più forte controllo sociale. Più complicato “offrire alternative” a potenziali terroristi: ciò vuole dire “strategie negoziali” o, in termini di gergo economico, “cooperative”. Percorso che pochi governi sono pronti a seguire.
Il malessere nell'anno della "grande stabilizzazione" Il Velino 25 dicembre
Il malessere nell'anno della "grande stabilizzazione"
Roma, 25 dic (Velino) - Prendendo spunto dal calendario cinese (secondo cui l’anno lunisolare del Celeste Impero, che inizia a metà febbraio, sarà quello della “tigre”) numerosi quotidiani e periodici italiani stanno riempiendo le pagine delle loro testate , in questi giorni tra Natale e Capo d’Anno, con servizi ottimistici sulla “grande svolta” – una ripresa sostenuta dopo la crisi che dall’estate 2007 ha attanagliato gran parte del mondo (soprattutto quello occidentale).
Non voglio essere un bastian contrario, ma se si guardano con attenzione i dati e le previsioni econometriche, ci si accorge che “la tigre” caratterizzerà principalmente i mercati emergenti- grazie principalmente ad una forte domanda interna. Nei mercati “maturi” (Nord America, Europa), la domanda agirà principalmente sotto la spinta dell’intervento pubblico e dell’Himalaya del debito risultante sia da salvataggi bancari ed industriali sia politiche monetarie e di bilancio mirate a contrastare le recessione. Negli stessi mercati emergenti non sono tutte rose e fiori. In Cina soprattutto, 150 milioni di disoccupati minano la pace sociale (e secondo alcuni esperti potrebbero portare alla dissoluzione del Celeste Impero con la bandiera rossa). Gli stessi BRICs (Brasile, Russia, India e Cina) visti come gruppo non sono esenti da fragilità e rischi: vi affluiscono capitali (secondo il più recente rapporto annuale dell’Unctad, l’organo delle Nazioni Unite per il commercio e lo sviluppo, sono la metà preferita di chi investe all’estero) ma sono densi di incertezze e (ce lo insegna la crisi asiatica 1996-98) i capitali esteri potrebbero scappare (e portare con se parte dei capitali di origine locale) con la stessa fretta con cui stanno affluendo.
In breve, pare iper-ottimista pensare al 2010 come all’anno di un grande balzo in avanti. Anche perché non è chiara l’azione della politica, soprattutto in materia di exit strategy – ciò che si è visto sino ad ora è contraddittorio e lacunoso. Meglio darsi come obiettivo quello che il 2010 sia l’anno della “grande stabilizzazione”. Pure in questo caso è essenziale una risposta politica forte e chiara in quanto la “grande stabilizzazione” richiede un riassetto degli squilibri finanziari (e quindi una modifica del rapporto di cambio tra dollaro Usa e yan cinese), una più sostenuta domanda privata interna nei Paesi Ocse , una riduzione programmata e concertata dell’Himalaya del debito pubblico e privato in alcuni Paesi occidentali (Usa in primo luogo), un freno al protezionismo strisciante (sempre più palese nelle ultime settimane nel 2009), strategie per alleviare, prima, e ridurre, poi, la disoccupazione (almeno quella aggiuntiva creata dalla crisi). Tutti compiti su cui è facile fare scorrere fiumi di parole in comunicati ufficiali ma difficile prendere azioni concrete.
L’anno della “grande stabilizzazione” (se ci sarà) verrà accompagnato verosimilmente anche da malessere. E’ utile vedere come la tanto criticata azione del Governo italiano (da parte dell’opposizione e di grillini e di dipietrini assortiti) abbia avuto un esito positivo: nel 2010, l’Italia sarà con la Germania e la Repubblica Ceca uno dei tre Paesi con il più basso “indice di malessere” nella nuova versione (sommatoria da Pierre Cailleteau, un economista francese distinto e distante dalla nostre beghe) – l’indice è, in questa versione, la sommatoria di tasso di disoccupazione e di indebitamento netto della pubblica amministrazione in percentuale del pil. Un’indicazione che le vituperate politiche tremontiane stanno facendo centro.
(Giuseppe Pennisi) 25 dic 2009 13:49
Roma, 25 dic (Velino) - Prendendo spunto dal calendario cinese (secondo cui l’anno lunisolare del Celeste Impero, che inizia a metà febbraio, sarà quello della “tigre”) numerosi quotidiani e periodici italiani stanno riempiendo le pagine delle loro testate , in questi giorni tra Natale e Capo d’Anno, con servizi ottimistici sulla “grande svolta” – una ripresa sostenuta dopo la crisi che dall’estate 2007 ha attanagliato gran parte del mondo (soprattutto quello occidentale).
Non voglio essere un bastian contrario, ma se si guardano con attenzione i dati e le previsioni econometriche, ci si accorge che “la tigre” caratterizzerà principalmente i mercati emergenti- grazie principalmente ad una forte domanda interna. Nei mercati “maturi” (Nord America, Europa), la domanda agirà principalmente sotto la spinta dell’intervento pubblico e dell’Himalaya del debito risultante sia da salvataggi bancari ed industriali sia politiche monetarie e di bilancio mirate a contrastare le recessione. Negli stessi mercati emergenti non sono tutte rose e fiori. In Cina soprattutto, 150 milioni di disoccupati minano la pace sociale (e secondo alcuni esperti potrebbero portare alla dissoluzione del Celeste Impero con la bandiera rossa). Gli stessi BRICs (Brasile, Russia, India e Cina) visti come gruppo non sono esenti da fragilità e rischi: vi affluiscono capitali (secondo il più recente rapporto annuale dell’Unctad, l’organo delle Nazioni Unite per il commercio e lo sviluppo, sono la metà preferita di chi investe all’estero) ma sono densi di incertezze e (ce lo insegna la crisi asiatica 1996-98) i capitali esteri potrebbero scappare (e portare con se parte dei capitali di origine locale) con la stessa fretta con cui stanno affluendo.
In breve, pare iper-ottimista pensare al 2010 come all’anno di un grande balzo in avanti. Anche perché non è chiara l’azione della politica, soprattutto in materia di exit strategy – ciò che si è visto sino ad ora è contraddittorio e lacunoso. Meglio darsi come obiettivo quello che il 2010 sia l’anno della “grande stabilizzazione”. Pure in questo caso è essenziale una risposta politica forte e chiara in quanto la “grande stabilizzazione” richiede un riassetto degli squilibri finanziari (e quindi una modifica del rapporto di cambio tra dollaro Usa e yan cinese), una più sostenuta domanda privata interna nei Paesi Ocse , una riduzione programmata e concertata dell’Himalaya del debito pubblico e privato in alcuni Paesi occidentali (Usa in primo luogo), un freno al protezionismo strisciante (sempre più palese nelle ultime settimane nel 2009), strategie per alleviare, prima, e ridurre, poi, la disoccupazione (almeno quella aggiuntiva creata dalla crisi). Tutti compiti su cui è facile fare scorrere fiumi di parole in comunicati ufficiali ma difficile prendere azioni concrete.
L’anno della “grande stabilizzazione” (se ci sarà) verrà accompagnato verosimilmente anche da malessere. E’ utile vedere come la tanto criticata azione del Governo italiano (da parte dell’opposizione e di grillini e di dipietrini assortiti) abbia avuto un esito positivo: nel 2010, l’Italia sarà con la Germania e la Repubblica Ceca uno dei tre Paesi con il più basso “indice di malessere” nella nuova versione (sommatoria da Pierre Cailleteau, un economista francese distinto e distante dalla nostre beghe) – l’indice è, in questa versione, la sommatoria di tasso di disoccupazione e di indebitamento netto della pubblica amministrazione in percentuale del pil. Un’indicazione che le vituperate politiche tremontiane stanno facendo centro.
(Giuseppe Pennisi) 25 dic 2009 13:49
giovedì 24 dicembre 2009
IL “MODERNO” TERRORISMO Il Tempo 24 dicembre
IL “MODERNO” TERRORISMO
Giuseppe Pennisi
Siamo alle prese con un terrorismo ben differente di quello con cui ci siamo prevalentemente confrontati negli ultimi dieci. Non è, come l’islamico, basato in gran misura sul risentimento di avere perso, mille anni fa, il primato tecnologico, artistico, culturale oltre che di reddito e di ricchezza. E’ perché . come il terrorismo delle “brigate rosse”, ha alle sue fondamenta una matrice puramente ideologica, le cui origini si collegano , come dimostrato dagli studi di Luciano Pellicani di un quarto , all’eresia gnostica del II e II secolo dell’Era Cristiana. Un lavoro nuovo di zecca (Alessandro Orsini Anatomia delle Brigate Rosse- Le radici ideologiche del terrorismo rivoluzionario, Rubettino) apporta un contributo originale Analizza come spiegare il terrorismo in Paesi democratici e prosperi (dove l’opposizione, o le opposizioni hanno voce ed i livelli medio di reddito sono elevati) non dove c’è un’occupazione straniera (e si combatte per la liberazione) od è in corso un rivoluzione. Il terrorismo “ideologico” striscia, come un fiume carsico, sotto la superficie della società occidentale, è difficile da affrontare, è irrazionale e può risorgere in qualsiasi momento. Soprattutto se “cattivi maestri”, consapevoli della sua esistenza annidata nelle sedi dove meno se lo si aspetta, sanno come attizzare il fuoco. E’il terrorismo nei cui confronti si è più indifesi perché – come visto su Il Tempo del 3 dicembre –nei confronti degli altri pure la scienza economica può dare un contributo.
Giuseppe Pennisi
Siamo alle prese con un terrorismo ben differente di quello con cui ci siamo prevalentemente confrontati negli ultimi dieci. Non è, come l’islamico, basato in gran misura sul risentimento di avere perso, mille anni fa, il primato tecnologico, artistico, culturale oltre che di reddito e di ricchezza. E’ perché . come il terrorismo delle “brigate rosse”, ha alle sue fondamenta una matrice puramente ideologica, le cui origini si collegano , come dimostrato dagli studi di Luciano Pellicani di un quarto , all’eresia gnostica del II e II secolo dell’Era Cristiana. Un lavoro nuovo di zecca (Alessandro Orsini Anatomia delle Brigate Rosse- Le radici ideologiche del terrorismo rivoluzionario, Rubettino) apporta un contributo originale Analizza come spiegare il terrorismo in Paesi democratici e prosperi (dove l’opposizione, o le opposizioni hanno voce ed i livelli medio di reddito sono elevati) non dove c’è un’occupazione straniera (e si combatte per la liberazione) od è in corso un rivoluzione. Il terrorismo “ideologico” striscia, come un fiume carsico, sotto la superficie della società occidentale, è difficile da affrontare, è irrazionale e può risorgere in qualsiasi momento. Soprattutto se “cattivi maestri”, consapevoli della sua esistenza annidata nelle sedi dove meno se lo si aspetta, sanno come attizzare il fuoco. E’il terrorismo nei cui confronti si è più indifesi perché – come visto su Il Tempo del 3 dicembre –nei confronti degli altri pure la scienza economica può dare un contributo.
mercoledì 23 dicembre 2009
Sensuale ma polverosa La Traviata di Zeffirelli Milano Finanza 24 dicembre
Sensuale ma polverosa La Traviata di Zeffirelli
Di Giuseppe Pennisi
InScena
Il Teatro dell'Opera di Roma chiude la stagione 2009 e inaugura quella del 2010 con due regie di Franco Zeffirelli: La Traviata, in scena fino al 31 dicembre e Falstaff, sul palco dal 23 al 31 gennaio. Il regista si cimenta ancora con La Traviata in una versione simile a quella in cartellone al Metropolitan da un quarto di secolo e analoga alla versione presentata a Roma circa tre anni fa. La vicenda è mostrata in flashback (con la morte di Violetta durante l'ouverture), l'impianto è una struttura unica a tre livelli, proiezioni computerizzate, sipari e scene dipinte. Pur se curato nei dettagli, è spettacolo un po' polveroso rispetto ad allestimenti, anche italiani, degli ultimi dieci anni. I giochi di luci e di colori rispecchiano partitura e stati d'animo: al terzo atto al verde luminoso del giardino si sostituisce il rosso e al nero della festa il grigio spettrale del finale. Gli specchi danno a volte l'illusione di portare platea e palchi in palcoscenico. È invece forte la carica erotica grazie a baci e amplessi che dominano il palcoscenico. Anche Gianluigi Gelmetti offre una concertazione sensuale dilatando i tempi nei momenti chiave. Sotto il profilo vocale c'era grande attesa per il debutto di Daniela Dessì nel ruolo, ma è stato annullato a causa di un dissidio con il regista. Si alternano sulla scena tre cast giovani di valore: la coppia protagonista è formata da Cinzia Forte, Myrtò Papatanasiu, Mina Yamazaki, Roberto De Biasio, Antonio Gandìa, Stefan Pop. (riproduzione riservata)
Di Giuseppe Pennisi
InScena
Il Teatro dell'Opera di Roma chiude la stagione 2009 e inaugura quella del 2010 con due regie di Franco Zeffirelli: La Traviata, in scena fino al 31 dicembre e Falstaff, sul palco dal 23 al 31 gennaio. Il regista si cimenta ancora con La Traviata in una versione simile a quella in cartellone al Metropolitan da un quarto di secolo e analoga alla versione presentata a Roma circa tre anni fa. La vicenda è mostrata in flashback (con la morte di Violetta durante l'ouverture), l'impianto è una struttura unica a tre livelli, proiezioni computerizzate, sipari e scene dipinte. Pur se curato nei dettagli, è spettacolo un po' polveroso rispetto ad allestimenti, anche italiani, degli ultimi dieci anni. I giochi di luci e di colori rispecchiano partitura e stati d'animo: al terzo atto al verde luminoso del giardino si sostituisce il rosso e al nero della festa il grigio spettrale del finale. Gli specchi danno a volte l'illusione di portare platea e palchi in palcoscenico. È invece forte la carica erotica grazie a baci e amplessi che dominano il palcoscenico. Anche Gianluigi Gelmetti offre una concertazione sensuale dilatando i tempi nei momenti chiave. Sotto il profilo vocale c'era grande attesa per il debutto di Daniela Dessì nel ruolo, ma è stato annullato a causa di un dissidio con il regista. Si alternano sulla scena tre cast giovani di valore: la coppia protagonista è formata da Cinzia Forte, Myrtò Papatanasiu, Mina Yamazaki, Roberto De Biasio, Antonio Gandìa, Stefan Pop. (riproduzione riservata)
Zeffirelli's Traviata in Rome , La Scena Musicale 23 dicembre
Zeffirelli's Traviata in Rome
by Giuseppe Pennisi
Although Maestro Franco Zeffirelli is approaching the age of 90 (more specifically he will be 87 in a few months), he is still at centre stage of Opera and theatre in Italy and abroad. Next summer, all the Arena di Verona productions will be signed by him. Last September, the comparatively new management of the Metropolitan Opera’s decision to start the 2009-2010 season with a new production of Tosca with the stage direction of Luc Bondy caused an uproar because the audience still wanted Zeffirelli’s 25 year-old staging.
In Rome, the Teatro dell’Opera has serious financial difficulties, and for the last seven months, it has been managed by the Mayor of the City. A new Board was appointed on December 14th – the first meeting is scheduled on December 22nd. Again, in the midst of these troubles, Maestro Zeffirelli is right at the top of Roman and Italian opera goers’ attention. He is the Teatro dell’Opera’s pick for productions to reinvigorate finances; the last production of the 2009 Roman season is his Traviata. The first production of the 2010 Roman season will be his Falstaff, starting January 23rd.
This Traviata was served on a golden plate with, as an appetizer, a major upheaval in the Italian musical world and a likely appendix from the Roman Court of Law. As discussed later in this article, the staging is not new – a very similar Zeffirelli’s Traviata was performed in Rome in 2007. The main attraction was the debut in the title role of Ms. Daniela Dessì, with her life companion Mr. Fabio Armilliato as Alfredo; they were expected to sing at two gala performances on Dec 27th and New Year’s Eve. But Zeffirelli objected to her taking up Violetta on the grounds that she was getting along in age and weight. There was no Artistic Director to counteract him. Things got really heated at the press conference when strong words were exchanged. Ms Dessì cancelled all her contracts with the Rome Opera, including her much awaited performance as Alice Ford in Falstaff. Mr. Armilliato followed suit. Now, the matter is in the hands of lawyers and judges. Finally, during the press conference, Maestro Zeffirelli delivered a strong speech against the new way of staging Traviata (and other operas) in brothels (Irina Brook, Graham Vick), cemeteries (Laurent Pelly) as well as against updating opera plots to our time and age. This stirred up a lively controversy also on the regular (e.g. not specialized) information press. In short, on Dec 18th, at the opening of this Traviata, the air in the Rome Opera House was so thick it could be cut with a knife. Before the performance started, Zefferilli’s fans and foes were looking in anger at one another in the grand foyer.
As for the performance, this review deals mostly with the staging because I will treat the more specific musical aspects in the British Music and Vision, available also on the web at www.mvdaily.com.
First, Maestro Zeffirelli has several Traviata in his bag. This is either his eight or his ninth. I would call it his “8 and ½” as a nod to Fellini’s 1963 movie. His eighth Traviata was shown in Rome in 2007. In turn, this eighth Traviata was based on a production that the Met has shown for nearly a quarter of a century – changing, of course, the singers as the years went by. There are two significant modifications between Rome’s 2007 Traviata and the long standing Met production: a) in Rome, the plot unfolds as a long flashback (with Violetta dying during the overture to Act I) whereas the Met follows the 1853 libretto scrupulously; b) technology is skillfully used, with painted scenes replaced by computerized projection, this all fully mastered by Maestro Zeffirelli himself (in spite of his age). As compared with the 2007 showing, this “8 and ½” has a different choreography in the ballet of Act II.
Second, Maestro Zeffirelli’s productions are always bigger than life. They mean to bring the audience to the wide wild world of Opera, as the Lyric Opera of Baltimore called itself way back in the Seventies with a view of attracting a newer audience. In this Traviata, the stage has three levels and lights change with the mood of the scene and with the music – e.g. in Act II, lighting is lushly green in Violetta’s villa, terrific and sinful red at Flora’s party, and ghostly grey in the final concertato. Through computerized mirrors, the boxes and the orchestra seats appear on the stage, with the audience becoming part of the performance.
Third, acting is quite well cared for. Singers do act as actors in a Broadway Playhouse. The huge mass of extras, mines and dancers do not crowd one another. Fourth and finally, the conductor is in line with the stage director not vice versa.
For Maestro Zeffirelli Traviata is based on youth and sensual passion, not on any socialist and related class-struggle view of the world like in some recent European productions. Thus, Maestro Gianluigi Zelmetti conducts with the slower tempos required to emphasize love and passion. There are three different casts in main roles: Cinzia Forte, Myrtò Papatanasiu, Mina Yamazaki as Violetta, and Roberto De Biasio, Antonio Gandìa, Stefano Pop as Alfredo.
This is Maestro Zeffirelli; either you like him or you hate him. There is no halfway. Normally, we know quality of a pudding when we eat it. In spite of the controversies referred to above, the nine performances were sold out already in September and two special previews were organized by charities because of the great demand for tickets. Box office sales are a good indicator of what operagoers like or do not like. On December 18th,, at curtain call, Zeffirelli’s fans overturned his foes.
The Playbill
Musical Director Gianluigi Gelmetti
Chorus Master Andrea Giorgi
Stage sets and Direction Franco Zeffirelli
Customs Raimonda Gaetani
Choreography Vladimir Vassiliev
Liighting Agostino Angelini
Violetta Valery
Myrtò Papatanasiu (18, 20, 22, 31) /
Cinzia Forte (19, 23, 29) /
Mina Yamazaki (27, 30)
Flora Bervoix Katarina Nikolic (18, 20, 22, 27, 30) /
Anastasia Boldyreva (19, 23, 29, 31)
Annina Antonella Rondinone (18, 20, 29, 31) /
Mariella Guarnera (19, 22, 23, 27, 30)
Alfredo Antonio Gandìa (18, 20, 22, 29) /
Roberto De Biasio (19, 23, 30) /
Stefan Pop (27, 31)
Germont Carlo Guelfi (18, 20, 22, 27, 30) /
Dario Solari (19, 23, 29, 31)
Gaston Gianluca Floris (18, 20, 22, 29, 31) /
Cristiano Cremonini
Baron Douphol Angelo Nardinocchi (18, 20, 22, 29, 31) /
Gianpiero Ruggeri (19, 23, 27, 30)
Marquis d’Obigny Andrea Snarski (18, 20, 22, 29, 31) /
Matteo Ferrara (19, 23, 27, 30)
Doctor Grenvil Carlo Di Cristoforo (18, 20, 22, 29, 31) /
Luca Dell’Amico (19, 23, 27, 30)
Giuseppe Giuseppe Auletta /
Luigi Petroni /
Maurizio Rossi
Flora ‘s house help Riccardo Coltellacci /
Fabio Tinalli
Commissionaire Andrea Buratti /
Francesco Luccioni /
Antonio Taschini
•
• ORCHESTRA, CHOIR AND BALLET OF TEATRO DELL’OPERA
PRODUCTION OF THE TEATRO DELL’OPERA DI ROMA
by Giuseppe Pennisi
Although Maestro Franco Zeffirelli is approaching the age of 90 (more specifically he will be 87 in a few months), he is still at centre stage of Opera and theatre in Italy and abroad. Next summer, all the Arena di Verona productions will be signed by him. Last September, the comparatively new management of the Metropolitan Opera’s decision to start the 2009-2010 season with a new production of Tosca with the stage direction of Luc Bondy caused an uproar because the audience still wanted Zeffirelli’s 25 year-old staging.
In Rome, the Teatro dell’Opera has serious financial difficulties, and for the last seven months, it has been managed by the Mayor of the City. A new Board was appointed on December 14th – the first meeting is scheduled on December 22nd. Again, in the midst of these troubles, Maestro Zeffirelli is right at the top of Roman and Italian opera goers’ attention. He is the Teatro dell’Opera’s pick for productions to reinvigorate finances; the last production of the 2009 Roman season is his Traviata. The first production of the 2010 Roman season will be his Falstaff, starting January 23rd.
This Traviata was served on a golden plate with, as an appetizer, a major upheaval in the Italian musical world and a likely appendix from the Roman Court of Law. As discussed later in this article, the staging is not new – a very similar Zeffirelli’s Traviata was performed in Rome in 2007. The main attraction was the debut in the title role of Ms. Daniela Dessì, with her life companion Mr. Fabio Armilliato as Alfredo; they were expected to sing at two gala performances on Dec 27th and New Year’s Eve. But Zeffirelli objected to her taking up Violetta on the grounds that she was getting along in age and weight. There was no Artistic Director to counteract him. Things got really heated at the press conference when strong words were exchanged. Ms Dessì cancelled all her contracts with the Rome Opera, including her much awaited performance as Alice Ford in Falstaff. Mr. Armilliato followed suit. Now, the matter is in the hands of lawyers and judges. Finally, during the press conference, Maestro Zeffirelli delivered a strong speech against the new way of staging Traviata (and other operas) in brothels (Irina Brook, Graham Vick), cemeteries (Laurent Pelly) as well as against updating opera plots to our time and age. This stirred up a lively controversy also on the regular (e.g. not specialized) information press. In short, on Dec 18th, at the opening of this Traviata, the air in the Rome Opera House was so thick it could be cut with a knife. Before the performance started, Zefferilli’s fans and foes were looking in anger at one another in the grand foyer.
As for the performance, this review deals mostly with the staging because I will treat the more specific musical aspects in the British Music and Vision, available also on the web at www.mvdaily.com.
First, Maestro Zeffirelli has several Traviata in his bag. This is either his eight or his ninth. I would call it his “8 and ½” as a nod to Fellini’s 1963 movie. His eighth Traviata was shown in Rome in 2007. In turn, this eighth Traviata was based on a production that the Met has shown for nearly a quarter of a century – changing, of course, the singers as the years went by. There are two significant modifications between Rome’s 2007 Traviata and the long standing Met production: a) in Rome, the plot unfolds as a long flashback (with Violetta dying during the overture to Act I) whereas the Met follows the 1853 libretto scrupulously; b) technology is skillfully used, with painted scenes replaced by computerized projection, this all fully mastered by Maestro Zeffirelli himself (in spite of his age). As compared with the 2007 showing, this “8 and ½” has a different choreography in the ballet of Act II.
Second, Maestro Zeffirelli’s productions are always bigger than life. They mean to bring the audience to the wide wild world of Opera, as the Lyric Opera of Baltimore called itself way back in the Seventies with a view of attracting a newer audience. In this Traviata, the stage has three levels and lights change with the mood of the scene and with the music – e.g. in Act II, lighting is lushly green in Violetta’s villa, terrific and sinful red at Flora’s party, and ghostly grey in the final concertato. Through computerized mirrors, the boxes and the orchestra seats appear on the stage, with the audience becoming part of the performance.
Third, acting is quite well cared for. Singers do act as actors in a Broadway Playhouse. The huge mass of extras, mines and dancers do not crowd one another. Fourth and finally, the conductor is in line with the stage director not vice versa.
For Maestro Zeffirelli Traviata is based on youth and sensual passion, not on any socialist and related class-struggle view of the world like in some recent European productions. Thus, Maestro Gianluigi Zelmetti conducts with the slower tempos required to emphasize love and passion. There are three different casts in main roles: Cinzia Forte, Myrtò Papatanasiu, Mina Yamazaki as Violetta, and Roberto De Biasio, Antonio Gandìa, Stefano Pop as Alfredo.
This is Maestro Zeffirelli; either you like him or you hate him. There is no halfway. Normally, we know quality of a pudding when we eat it. In spite of the controversies referred to above, the nine performances were sold out already in September and two special previews were organized by charities because of the great demand for tickets. Box office sales are a good indicator of what operagoers like or do not like. On December 18th,, at curtain call, Zeffirelli’s fans overturned his foes.
The Playbill
Musical Director Gianluigi Gelmetti
Chorus Master Andrea Giorgi
Stage sets and Direction Franco Zeffirelli
Customs Raimonda Gaetani
Choreography Vladimir Vassiliev
Liighting Agostino Angelini
Violetta Valery
Myrtò Papatanasiu (18, 20, 22, 31) /
Cinzia Forte (19, 23, 29) /
Mina Yamazaki (27, 30)
Flora Bervoix Katarina Nikolic (18, 20, 22, 27, 30) /
Anastasia Boldyreva (19, 23, 29, 31)
Annina Antonella Rondinone (18, 20, 29, 31) /
Mariella Guarnera (19, 22, 23, 27, 30)
Alfredo Antonio Gandìa (18, 20, 22, 29) /
Roberto De Biasio (19, 23, 30) /
Stefan Pop (27, 31)
Germont Carlo Guelfi (18, 20, 22, 27, 30) /
Dario Solari (19, 23, 29, 31)
Gaston Gianluca Floris (18, 20, 22, 29, 31) /
Cristiano Cremonini
Baron Douphol Angelo Nardinocchi (18, 20, 22, 29, 31) /
Gianpiero Ruggeri (19, 23, 27, 30)
Marquis d’Obigny Andrea Snarski (18, 20, 22, 29, 31) /
Matteo Ferrara (19, 23, 27, 30)
Doctor Grenvil Carlo Di Cristoforo (18, 20, 22, 29, 31) /
Luca Dell’Amico (19, 23, 27, 30)
Giuseppe Giuseppe Auletta /
Luigi Petroni /
Maurizio Rossi
Flora ‘s house help Riccardo Coltellacci /
Fabio Tinalli
Commissionaire Andrea Buratti /
Francesco Luccioni /
Antonio Taschini
•
• ORCHESTRA, CHOIR AND BALLET OF TEATRO DELL’OPERA
PRODUCTION OF THE TEATRO DELL’OPERA DI ROMA
lunedì 21 dicembre 2009
As Active As Ever , Music & Vision
Ensemble
As Active As Ever
GIUSEPPE PENNISI experiences
Zeffirelli's latest 'La traviata'
Franco Zeffirelli is alive and well in his villas near Rome and near Naples. He is also at the center of the musical scene -- in Italy and abroad. He is approaching the age of ninety. His motto is 'if I rest, I rust'. Thus, the maestro is as active as ever. The Rome's Teatro dell'Opera is closing its 2009 season with a 'new' -- so to say -- production of his Traviata -- his 8½th, according to my computation because his Traviata shown in Rome in April 2007 was his 8th and this version has only a few minor changes, mostly the Act II choreography. The Treatro dell'Opera will open its 2010 season with Zeffirelli's new Falstaff -- most likely a remake of his much acclaimed 1964 production. Also he signs all the productions of this Summer Arena di Verona Festival and has a couple of stage plays under preparation.
He was a member of the Italian Parliament, but, believe me, he is not a smooth politician. Before the current Traviata -- on stage until the 31 December 2009 gala -- he held a press conference where he announced the firing of the protagonist -- Daniela Dessì, whose début in the role was much awaited -- because in his opinion, she was too old to be Violetta. In the same conference, he attacked 'modern' stage directing, updating of librettos to our age and time and opera houses' management in general. A Zeffirelli production -- we know -- is larger than life: sumptuous, carefully detailed, with lavish sets and plenty of extras, but vary faithful to the libretto. In Italy, and elsewhere, there are two parties: Zeffirelli's fans -- who love the wild wide world of opera as it has been for a couple of centuries -- and Zeffirelli's foes -- who think that opera should urgently and badly be updated so as not to lose its audience and also to attract younger audience members. On the basis of this production of Traviata, I dealt with these issues in La Scena Musicale (scena.org) where interested readers can see my views.
In this review, I focus on the musical aspects because, in Zeffirelli's opinion, the conductor, the orchestra, the soloists and the chorus must be in line with the director's reading of both the text and the score. Traviata is the last of the three operas called Verdi's 'popular trilogy'. Musically, the most debated topic can be called 'the high E flat' question -- viz: if at the end of Act I, the soprano should conclude the aria Sempre Libera with a 'high E flat'. This is a real virtuoso note -- at which the audience breaks into an enthusiastic applause. Zeffirelli's 8½th Traviata does not include 'the high E flat', not because the singers he selects cannot reach such a height but because Verdi never wrote such a note in the score. The 'high E flat' was added by sopranos who wanted to show off their bravura; gradually, it became part of the tradition.
Myrtò Papatanasiu during the overture to 'La traviata'. Photo © 2009 Corrado Maria Falsini
Myrtò Papatanasiu during the overture to 'La traviata'. Photo © 2009 Corrado Maria Falsini
On 18 December 2009, the opening night of the production, there was no 'high E flat'. In the Rome theatre, Zeffirelli's foes were immediately ready to point out that to please the director, second-choice singers had been hired. I wish they would read any critical edition of the score before taking the 'high E flat' as a battle flag.
Myrtò Papatanasiu, Antonio Gandìa and the chorus in the 'Traviata' toasting scene. Photo © 2009 Corrado Maria Falsini
Myrtò Papatanasiu, Antonio Gandìa and the chorus in the 'Traviata' toasting scene. Photo © 2009 Corrado Maria Falsini
Let us move on to Gianluigi Gelmetti's conducting. He worked closely with Zeffirelli. Under his baton, the music of Traviata spreads like a veil of sorrow over the whole story and has the power to evoke the atmosphere. This is very much in line with Zeffirelli's staging of Traviata as a flashback: during the introductory overture, we see Violetta dying. The plot is presented through her memory whilst she is passing away. Gelmetti gives the right tint to such a reading of both the text and the score: the few strongly-drawn scenes, like the Act I drinking scene and Flora's party in Act II, are musically pale beside the broadly developed lyric scenes. The accent is on the transmutation of spiritual happenings and emotions into music, on melody, on the anticipation of Verdi's future development. When Verdi composed Traviata, he was working towards new ways to add intensity to melodrama, even if conventional devices still recur in the rhythms and the accompanying passages. Gelmetti's musical direction interprets this moment of transition very well. Violetta's brilliant coloratura in Sempre Libera is not florid ornamentation but the expression of her frivolous and superficial way of living (before meeting Alfredo); there is no coloratura in the rest of the opera -- even though there would be many an opportunity (and Donizetti would have jumped on them all). Thus, Ms Myrtò Papatanasiu, the protagonist, is right in not adding the 'high E flat' and delivering the aria with melancholy for a world she had just decided to leave. Gelmetti keeps the orchestra very much in the background while the bel canto vocal lines carry the melody through (as in Bellini's writing); alone, it serves to define the character and the deeper content of the music.
The Concertato at the end of Act II of 'La traviata'. Photo © 2009 Corrado Maria Falsini
The Concertato at the end of Act II of 'La traviata'. Photo © 2009 Corrado Maria Falsini
Alfredo is more vigorously defined; his love song (Di quell'amor un palpito) recurs as a leitmotiv and dies away in a sorrowful violin solo at Violetta's death. The other leitmotiv is Violetta's Act II Amani, Alfredo: a fervent tune in both Act I and Act III preludes. Gelmetti and Papatanasiu did not have an equally good Alfredo: Antonio Gandìa's singing is rather monotonous, whilst an agile, velvet voice is needed. He was the weak spot of the evening. All the others were up to a good standard.
Myrtò Papatanasiu as Violetta, dying in Act III of 'La traviata'. Photo © 2009 Corrado Maria Falsini
Myrtò Papatanasiu as Violetta, dying in Act III of 'La traviata'. Photo © 2009 Corrado Maria Falsini
A final comment: the nine scheduled performances were sold out in September, and two special previews were organized by charities because of the great demand for tickets. Box office is a good indicator of opera goers' likes and dislikes. At the curtain calls on 18 December 2009, Zeffirelli's fans overturned Zeffirelli's foes.
Copyright © 22 December 2009 Giuseppe Pennisi,
Rome, Italy
As Active As Ever
GIUSEPPE PENNISI experiences
Zeffirelli's latest 'La traviata'
Franco Zeffirelli is alive and well in his villas near Rome and near Naples. He is also at the center of the musical scene -- in Italy and abroad. He is approaching the age of ninety. His motto is 'if I rest, I rust'. Thus, the maestro is as active as ever. The Rome's Teatro dell'Opera is closing its 2009 season with a 'new' -- so to say -- production of his Traviata -- his 8½th, according to my computation because his Traviata shown in Rome in April 2007 was his 8th and this version has only a few minor changes, mostly the Act II choreography. The Treatro dell'Opera will open its 2010 season with Zeffirelli's new Falstaff -- most likely a remake of his much acclaimed 1964 production. Also he signs all the productions of this Summer Arena di Verona Festival and has a couple of stage plays under preparation.
He was a member of the Italian Parliament, but, believe me, he is not a smooth politician. Before the current Traviata -- on stage until the 31 December 2009 gala -- he held a press conference where he announced the firing of the protagonist -- Daniela Dessì, whose début in the role was much awaited -- because in his opinion, she was too old to be Violetta. In the same conference, he attacked 'modern' stage directing, updating of librettos to our age and time and opera houses' management in general. A Zeffirelli production -- we know -- is larger than life: sumptuous, carefully detailed, with lavish sets and plenty of extras, but vary faithful to the libretto. In Italy, and elsewhere, there are two parties: Zeffirelli's fans -- who love the wild wide world of opera as it has been for a couple of centuries -- and Zeffirelli's foes -- who think that opera should urgently and badly be updated so as not to lose its audience and also to attract younger audience members. On the basis of this production of Traviata, I dealt with these issues in La Scena Musicale (scena.org) where interested readers can see my views.
In this review, I focus on the musical aspects because, in Zeffirelli's opinion, the conductor, the orchestra, the soloists and the chorus must be in line with the director's reading of both the text and the score. Traviata is the last of the three operas called Verdi's 'popular trilogy'. Musically, the most debated topic can be called 'the high E flat' question -- viz: if at the end of Act I, the soprano should conclude the aria Sempre Libera with a 'high E flat'. This is a real virtuoso note -- at which the audience breaks into an enthusiastic applause. Zeffirelli's 8½th Traviata does not include 'the high E flat', not because the singers he selects cannot reach such a height but because Verdi never wrote such a note in the score. The 'high E flat' was added by sopranos who wanted to show off their bravura; gradually, it became part of the tradition.
Myrtò Papatanasiu during the overture to 'La traviata'. Photo © 2009 Corrado Maria Falsini
Myrtò Papatanasiu during the overture to 'La traviata'. Photo © 2009 Corrado Maria Falsini
On 18 December 2009, the opening night of the production, there was no 'high E flat'. In the Rome theatre, Zeffirelli's foes were immediately ready to point out that to please the director, second-choice singers had been hired. I wish they would read any critical edition of the score before taking the 'high E flat' as a battle flag.
Myrtò Papatanasiu, Antonio Gandìa and the chorus in the 'Traviata' toasting scene. Photo © 2009 Corrado Maria Falsini
Myrtò Papatanasiu, Antonio Gandìa and the chorus in the 'Traviata' toasting scene. Photo © 2009 Corrado Maria Falsini
Let us move on to Gianluigi Gelmetti's conducting. He worked closely with Zeffirelli. Under his baton, the music of Traviata spreads like a veil of sorrow over the whole story and has the power to evoke the atmosphere. This is very much in line with Zeffirelli's staging of Traviata as a flashback: during the introductory overture, we see Violetta dying. The plot is presented through her memory whilst she is passing away. Gelmetti gives the right tint to such a reading of both the text and the score: the few strongly-drawn scenes, like the Act I drinking scene and Flora's party in Act II, are musically pale beside the broadly developed lyric scenes. The accent is on the transmutation of spiritual happenings and emotions into music, on melody, on the anticipation of Verdi's future development. When Verdi composed Traviata, he was working towards new ways to add intensity to melodrama, even if conventional devices still recur in the rhythms and the accompanying passages. Gelmetti's musical direction interprets this moment of transition very well. Violetta's brilliant coloratura in Sempre Libera is not florid ornamentation but the expression of her frivolous and superficial way of living (before meeting Alfredo); there is no coloratura in the rest of the opera -- even though there would be many an opportunity (and Donizetti would have jumped on them all). Thus, Ms Myrtò Papatanasiu, the protagonist, is right in not adding the 'high E flat' and delivering the aria with melancholy for a world she had just decided to leave. Gelmetti keeps the orchestra very much in the background while the bel canto vocal lines carry the melody through (as in Bellini's writing); alone, it serves to define the character and the deeper content of the music.
The Concertato at the end of Act II of 'La traviata'. Photo © 2009 Corrado Maria Falsini
The Concertato at the end of Act II of 'La traviata'. Photo © 2009 Corrado Maria Falsini
Alfredo is more vigorously defined; his love song (Di quell'amor un palpito) recurs as a leitmotiv and dies away in a sorrowful violin solo at Violetta's death. The other leitmotiv is Violetta's Act II Amani, Alfredo: a fervent tune in both Act I and Act III preludes. Gelmetti and Papatanasiu did not have an equally good Alfredo: Antonio Gandìa's singing is rather monotonous, whilst an agile, velvet voice is needed. He was the weak spot of the evening. All the others were up to a good standard.
Myrtò Papatanasiu as Violetta, dying in Act III of 'La traviata'. Photo © 2009 Corrado Maria Falsini
Myrtò Papatanasiu as Violetta, dying in Act III of 'La traviata'. Photo © 2009 Corrado Maria Falsini
A final comment: the nine scheduled performances were sold out in September, and two special previews were organized by charities because of the great demand for tickets. Box office is a good indicator of opera goers' likes and dislikes. At the curtain calls on 18 December 2009, Zeffirelli's fans overturned Zeffirelli's foes.
Copyright © 22 December 2009 Giuseppe Pennisi,
Rome, Italy
Come prevenire gli attentati: l' "economia del terrorismo" Ffwebmagazine 21 dicembre
Dagli studi di Pellicani a un recente libro di Alessandro Orsini
Come prevenire gli attentati:
l' "economia del terrorismo"
di Giuseppe Pennisi
La bomba alla Bocconi, il plico eversivo al Centro di identificazione ed espulsione di Gradisca, le frasi inneggianti a Tartaglia sui muri dell’Università di Roma , gli appelli su internet a seguire l’esempio dell’attentatore al presidente del Consiglio mostrano che il paese è di nuovo alle prese con un’ondata di terrorismo, fomentato non solamente dai “cattivi maestri” ma anche da imbonitori televisivi. Anzi, i “cattivi maestri” di un tempo si sono trasformati in imbonitori televisivi; i prima avevano di solito titoli accademici pure di rango (anche se sovente tali titoli erano accompagnati da menti distorte), i secondi sovente hanno solo menti (più o meno) distorte. È un terrorismo con una matrice fortemente ideologica. La esaminò Luciano Pellicani in due libri (I rivoluzionari di professione e La società dei giusti) , rispettivamente del 1975 e del 1995, tracciando le origini nell’eresia gnostica del II e III secolo dell’Era Cristiana. Un lavoro nuovo di zecca di Alessandro Orsini (Anatomia delle Brigate Rosse - Le radici ideologiche del terrorismo rivoluzionario, Rubettino) apporta un contributo originale (pur recependo le analisi di Pellicani). Analizza come spiegare il terrorismo in paesi democratici e prosperi (dove l’opposizione, o le opposizioni hanno voce in capitolo e i livelli medio di reddito sono elevati), non dove c’è un’occupazione straniera (e si combatte per la liberazione) o è in corso un rivoluzione. Sulla base di una documentazione inedita, Orsini dimostra come il terrorismo “ideologico” striscia, come un fiume carsico, sotto la superficie della società occidentale, è difficile da affrontare, è irrazionale e può risorgere in qualsiasi momento. Cosa può fare in materia, l’ “economia del terrorismo”, un raggruppamento disciplinare riconosciuto in molte università americane ed europee ma ancora poco seguito in Italia? Ha compiuto molti progressi negli ultimi 30 anni. In una prima fase, ha avuto il suo centro all’Università di Chicago. Grazie ai lavori del centro sull’”economia del terrorismo” di Chicago è stato possibile simulare le strategie e le tattiche di dirottamento aereo e ridurne, nell’arco di meno di un lustro, il numero da 30 a circa due l’anno. Gli “economisti del terrorismo” di Chicago hanno pure sviscerato l’”effetto di sostituzione”: posto un argine ai dirottamenti aerei, i terroristi si sono rivolti ad altri comparti, che comportano costi maggiori e per essere attuati, necessitano di risorse molto più ampie e di risultati attesi molto più consistenti. In tempi più recenti, l’Università della California del Sud è diventato il cenacolo più importante di studi di “economia del terrorismo”; la figura di spicco è Todd Sandler. I lavori degli ultimi anni coniugano la teoria dei giochi con l’economia dell’informazione e della comunicazione e con paradigmi tratti dall’analisi dei mercati finanziari. In Europa, il centro più importante è l’Università di Zurigo, dove gli studi economici sul terrorismo sono guidati da quel Bruno Frey che è anche uno dei maggiori teorici dell’”economia della felicità”. Altri sedi di rilievo sono quelle guidate da Mats Lundhal della Università di Stoccolma e da Kurt Konrad della Libera Università di Berlino.Quali alcune delle principali lezioni? In primo luogo, il contenimento del terrorismo è un “bene pubblico internazionale”, che non può essere fornito da uno solo paese, e di cui si beneficia tutta la comunità mondiale. In secondo luogo, ciò implica vigilare su conti sospetti di “cellule” terroristiche dovunque esse siano; questa attività ha ramificazione per quanto riguarda la vigilanza bancaria. In terzo luogo, occorre ridurre la capacità di attrazione abbassando l’attenzione dei media e aumentando, al tempo stesso, il costo opportunità ai terroristi, nonché “offrendo alternative” a potenziali reclute del terrorismo. L’”economia del terrorismo” è riuscita a fare molto nei confronti della prevenzione del terrorismo, come quello islamico, basato sul risentimento nei confronti di chi oggi è tecnologicamente ed economicamente sviluppato rispetto a chi era all’avanguardia della tecnologia, della scienza, della cultura e del reddito mille anni fa. Il terrorista anti-sistema – scrive efficacemente Orsini – «è un uomo perduto in partenza. Non ha interessi propri, affari privati, sentimenti, legami personali, proprietà, non ha neppure un nome. Un unico interesse lo assorbe e ne esclude ogni altro, un unico pensiero, un’unica passione – la rivoluzione». 21 dicembre 2009
Come prevenire gli attentati:
l' "economia del terrorismo"
di Giuseppe Pennisi
La bomba alla Bocconi, il plico eversivo al Centro di identificazione ed espulsione di Gradisca, le frasi inneggianti a Tartaglia sui muri dell’Università di Roma , gli appelli su internet a seguire l’esempio dell’attentatore al presidente del Consiglio mostrano che il paese è di nuovo alle prese con un’ondata di terrorismo, fomentato non solamente dai “cattivi maestri” ma anche da imbonitori televisivi. Anzi, i “cattivi maestri” di un tempo si sono trasformati in imbonitori televisivi; i prima avevano di solito titoli accademici pure di rango (anche se sovente tali titoli erano accompagnati da menti distorte), i secondi sovente hanno solo menti (più o meno) distorte. È un terrorismo con una matrice fortemente ideologica. La esaminò Luciano Pellicani in due libri (I rivoluzionari di professione e La società dei giusti) , rispettivamente del 1975 e del 1995, tracciando le origini nell’eresia gnostica del II e III secolo dell’Era Cristiana. Un lavoro nuovo di zecca di Alessandro Orsini (Anatomia delle Brigate Rosse - Le radici ideologiche del terrorismo rivoluzionario, Rubettino) apporta un contributo originale (pur recependo le analisi di Pellicani). Analizza come spiegare il terrorismo in paesi democratici e prosperi (dove l’opposizione, o le opposizioni hanno voce in capitolo e i livelli medio di reddito sono elevati), non dove c’è un’occupazione straniera (e si combatte per la liberazione) o è in corso un rivoluzione. Sulla base di una documentazione inedita, Orsini dimostra come il terrorismo “ideologico” striscia, come un fiume carsico, sotto la superficie della società occidentale, è difficile da affrontare, è irrazionale e può risorgere in qualsiasi momento. Cosa può fare in materia, l’ “economia del terrorismo”, un raggruppamento disciplinare riconosciuto in molte università americane ed europee ma ancora poco seguito in Italia? Ha compiuto molti progressi negli ultimi 30 anni. In una prima fase, ha avuto il suo centro all’Università di Chicago. Grazie ai lavori del centro sull’”economia del terrorismo” di Chicago è stato possibile simulare le strategie e le tattiche di dirottamento aereo e ridurne, nell’arco di meno di un lustro, il numero da 30 a circa due l’anno. Gli “economisti del terrorismo” di Chicago hanno pure sviscerato l’”effetto di sostituzione”: posto un argine ai dirottamenti aerei, i terroristi si sono rivolti ad altri comparti, che comportano costi maggiori e per essere attuati, necessitano di risorse molto più ampie e di risultati attesi molto più consistenti. In tempi più recenti, l’Università della California del Sud è diventato il cenacolo più importante di studi di “economia del terrorismo”; la figura di spicco è Todd Sandler. I lavori degli ultimi anni coniugano la teoria dei giochi con l’economia dell’informazione e della comunicazione e con paradigmi tratti dall’analisi dei mercati finanziari. In Europa, il centro più importante è l’Università di Zurigo, dove gli studi economici sul terrorismo sono guidati da quel Bruno Frey che è anche uno dei maggiori teorici dell’”economia della felicità”. Altri sedi di rilievo sono quelle guidate da Mats Lundhal della Università di Stoccolma e da Kurt Konrad della Libera Università di Berlino.Quali alcune delle principali lezioni? In primo luogo, il contenimento del terrorismo è un “bene pubblico internazionale”, che non può essere fornito da uno solo paese, e di cui si beneficia tutta la comunità mondiale. In secondo luogo, ciò implica vigilare su conti sospetti di “cellule” terroristiche dovunque esse siano; questa attività ha ramificazione per quanto riguarda la vigilanza bancaria. In terzo luogo, occorre ridurre la capacità di attrazione abbassando l’attenzione dei media e aumentando, al tempo stesso, il costo opportunità ai terroristi, nonché “offrendo alternative” a potenziali reclute del terrorismo. L’”economia del terrorismo” è riuscita a fare molto nei confronti della prevenzione del terrorismo, come quello islamico, basato sul risentimento nei confronti di chi oggi è tecnologicamente ed economicamente sviluppato rispetto a chi era all’avanguardia della tecnologia, della scienza, della cultura e del reddito mille anni fa. Il terrorista anti-sistema – scrive efficacemente Orsini – «è un uomo perduto in partenza. Non ha interessi propri, affari privati, sentimenti, legami personali, proprietà, non ha neppure un nome. Un unico interesse lo assorbe e ne esclude ogni altro, un unico pensiero, un’unica passione – la rivoluzione». 21 dicembre 2009
sabato 19 dicembre 2009
Chamber Opera is alive and well Music and Vision Dec 20
Ensemble
A New Dimension
GIUSEPPE PENNISI reports that
chamber opera is alive and well
Chamber opera is a return to the origins of opera, because, at the end of the sixteenth and beginning of the seventeenth centuries, opera started out as a private musical entertainment, to be performed in the large hall of a palace for the enjoyment of a limited number of friends and guests. Thus, it was chamber opera in the most literal sense.
There are several determinants at the roots of the return. Firstly, chamber opera requires a light budget with few soloists, an instrumental ensemble and simple sets and costumes; also, the production is generally suitable for touring and the costs can be shared. Secondly, it attracts a new and younger audience, partly because it charges lower ticket prices than a regular opera performance. Thirdly, and perhaps more significantly, chamber opera fits crisis times. In his Minima Moralia, Theodor A Adorno considers Stravinsky's chamber opera A Soldier's Tale as one of the best expressions of World War I: the chamber group battered by shocks whose dreamlike compulsiveness simultaneously expresses real and symbolic destruction. This explains also Benjamin Britten's emphasis on chamber opera in the years immediately after World War II.
A scene from 'Le Streghe di Venezia'. Photo © 2009 Musacchio & Ianniello
A scene from 'Le Streghe di Venezia'. Photo © 2009 Musacchio & Ianniello
An interesting feature of the return of chamber opera is the tendency to be addressed to an international audience. This is a new dimension: even Britten's chamber operas were thought of primarily for an Anglo-Saxon public (although one of his masterpieces was premièred at La Fenice opera house in Venice). Last Summer, two 'international' chamber operas had their premières in Italy with plans for extensive European tours: Le Malentendu by Matteo D'Amico (in Macerata), L'imbalsamatore of Giorgio Battistelli (in Siena), and Kafka Fragmente by György Kurtág (in Rimini). Only one of these three operas is in Italian; the other two have their libretti in French and in German respectively. All three have been entrusted to an international cast.
A scene from 'Le Streghe di Venezia'. Photo © 2009 Musacchio & Ianniello
A scene from 'Le Streghe di Venezia'. Photo © 2009 Musacchio & Ianniello
In mid-December, three chamber operas had their premières in Rome. For one of them (Le Streghe di Venezia by Philip Glass, seen 7 December 2009) this was a world première. For the other two operas [seen 15 December 2009], it was the Italian première. Mémoirs of Eliogabalus by Stefano Taglietti had its début in 2007 at the Ingolstadt Festival, where it was presented in concert form -- thus, the Rome stage production is almost a world premiè, and La Storia di Giona by Luca Lombardi had its début on 8 December 2009 in Hallein, near Salzburg, less than a week before reaching the cozy Sala Casella in Rome.
A scene from 'Le Streghe di Venezia'. Photo © 2009 Musacchio & Ianniello
A scene from 'Le Streghe di Venezia'. Photo © 2009 Musacchio & Ianniello
Le Streghe di Venezia is based on short novel by Beni Montresor, for several years a key figure of the New York City Opera. An opera-ballet version was presented at La Scala in December 1995, but the original composition was largely modified and not in line with Glass' intentions. The Rome version is produced by Musica per Roma in the Parco della Musica and mirrors very closely what Glass wanted. The text can be read in several ways: an initiation process of two children to end up on Venice's throne (eg a modern Mozart's Magic Flute), a Christmas tale (such as Menotti's Amahl and the Night Visitors), the fatigue of an old king (like in Berio's Un Re in Ascolto) in a rapidly changing world, the intrigues of both the political and the performing arts' environment (as in Strauss' Capriccio). The final aria, by the chamber maid, is sad ('La vita è difficile') but with glimmers of hope ('un pò di vino rosso fa cantar'): in short, life is difficult but a little red wine makes you sing happily. Le Streghe is quite interesting musically: Glass' minimalism includes also quotations from Mozart and Rossini as well as bit of live electronics.
A scene from 'Le Streghe di Venezia'. Photo © 2009 Musacchio & Ianniello
A scene from 'Le Streghe di Venezia'. Photo © 2009 Musacchio & Ianniello
The Rome production is also a joy for the eyes: in a small theatre for seven hundred seats, computerized projections, mimes, acrobats and glittering costume colors make the audience feel that a feast is going on. The stage direction (Giorgio Barberio Corsetti) is fast: although the performance starts at 9pm and ends at nearly 11pm, the many children in the audience followed the plot with interest and enjoyed the show. Among the voices, it's worth mentioning Carmen Romeu, Anna Goryacheva and two children: Matteo Graziani and Francesco Passaretti alternate in the role of the boy, and Maria Luisa Paglione and Daniela Sbrigoli in that of the girl. The Contemporanea Ensemble del Parco della Musica is of high quality. Le Streghe will also be seen in Verona and Ravenna and, maybe, abroad.
A scene from El Cimarron ensemble's 'Memoirs of Elagabalus'
A scene from El Cimarron ensemble's 'Memoirs of Elagabalus'
The Mémoirs of Eliogabalus is a full one act opera in five scenes. Each scene is an aria : it is a new and original view of the Roman dissolute Emperor, already the protagonist of a Baroque opera by Francesco Cavalli (a major hit last Summer at the Grange Festival) and more recently of a Hans Werner Henze opera. In Stefano Taglietti's work, the Emperor has, at the center of his philosophy, his own tension between creative power and divine vision. The five scenes are a path towards a delirium involving not only Eliogabalus but the decaying Roman Empire as well. The Storia di Giona is a modern reading of the Bible. Both operas have the imprint of Henze's chamber opera: a small ensemble and only a voice, a baritone, like in El Cimarron. It is not mere chance that the ensemble staging them is named El Cimarron after Henze's well known masterpiece.
A scene from El Cimarron ensemble's 'Memoirs of Elagabalus'
A scene from El Cimarron ensemble's 'Memoirs of Elagabalus'
They are quite different. Vocally, Eliogabalus is more elaborate than Giona because it mirrors a complex psychological development within a rich historical setting. Also Lombardi's vocal writing, though elaborate, hinges upon declamation whereas Taglietti's is definitely cut in specific arias. The orchestration is excellent in both works, with a very economic ensemble: percussion, guitar and flute, and atmosphere and psychology are fully rendered. There's effective stage direction by Michael Kerstan. Robert Koeller deserves special praise both as a baritone and as an actor. He is a velvet baritone who can reach high acute tonalities and stay put on them. He also has a marvelous legato. On stage he's a perfect actor.
Copyright © 20 December 2009 Giuseppe Pennisi,
Rome, Italy
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The double bill Memoirs of Eliogabalus / La Storia di Giona, performed by El Cimarron and soloist R Koeller, with stage direction by Michael Kerstan, is on its way to Kiev and Prague.
Le Streghe di Venezia is performed by C Romeo, A Goraycheva, G Bocchino, S Alberti, M Graziani, F Passaretti, M L Paglione, D Sbrigoli, with the Parco della Musica Contemporanea Ensemble conducted by Tonino Battista, stage direction and sets by Giorgio Barberio Corsetti, costumes: Marina Schindler, lighting: Gianluca Cappelletti, choreography: Julien Lambert, video: Angelo Longo, the Cantori del Coro Arcobaleno dell'Accademia Nazionale di Santa Cecilia, libretto by Beni Montresor, and acrobats: J Lambert, E Bettin, D Sorisi and L Trefiletti.
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A New Dimension
GIUSEPPE PENNISI reports that
chamber opera is alive and well
Chamber opera is a return to the origins of opera, because, at the end of the sixteenth and beginning of the seventeenth centuries, opera started out as a private musical entertainment, to be performed in the large hall of a palace for the enjoyment of a limited number of friends and guests. Thus, it was chamber opera in the most literal sense.
There are several determinants at the roots of the return. Firstly, chamber opera requires a light budget with few soloists, an instrumental ensemble and simple sets and costumes; also, the production is generally suitable for touring and the costs can be shared. Secondly, it attracts a new and younger audience, partly because it charges lower ticket prices than a regular opera performance. Thirdly, and perhaps more significantly, chamber opera fits crisis times. In his Minima Moralia, Theodor A Adorno considers Stravinsky's chamber opera A Soldier's Tale as one of the best expressions of World War I: the chamber group battered by shocks whose dreamlike compulsiveness simultaneously expresses real and symbolic destruction. This explains also Benjamin Britten's emphasis on chamber opera in the years immediately after World War II.
A scene from 'Le Streghe di Venezia'. Photo © 2009 Musacchio & Ianniello
A scene from 'Le Streghe di Venezia'. Photo © 2009 Musacchio & Ianniello
An interesting feature of the return of chamber opera is the tendency to be addressed to an international audience. This is a new dimension: even Britten's chamber operas were thought of primarily for an Anglo-Saxon public (although one of his masterpieces was premièred at La Fenice opera house in Venice). Last Summer, two 'international' chamber operas had their premières in Italy with plans for extensive European tours: Le Malentendu by Matteo D'Amico (in Macerata), L'imbalsamatore of Giorgio Battistelli (in Siena), and Kafka Fragmente by György Kurtág (in Rimini). Only one of these three operas is in Italian; the other two have their libretti in French and in German respectively. All three have been entrusted to an international cast.
A scene from 'Le Streghe di Venezia'. Photo © 2009 Musacchio & Ianniello
A scene from 'Le Streghe di Venezia'. Photo © 2009 Musacchio & Ianniello
In mid-December, three chamber operas had their premières in Rome. For one of them (Le Streghe di Venezia by Philip Glass, seen 7 December 2009) this was a world première. For the other two operas [seen 15 December 2009], it was the Italian première. Mémoirs of Eliogabalus by Stefano Taglietti had its début in 2007 at the Ingolstadt Festival, where it was presented in concert form -- thus, the Rome stage production is almost a world premiè, and La Storia di Giona by Luca Lombardi had its début on 8 December 2009 in Hallein, near Salzburg, less than a week before reaching the cozy Sala Casella in Rome.
A scene from 'Le Streghe di Venezia'. Photo © 2009 Musacchio & Ianniello
A scene from 'Le Streghe di Venezia'. Photo © 2009 Musacchio & Ianniello
Le Streghe di Venezia is based on short novel by Beni Montresor, for several years a key figure of the New York City Opera. An opera-ballet version was presented at La Scala in December 1995, but the original composition was largely modified and not in line with Glass' intentions. The Rome version is produced by Musica per Roma in the Parco della Musica and mirrors very closely what Glass wanted. The text can be read in several ways: an initiation process of two children to end up on Venice's throne (eg a modern Mozart's Magic Flute), a Christmas tale (such as Menotti's Amahl and the Night Visitors), the fatigue of an old king (like in Berio's Un Re in Ascolto) in a rapidly changing world, the intrigues of both the political and the performing arts' environment (as in Strauss' Capriccio). The final aria, by the chamber maid, is sad ('La vita è difficile') but with glimmers of hope ('un pò di vino rosso fa cantar'): in short, life is difficult but a little red wine makes you sing happily. Le Streghe is quite interesting musically: Glass' minimalism includes also quotations from Mozart and Rossini as well as bit of live electronics.
A scene from 'Le Streghe di Venezia'. Photo © 2009 Musacchio & Ianniello
A scene from 'Le Streghe di Venezia'. Photo © 2009 Musacchio & Ianniello
The Rome production is also a joy for the eyes: in a small theatre for seven hundred seats, computerized projections, mimes, acrobats and glittering costume colors make the audience feel that a feast is going on. The stage direction (Giorgio Barberio Corsetti) is fast: although the performance starts at 9pm and ends at nearly 11pm, the many children in the audience followed the plot with interest and enjoyed the show. Among the voices, it's worth mentioning Carmen Romeu, Anna Goryacheva and two children: Matteo Graziani and Francesco Passaretti alternate in the role of the boy, and Maria Luisa Paglione and Daniela Sbrigoli in that of the girl. The Contemporanea Ensemble del Parco della Musica is of high quality. Le Streghe will also be seen in Verona and Ravenna and, maybe, abroad.
A scene from El Cimarron ensemble's 'Memoirs of Elagabalus'
A scene from El Cimarron ensemble's 'Memoirs of Elagabalus'
The Mémoirs of Eliogabalus is a full one act opera in five scenes. Each scene is an aria : it is a new and original view of the Roman dissolute Emperor, already the protagonist of a Baroque opera by Francesco Cavalli (a major hit last Summer at the Grange Festival) and more recently of a Hans Werner Henze opera. In Stefano Taglietti's work, the Emperor has, at the center of his philosophy, his own tension between creative power and divine vision. The five scenes are a path towards a delirium involving not only Eliogabalus but the decaying Roman Empire as well. The Storia di Giona is a modern reading of the Bible. Both operas have the imprint of Henze's chamber opera: a small ensemble and only a voice, a baritone, like in El Cimarron. It is not mere chance that the ensemble staging them is named El Cimarron after Henze's well known masterpiece.
A scene from El Cimarron ensemble's 'Memoirs of Elagabalus'
A scene from El Cimarron ensemble's 'Memoirs of Elagabalus'
They are quite different. Vocally, Eliogabalus is more elaborate than Giona because it mirrors a complex psychological development within a rich historical setting. Also Lombardi's vocal writing, though elaborate, hinges upon declamation whereas Taglietti's is definitely cut in specific arias. The orchestration is excellent in both works, with a very economic ensemble: percussion, guitar and flute, and atmosphere and psychology are fully rendered. There's effective stage direction by Michael Kerstan. Robert Koeller deserves special praise both as a baritone and as an actor. He is a velvet baritone who can reach high acute tonalities and stay put on them. He also has a marvelous legato. On stage he's a perfect actor.
Copyright © 20 December 2009 Giuseppe Pennisi,
Rome, Italy
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The double bill Memoirs of Eliogabalus / La Storia di Giona, performed by El Cimarron and soloist R Koeller, with stage direction by Michael Kerstan, is on its way to Kiev and Prague.
Le Streghe di Venezia is performed by C Romeo, A Goraycheva, G Bocchino, S Alberti, M Graziani, F Passaretti, M L Paglione, D Sbrigoli, with the Parco della Musica Contemporanea Ensemble conducted by Tonino Battista, stage direction and sets by Giorgio Barberio Corsetti, costumes: Marina Schindler, lighting: Gianluca Cappelletti, choreography: Julien Lambert, video: Angelo Longo, the Cantori del Coro Arcobaleno dell'Accademia Nazionale di Santa Cecilia, libretto by Beni Montresor, and acrobats: J Lambert, E Bettin, D Sorisi and L Trefiletti.
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Teatro dell'Opera, Traviata "8 e mezzo" di Zeffirelli, Il Velino 19 dicembre
CLT - Teatro dell'Opera, Traviata "8 e mezzo" di Zeffirelli
Roma, 19 dic (Velino) - Il Teatro dell’Opera di Roma chiude la stagione 2009 e apre quella 2010 con due regie dell’87enne Franco Zeffirelli: “La Traviata” in scena quasi tutte le sere dal 16 al 31 dicembre e “Falstaff” dal 23 al 31 gennaio. È l’ottavo allestimento e mezzo zeffirelliano di “La Traviata”, simile a quello in cartellone al Metropolitan da un quarto di secolo e analogo, a ritoccato, rispetto a quello presentato a Roma circa tre anni fa. È una scelta controversa – trattata aspramente da molti critici che preferiscono regie più “moderne” (rispetto agli allestimenti sontuosi ed all’amore per i dettagli di Franco Zeffirelli) ma apprezzata dal pubblico: a grande richieste sono state previste due rappresentazioni aggiuntive, due “generali aperte” a scopi di beneficenza (rispetto a quelle inizialmente previste) e da settembre non è possibile acquistare un biglietto. La biglietteria – attenzione - deve essere un elemento importante di considerazione nell’equilibrio finanziario di tutti i teatri, specialmente di uno, come quello della capitale, in severe ristrettezze di bilancio. La polemica è ancora più aspra perché, sotto il profilo vocale, c’era grande attesa per il debutto di Daniela Dessì nel ruolo in due rappresentazioni di gala fuori abbonamento; il debutto è stato annullato a casa di un dissidio con il regista. Si alternano tre cast giovani di valore (la coppia protagonista è formata da Cinzia Forte, Myrtò Papatanasiu, Mina Yamazaki, Roberto De Biasio, Antonio Gandìa, Stefano Pop).
Ci sono però aspetti significativi in questa edizione. La “musa bizzarra e altera” – dice Herbert Lindeberger - è l’opera lirica, ultimo rifugio dello stile elevato, in cui dramma, musica, canto, scene e luci si fondono in una unità. È anche la musa che più soffre del “morbo di Baumol”, dal nome dell’economista americano che negli Anni Sessanta ha teorizzato come il sostegno pubblico fosse essenziale per tutte le forme di arti dal vivo in cui il progresso tecnologico non può incidere (e non può abbassare i costi): oggi per suonare una sinfonia di Mozart o di Beethoven ed ancor più per mettere un’opera di Verdi e Wagner ci vogliono gli stessi orchestrali e gli stessi cantanti di allora. All’epoca, musicisti e cantanti (tranne poche eccezioni) vivevano in condizioni di mera sussistenza, mentre ora reclamano (come tutte le altre categorie) contratti nazionali di base ed integrativi. In aggiunta, il pubblico non si accontenta più delle scene dipinte e in cartapesta.
La “musa bizzarra ed altera” è destinata a sparire proprio nell’Italia dove è nata e dove ricorrono i 400 anni dalla prima rappresentazione de “L’Orfeo” di Claudio Monteverdi, l’opera che pur nata per una serata a Palazzo Ducale a Mantova uscì per diventare uno dei primi lavori di grande successo (e cassetta) nei teatri veneziani? È costretta a mendicare per sempre aiuto pubblico? Sono temi che richiedono un ampio dibattito. Due seminari in materia sono stati promossi dall’Istituto Bruno Leoni a Milano ed un terzo, sempre nel capoluogo lombardo, è annunciato all’Università Cattolica. Con “La Traviata” del 2007 a Roma – l’ottava versione zeffirelliana, nella attuale muta unicamente la coreografia rispetto all’aprile di due anni fa – e in scena al Metropolitan di New York) si è posta (anche a detta della critica internazionale) una pietra miliare. È sorprendente che a porta sia un artista circa novantenne come Franco Zeffirelli. A Roma, la vicenda del triste amore di Violetta e Alfredo (contrastato dal padre del ragazzo, Giorgio) è mostrato in flashback (la morte di Violette è presentata durante l’ouverture) mentre a New York si segue lo svolgimento convenzionale. In ambedue le versioni, l’impianto scenico (altamente tecnologico ed impostato su una struttura unica a tre livelli, sipari, scene dipinte e proiezioni computerizzate) e gran parte degli interpreti sono gli stessi (a Roma si alternano tre cast). In Italia, grazie ad un sistema ad altissima definizione sia per il video sia per l’audio , la “prima” del 20 aprile 2007 è stata seguita in diretta da dodicimila spettatori in una ventina di sale di provincia – un’attività che il teatro della capitale vuole ripetere per aumentare la fruizione degli spettacoli ed attirare nuovo. È stata una calamita per attirare oggi il pubblico che aveva mancato lo spettacolo dal vivo nell’aprile 2007.
È una “Traviata” grandiosa e curata nei minimi dettagli (anche in vista della sua programmazione pluriennale). La vicenda non viene attualizzata ai giorni nostri (come in edizioni recenti) ma calata nella metà Ottocento. Abili i giochi di luci e di colori che rispecchiano partitura e stati d’animo: al terzo atto al verde luminoso del giardino si passa al rosso ed al nero della festa ed al un grigio e bianco spettrale del concertato finale. Importante il ruolo degli specchi, anche esse computerizzati; che in alcuni momenti chiave, danno l’illusione di portare platea e palchi in palcoscenico. La caratteristica di questa ottava “Traviata” zeffirelliana è la carica sensuale: baci ed amplessi dominano il rapporto tra i giovani protagonisti . Quindi, anche Gianluigi Gelmetti offre una concertazione sensuale della partitura, dilatandone i tempi nei momenti chiave. Le voci – si è detto- sono giovani. Alla “prima” del 18 dicembre, nessuna è stata eccezionale ma il lavoro d’insieme è stato più che adeguato Unicamente l’Alfredo di Antonio Gandìa ha lasciato a desiderare per il suo canto monotòno (e tenuto quasi sempre nel registro di centro) e le sue difficoltà di fraseggio. Molto maturata Myrtò Papatanasiu , che ha scansato il “mi bemolle” di tradizione (ma non previsto da Verdi) nel finale del primo atto.
(Hans Sachs) 19 dic 2009 11:23
Roma, 19 dic (Velino) - Il Teatro dell’Opera di Roma chiude la stagione 2009 e apre quella 2010 con due regie dell’87enne Franco Zeffirelli: “La Traviata” in scena quasi tutte le sere dal 16 al 31 dicembre e “Falstaff” dal 23 al 31 gennaio. È l’ottavo allestimento e mezzo zeffirelliano di “La Traviata”, simile a quello in cartellone al Metropolitan da un quarto di secolo e analogo, a ritoccato, rispetto a quello presentato a Roma circa tre anni fa. È una scelta controversa – trattata aspramente da molti critici che preferiscono regie più “moderne” (rispetto agli allestimenti sontuosi ed all’amore per i dettagli di Franco Zeffirelli) ma apprezzata dal pubblico: a grande richieste sono state previste due rappresentazioni aggiuntive, due “generali aperte” a scopi di beneficenza (rispetto a quelle inizialmente previste) e da settembre non è possibile acquistare un biglietto. La biglietteria – attenzione - deve essere un elemento importante di considerazione nell’equilibrio finanziario di tutti i teatri, specialmente di uno, come quello della capitale, in severe ristrettezze di bilancio. La polemica è ancora più aspra perché, sotto il profilo vocale, c’era grande attesa per il debutto di Daniela Dessì nel ruolo in due rappresentazioni di gala fuori abbonamento; il debutto è stato annullato a casa di un dissidio con il regista. Si alternano tre cast giovani di valore (la coppia protagonista è formata da Cinzia Forte, Myrtò Papatanasiu, Mina Yamazaki, Roberto De Biasio, Antonio Gandìa, Stefano Pop).
Ci sono però aspetti significativi in questa edizione. La “musa bizzarra e altera” – dice Herbert Lindeberger - è l’opera lirica, ultimo rifugio dello stile elevato, in cui dramma, musica, canto, scene e luci si fondono in una unità. È anche la musa che più soffre del “morbo di Baumol”, dal nome dell’economista americano che negli Anni Sessanta ha teorizzato come il sostegno pubblico fosse essenziale per tutte le forme di arti dal vivo in cui il progresso tecnologico non può incidere (e non può abbassare i costi): oggi per suonare una sinfonia di Mozart o di Beethoven ed ancor più per mettere un’opera di Verdi e Wagner ci vogliono gli stessi orchestrali e gli stessi cantanti di allora. All’epoca, musicisti e cantanti (tranne poche eccezioni) vivevano in condizioni di mera sussistenza, mentre ora reclamano (come tutte le altre categorie) contratti nazionali di base ed integrativi. In aggiunta, il pubblico non si accontenta più delle scene dipinte e in cartapesta.
La “musa bizzarra ed altera” è destinata a sparire proprio nell’Italia dove è nata e dove ricorrono i 400 anni dalla prima rappresentazione de “L’Orfeo” di Claudio Monteverdi, l’opera che pur nata per una serata a Palazzo Ducale a Mantova uscì per diventare uno dei primi lavori di grande successo (e cassetta) nei teatri veneziani? È costretta a mendicare per sempre aiuto pubblico? Sono temi che richiedono un ampio dibattito. Due seminari in materia sono stati promossi dall’Istituto Bruno Leoni a Milano ed un terzo, sempre nel capoluogo lombardo, è annunciato all’Università Cattolica. Con “La Traviata” del 2007 a Roma – l’ottava versione zeffirelliana, nella attuale muta unicamente la coreografia rispetto all’aprile di due anni fa – e in scena al Metropolitan di New York) si è posta (anche a detta della critica internazionale) una pietra miliare. È sorprendente che a porta sia un artista circa novantenne come Franco Zeffirelli. A Roma, la vicenda del triste amore di Violetta e Alfredo (contrastato dal padre del ragazzo, Giorgio) è mostrato in flashback (la morte di Violette è presentata durante l’ouverture) mentre a New York si segue lo svolgimento convenzionale. In ambedue le versioni, l’impianto scenico (altamente tecnologico ed impostato su una struttura unica a tre livelli, sipari, scene dipinte e proiezioni computerizzate) e gran parte degli interpreti sono gli stessi (a Roma si alternano tre cast). In Italia, grazie ad un sistema ad altissima definizione sia per il video sia per l’audio , la “prima” del 20 aprile 2007 è stata seguita in diretta da dodicimila spettatori in una ventina di sale di provincia – un’attività che il teatro della capitale vuole ripetere per aumentare la fruizione degli spettacoli ed attirare nuovo. È stata una calamita per attirare oggi il pubblico che aveva mancato lo spettacolo dal vivo nell’aprile 2007.
È una “Traviata” grandiosa e curata nei minimi dettagli (anche in vista della sua programmazione pluriennale). La vicenda non viene attualizzata ai giorni nostri (come in edizioni recenti) ma calata nella metà Ottocento. Abili i giochi di luci e di colori che rispecchiano partitura e stati d’animo: al terzo atto al verde luminoso del giardino si passa al rosso ed al nero della festa ed al un grigio e bianco spettrale del concertato finale. Importante il ruolo degli specchi, anche esse computerizzati; che in alcuni momenti chiave, danno l’illusione di portare platea e palchi in palcoscenico. La caratteristica di questa ottava “Traviata” zeffirelliana è la carica sensuale: baci ed amplessi dominano il rapporto tra i giovani protagonisti . Quindi, anche Gianluigi Gelmetti offre una concertazione sensuale della partitura, dilatandone i tempi nei momenti chiave. Le voci – si è detto- sono giovani. Alla “prima” del 18 dicembre, nessuna è stata eccezionale ma il lavoro d’insieme è stato più che adeguato Unicamente l’Alfredo di Antonio Gandìa ha lasciato a desiderare per il suo canto monotòno (e tenuto quasi sempre nel registro di centro) e le sue difficoltà di fraseggio. Molto maturata Myrtò Papatanasiu , che ha scansato il “mi bemolle” di tradizione (ma non previsto da Verdi) nel finale del primo atto.
(Hans Sachs) 19 dic 2009 11:23
The OSR: A Successful Stand-Alone Experience in Continental Europe, La Scena Musicale 18 dicembre
The OSR: A Successful Stand-Alone Experience in Continental Europe
By Giuseppe Pennisi
In its November issue, the periodical GIG- International Arts Manager devoted two full pages to the Orchestra Sinfonica di Roma (OSR), a comparatively new symphonic formation in the Italian and European landscape. The article is an important signal of the international attention received by a symphonic orchestra that started its operations only about eight years ago. Its creation was the outcome of a training course financed by the European Commission and organized by the Arts Academy, a non-profit but fully private music school. After the course, no employment was in sight for the young musicians. So the Arts Academy mastermind, the headstrong and highly experienced Maestro Francesco La Vecchia, decided to seek for funds to form an orchestra. Many thought he was a hopeless and helpless dreamer but he met another dreamer, the President of a charity. The dream became hard and solid reality.
The OSR has some important features:
a) It is the only fully private symphony orchestra in Italy and one of the very few in Continental Europe. It does not receive any State, Regional, Provincial or Municipal support – even though in 2009 it was given a € 10.000 (US$ 15.000) grant by the Ministry of Culture
b) It is financed mostly by the Fondazione Roma (a nonprofit registered charity with the mission of “the organization of social freedom”). The Fondazione Rome does not operate only or mainly in the field of music but runs a private museum and performs important activities in the fields of health, education, scientific research and aid to the under-privileged. The OSR is also helped by a few locally based small companies and by an Association of its subscribers and fans.
c) It has 90 permanent musicians (average age: 30), a budget which is less than one-fifth of that of the main symphony orchestra in the Italian capital (l’Accademia Nazionale di Santa Cecilia) and a low-priced ticket policy to attract young and old people with modest incomes (season tickets for 30 concerts vary from € 260 to € 90 according to the category).
d) Its music director and permanent conductor is Maestro Francesco La Vecchia, who is also principal guest conductor of the Berliner Symphoniker. La Vecchia has been music director of Opera Houses and symphony orchestras in Central Europe (Budapest), Latin America (Rio de Janeiro) and Portugal (Lisbon). He also often conducts in Shanghai's large concert hall.
In eight years, the OSR has also gained an important place in the international music scenes due to its tour of Brazil, Russia, the UK, Spain, Germany, Poland and China. Tours are now slated for Austria and North America. More significantly, the OSR was chosen by the Austrian Government as the Italian symphony to participate in the May 31st 2009 celebrations for Haydn’s bicentenary. As many of our readers may know, the Austrian Ministry of Culture and the Committee for the Celebrations of Haydn’s Bicentenary had a brilliant idea: on May 31st, the day of the composer’s death, 20 symphony orchestras and/or Opera Houses performed one of his greatest and best known oratorios Die Schöpfung (The Creation). Because of different time-zones, Die Schöpfung day started in New Zealand and ended in Honolulu. An earnest radio listener could enjoy the different performances over 24 hours and appreciate the difference in conducting as well as in singing. Opera Houses were included because in certain countries (e.g. Germany) Die Schöpfung is also staged as a music drama: computer technology and animation are a superb support in depicting the initial chaos, the creation of the animals, of the flowers, of the lakes, of the rivers and of the mountain as well as the Garden of Eden with the passionate Adam and Eve duet. The Accademia Nazionale di Santa Cecilia, the “national” symphony, did not appreciate that the OSR was preferred and performed Die Schöpfung for its subscribers early in the Spring of 2009.
Two different Italian economic think-tanks have recently shown interest in studying the OSR as a unique experiment of free market and liberal grants not only in Italy but also in most of Continental Europe: the Istituto Bruno Leoni-IBL (a staunchly libertarian den) and Astrid (a left-of-centre liberal association). These studies may help bring about reform of performing arts State and Regional Governments financing. GIG concluded that “All in all, one swallow does not make summer” and that “perhaps, the OSR is and will remain a stand-alone experiment of liberal economics applied to high musical culture.” A possibility would be to move, in Italy, from grants-in-aid on the basis of the proposals of the bureaucracy (as reviewed by a technical committee) to an Anglo-Saxon system of matching grants; this would promote completion and efficiency.
I have been a steady listener of OSR concerts, not only because they are set at a convenient time (5.30 p.m. on Sunday and 8.30 p.m. on Monday) in a pleasant 1,200 seat Auditorium just a few steps away from my home in Rome. They main reason is that they offer an innovative program (as compared with the Accademia di Santa Cecilia and other major orchestras in Italy): the OSR combines Nono with Schubert, Stravinsky with Bruckner, Casella with Brahms, Tchaikovsky with Mailipiero, Liszt with Shostakovich. Until 20 years ago, such a blend was provided, in Italy, by the Italian public radio and television concerts, but these concerts were discontinued and the marvelous acoustically-perfect Roman auditorium was converted to a TV studio for mere entertainment and games. Also, I have accompanied the OSR on their February 2009 tour to Germany and Poland.
This 2009-2010 season started on October 17th with Beethoven's Ninth Symphony. The program includes all of Beethoven’s orchestral compositions to be performed in eight of the 30 concerts and also all of Bach’s Branderburg Concertos and all the suites (two concerts). The 20th Century is not forgotten: the OSR is recording all orchestral works by Martucci, Casella and Malipiero – some of them are in the 2009-2010 season – and offers two very rare and exquisite compositions by Respighi: “Poema autunnale” and “Vetrate di Chiesa.”
Finally, for a Christmas-New Year gift: a small blue and gold coffer with four Naxos CDs with all the most significant compositions of Giuseppe Marcucci (1856-1909) commemorating the centenary of his death. Nearly forgotten now, Marcucci was one of the few Italian composers specializing in symphonic music when melodrama was the main musical attraction. Toscanini had a veneration for him and in 1932 organized a series of concerts to play all his works. Wait for a review in La Scena.
Labels: Orchestra Sinfonica di Roma, Rome
By Giuseppe Pennisi
In its November issue, the periodical GIG- International Arts Manager devoted two full pages to the Orchestra Sinfonica di Roma (OSR), a comparatively new symphonic formation in the Italian and European landscape. The article is an important signal of the international attention received by a symphonic orchestra that started its operations only about eight years ago. Its creation was the outcome of a training course financed by the European Commission and organized by the Arts Academy, a non-profit but fully private music school. After the course, no employment was in sight for the young musicians. So the Arts Academy mastermind, the headstrong and highly experienced Maestro Francesco La Vecchia, decided to seek for funds to form an orchestra. Many thought he was a hopeless and helpless dreamer but he met another dreamer, the President of a charity. The dream became hard and solid reality.
The OSR has some important features:
a) It is the only fully private symphony orchestra in Italy and one of the very few in Continental Europe. It does not receive any State, Regional, Provincial or Municipal support – even though in 2009 it was given a € 10.000 (US$ 15.000) grant by the Ministry of Culture
b) It is financed mostly by the Fondazione Roma (a nonprofit registered charity with the mission of “the organization of social freedom”). The Fondazione Rome does not operate only or mainly in the field of music but runs a private museum and performs important activities in the fields of health, education, scientific research and aid to the under-privileged. The OSR is also helped by a few locally based small companies and by an Association of its subscribers and fans.
c) It has 90 permanent musicians (average age: 30), a budget which is less than one-fifth of that of the main symphony orchestra in the Italian capital (l’Accademia Nazionale di Santa Cecilia) and a low-priced ticket policy to attract young and old people with modest incomes (season tickets for 30 concerts vary from € 260 to € 90 according to the category).
d) Its music director and permanent conductor is Maestro Francesco La Vecchia, who is also principal guest conductor of the Berliner Symphoniker. La Vecchia has been music director of Opera Houses and symphony orchestras in Central Europe (Budapest), Latin America (Rio de Janeiro) and Portugal (Lisbon). He also often conducts in Shanghai's large concert hall.
In eight years, the OSR has also gained an important place in the international music scenes due to its tour of Brazil, Russia, the UK, Spain, Germany, Poland and China. Tours are now slated for Austria and North America. More significantly, the OSR was chosen by the Austrian Government as the Italian symphony to participate in the May 31st 2009 celebrations for Haydn’s bicentenary. As many of our readers may know, the Austrian Ministry of Culture and the Committee for the Celebrations of Haydn’s Bicentenary had a brilliant idea: on May 31st, the day of the composer’s death, 20 symphony orchestras and/or Opera Houses performed one of his greatest and best known oratorios Die Schöpfung (The Creation). Because of different time-zones, Die Schöpfung day started in New Zealand and ended in Honolulu. An earnest radio listener could enjoy the different performances over 24 hours and appreciate the difference in conducting as well as in singing. Opera Houses were included because in certain countries (e.g. Germany) Die Schöpfung is also staged as a music drama: computer technology and animation are a superb support in depicting the initial chaos, the creation of the animals, of the flowers, of the lakes, of the rivers and of the mountain as well as the Garden of Eden with the passionate Adam and Eve duet. The Accademia Nazionale di Santa Cecilia, the “national” symphony, did not appreciate that the OSR was preferred and performed Die Schöpfung for its subscribers early in the Spring of 2009.
Two different Italian economic think-tanks have recently shown interest in studying the OSR as a unique experiment of free market and liberal grants not only in Italy but also in most of Continental Europe: the Istituto Bruno Leoni-IBL (a staunchly libertarian den) and Astrid (a left-of-centre liberal association). These studies may help bring about reform of performing arts State and Regional Governments financing. GIG concluded that “All in all, one swallow does not make summer” and that “perhaps, the OSR is and will remain a stand-alone experiment of liberal economics applied to high musical culture.” A possibility would be to move, in Italy, from grants-in-aid on the basis of the proposals of the bureaucracy (as reviewed by a technical committee) to an Anglo-Saxon system of matching grants; this would promote completion and efficiency.
I have been a steady listener of OSR concerts, not only because they are set at a convenient time (5.30 p.m. on Sunday and 8.30 p.m. on Monday) in a pleasant 1,200 seat Auditorium just a few steps away from my home in Rome. They main reason is that they offer an innovative program (as compared with the Accademia di Santa Cecilia and other major orchestras in Italy): the OSR combines Nono with Schubert, Stravinsky with Bruckner, Casella with Brahms, Tchaikovsky with Mailipiero, Liszt with Shostakovich. Until 20 years ago, such a blend was provided, in Italy, by the Italian public radio and television concerts, but these concerts were discontinued and the marvelous acoustically-perfect Roman auditorium was converted to a TV studio for mere entertainment and games. Also, I have accompanied the OSR on their February 2009 tour to Germany and Poland.
This 2009-2010 season started on October 17th with Beethoven's Ninth Symphony. The program includes all of Beethoven’s orchestral compositions to be performed in eight of the 30 concerts and also all of Bach’s Branderburg Concertos and all the suites (two concerts). The 20th Century is not forgotten: the OSR is recording all orchestral works by Martucci, Casella and Malipiero – some of them are in the 2009-2010 season – and offers two very rare and exquisite compositions by Respighi: “Poema autunnale” and “Vetrate di Chiesa.”
Finally, for a Christmas-New Year gift: a small blue and gold coffer with four Naxos CDs with all the most significant compositions of Giuseppe Marcucci (1856-1909) commemorating the centenary of his death. Nearly forgotten now, Marcucci was one of the few Italian composers specializing in symphonic music when melodrama was the main musical attraction. Toscanini had a veneration for him and in 1932 organized a series of concerts to play all his works. Wait for a review in La Scena.
Labels: Orchestra Sinfonica di Roma, Rome
giovedì 17 dicembre 2009
BEN BERNANKE SARA’ ANCHE L’UOMO DELL’ANNO MA AGLI AMERICANI NON PIACE Il Velino 17 dicembre
BEN BERNANKE SARA’ ANCHE L’UOMO DELL’ANNO MA AGLI AMERICANI NON PIACE
Giuseppe Pennisi
A volte “il destino – come amava dire Giuseppe Saragat- è cinico e baro”. Proprio nei giorni in cui ai è completata, negli Usa, la procedura per il rinnovo di Ben Bernanke alla guida della Federal Reserve, a Roma Daron Acemoglu , simpatico economista turco-americano in odore di Nobel che insegna al M.I.T, ha tracciato una severa critica delle politica monetaria condotta da lui nel recente passato e negli anni precedenti dal suo predecessore, Alan Greensopan. Daron Acemoglu era alla Facoltà di Economica dell’Università La Sapienza a pronunciare il 16 ed il 17 dicembre. le “Federico Caffè Lectures” uno degli eventi annuali più prestigiosi dell’ateneo. L’Occidentale del 24 agosto ha illustrato le ragioni per cui il Presidente degli Stati Uniti ha ritenuto riproporre Benanke alla guida della politica monetaria americana. Ora occorre chiedersi se quella di Acemoglu è una voce isolata – frutto di opinioni od anche ripensamenti personali – oppure rappresenta il punto di vista di una vasta corrente di economisti americani.
Basta scorrere il sito www.ssrn.com , la più vasta biblioteca telematica di scienze sociali , come l’economia, e di finanza, per accorgersi che Acemoglu è in compagnia di molti altri; ben ultimo Charles Steindel , che pur nello staff della Federal Reserve Bank di New York, ha dedicato un saggio durissimo alla crisi in corso ; pubblicato la settimana scorsa considera la politica monetaria americana come causa principale del pasticciaccio brutto. In Austrialia, Steve Keen , uno dei giovano accademici più ascoltati nel bacino del Pacifico, lo dipinge – nel libro Debunking Economics – come un Mago Zurlì dedito al gioco delle tre carte .A livello divulgativo, il film di Kevin Stocklin “We All Fall Down”(Andiamo tutti a fondo) , premio al Boston Film Festival 2009 – lo utilizzo come materiale didattico nel corso di economia internazionale e nel seminario sulla crisi finanziaria che insegno all’Università Europea di Roma - addita Bernanke e Greespan addirittura come i principali responsabili della crisi finanziaria ed economica in atto.
Molte di queste critiche sono esagerate. E’ indubbio, però, che nonostante le forti liti in pubblico Greenspan e Bernanke hanno seguito una politica monetaria diretta ad attirare un flusso di capitali dall’estero (per colmare la falla della bilancia dei pagamenti Usa), espandendo eccessivamente (una crescita ad un tasso di circa il 10% l’anno nel decennio precedente la crisi) il credito totale interno e senza tenere adeguatamente conto che, sommandosi alla liquidità interna quella proveniente dall’estero, hanno indotto gli agenti economici ad aprire la borsa a clienti (sia individuali sia societari) sempre meno affidabili. Sino a quando è saltato tutto. A Roma, Acemoglu lo ho documentato con ricchezza di dati e con una forte base teaorica. Occorre , però, anche dire – come sostiene acutamente Martin Wolf in uno dei suoi ultimi libri – che l’operazione è stata resa possibile dall’elevatissimo, anzi eccessivo, tasso di risparmio dei Paesi asiatici che, scottatisi con la crisi della loro area alla fine degli anni 90, hanno fatto le formiche a più non posso.
E’ chiaro che ci sono stati errori nelle politica Usa della moneta. Quello che occorre chiedersi è se a Washington (e non solo) se ne sono apprese le lezioni, “Ben” è sempre stato un allievo bravo e brillante. Oggi i suoi colleghi non gli vogliono più bene. Dovremmo , tuttavia, dargli un’apertura di credito che in una fase così delicata sia in grado di pilotare nella direzione giusta la nave Usa. E noi fare lo stesso con quella europea.
Giuseppe Pennisi
A volte “il destino – come amava dire Giuseppe Saragat- è cinico e baro”. Proprio nei giorni in cui ai è completata, negli Usa, la procedura per il rinnovo di Ben Bernanke alla guida della Federal Reserve, a Roma Daron Acemoglu , simpatico economista turco-americano in odore di Nobel che insegna al M.I.T, ha tracciato una severa critica delle politica monetaria condotta da lui nel recente passato e negli anni precedenti dal suo predecessore, Alan Greensopan. Daron Acemoglu era alla Facoltà di Economica dell’Università La Sapienza a pronunciare il 16 ed il 17 dicembre. le “Federico Caffè Lectures” uno degli eventi annuali più prestigiosi dell’ateneo. L’Occidentale del 24 agosto ha illustrato le ragioni per cui il Presidente degli Stati Uniti ha ritenuto riproporre Benanke alla guida della politica monetaria americana. Ora occorre chiedersi se quella di Acemoglu è una voce isolata – frutto di opinioni od anche ripensamenti personali – oppure rappresenta il punto di vista di una vasta corrente di economisti americani.
Basta scorrere il sito www.ssrn.com , la più vasta biblioteca telematica di scienze sociali , come l’economia, e di finanza, per accorgersi che Acemoglu è in compagnia di molti altri; ben ultimo Charles Steindel , che pur nello staff della Federal Reserve Bank di New York, ha dedicato un saggio durissimo alla crisi in corso ; pubblicato la settimana scorsa considera la politica monetaria americana come causa principale del pasticciaccio brutto. In Austrialia, Steve Keen , uno dei giovano accademici più ascoltati nel bacino del Pacifico, lo dipinge – nel libro Debunking Economics – come un Mago Zurlì dedito al gioco delle tre carte .A livello divulgativo, il film di Kevin Stocklin “We All Fall Down”(Andiamo tutti a fondo) , premio al Boston Film Festival 2009 – lo utilizzo come materiale didattico nel corso di economia internazionale e nel seminario sulla crisi finanziaria che insegno all’Università Europea di Roma - addita Bernanke e Greespan addirittura come i principali responsabili della crisi finanziaria ed economica in atto.
Molte di queste critiche sono esagerate. E’ indubbio, però, che nonostante le forti liti in pubblico Greenspan e Bernanke hanno seguito una politica monetaria diretta ad attirare un flusso di capitali dall’estero (per colmare la falla della bilancia dei pagamenti Usa), espandendo eccessivamente (una crescita ad un tasso di circa il 10% l’anno nel decennio precedente la crisi) il credito totale interno e senza tenere adeguatamente conto che, sommandosi alla liquidità interna quella proveniente dall’estero, hanno indotto gli agenti economici ad aprire la borsa a clienti (sia individuali sia societari) sempre meno affidabili. Sino a quando è saltato tutto. A Roma, Acemoglu lo ho documentato con ricchezza di dati e con una forte base teaorica. Occorre , però, anche dire – come sostiene acutamente Martin Wolf in uno dei suoi ultimi libri – che l’operazione è stata resa possibile dall’elevatissimo, anzi eccessivo, tasso di risparmio dei Paesi asiatici che, scottatisi con la crisi della loro area alla fine degli anni 90, hanno fatto le formiche a più non posso.
E’ chiaro che ci sono stati errori nelle politica Usa della moneta. Quello che occorre chiedersi è se a Washington (e non solo) se ne sono apprese le lezioni, “Ben” è sempre stato un allievo bravo e brillante. Oggi i suoi colleghi non gli vogliono più bene. Dovremmo , tuttavia, dargli un’apertura di credito che in una fase così delicata sia in grado di pilotare nella direzione giusta la nave Usa. E noi fare lo stesso con quella europea.
mercoledì 16 dicembre 2009
SE NON SI RIFORMA LA GIUSTIZIA, L’ITALIA RESTA AL PALO, Il Velino 16 Dicembre
SE NON SI RIFORMA LA GIUSTIZIA, L’ITALIA RESTA AL PALO
Giuseppe Pennisi
Daron Acemoglu è un giovane e simpatico economista turco-americano in odore di Nobel che insegna al M.I.T. Né Acemoglu né il M.I.T. possono essere considerati contigui al centrodestra italiano; verosimilmente, Acemoglu, così preso dai suoi studi, neanche sa di cosa si tratta. Federico Caffè è stato per decenni uno dei maggiori economisti italiani, capo di una scuola di pensiero che si è irradiata in tutte le maggiori università, collaboratore de Il Manifesto. Sparito improvvisamente prima che di Silvio Berlusconi si parlasse al di fuori di Milano2 e che il centrodestra venisse formato. Nessuno degli allievi di Caffè è noto per avere simpatie per l’attuale maggioranza. Hanno invitato Daron Acemoglu a pronunciare le “Federico Caffè Lectures” all’Università “La Sapienza”, uno degli eventi annuali più prestigiosi dell’ateneo , il 16 ed il 17 dicembre. Sala affollatissima di studenti e docenti.
Peccato che non c’era nessun esponente del partito dei magistrati che si oppone alla riforma dell’ordinamento giudiziario, alla separazione delle carriere tra pubblica accusa e giudici giudicanti ed alla fissazione di termini precisi per i processi. Avrebbero avuto molto da imparare dal buon Acemoglu e dalle “lectures” in onore di uno dei collaboratori più prestigiosi de Il Manifesto . La prima delle due lectures riguardava le prassi istituzionali, la seconda le oligarchie. Non si è parlato specificatamente del “caso giustizia” in Italia – troppo lontana dal M.I.T.. Ma di come cattive prassi giovano ad oligarchie e frenano la crescita economica.
Già nel lontano 1941, nel saggio Il nuovo processo civile e la scienza giuridica”, pubblicato nella Rivista di Diritto Processuale ,Piero Calamandrei (altra personalità che non può essere tacciato né di berlusconismo, se non altro per ragioni anagrafiche, né di vicinanza al centrodestra) aveva sottolineato come “l’eccessiva durata del processo” è “motivo di crisi” del sistema giudiziario e, quindi, delle libertà civili. Più di recente, il Premio Nobel per l’Economia Douglas North, nella sua opera principale molto diffusa in traduzione italiana (Istitutizioni, evoluzione istituzionale, andamento dell’economia) , ha sottolineato come l’aumento dei costi di transazione (derivante dalla durata eccessiva dei processi) sia un freno all’economia, pur se arricchisca alcuni (spesso membri dell’ordinamento giudiziario medesimo) tramite concordati extra-giudiziari.
Le citazioni potrebbe continuare. Sono note le continue severe critiche che ci vengono rivolte dalla Corte di Giustizia dei Diritti dell’Uomo di Strasburgo e dalla Corte di Giustizia Europea, nonché implicite nella analisi della Banca Mondiale e dell’Unctad (tutte organizzazioni distinte e distanti dalla nostre beghe) secondo cui la lunga durata dei procedimenti e la mancanza di chiara distinzione tra accusa e giudizi (tipica di tutti i Paesi civili) sono tra le determinanti principali dello scarso flusso d’investimenti privati dall’estero alla volta dell’Italia.
Ho difficoltà, da semplice economista, a comprendere perché molti magistrati si oppongono a proposta dirette a mettere l’Italia al passo con il resto dei Paesi Ocse. Ho , però una certezza: se ciò non avverrà resteremo al palo- lo stesso ufficio studi della Bce (altra organizzazione che poco ha a che fare con le nostre faccende) avverte che se non cambiamo il tasso di crescita massima del pil (nel dopo crisi) non potrà mai superare l’1,3% l’anno .
Giuseppe Pennisi
Daron Acemoglu è un giovane e simpatico economista turco-americano in odore di Nobel che insegna al M.I.T. Né Acemoglu né il M.I.T. possono essere considerati contigui al centrodestra italiano; verosimilmente, Acemoglu, così preso dai suoi studi, neanche sa di cosa si tratta. Federico Caffè è stato per decenni uno dei maggiori economisti italiani, capo di una scuola di pensiero che si è irradiata in tutte le maggiori università, collaboratore de Il Manifesto. Sparito improvvisamente prima che di Silvio Berlusconi si parlasse al di fuori di Milano2 e che il centrodestra venisse formato. Nessuno degli allievi di Caffè è noto per avere simpatie per l’attuale maggioranza. Hanno invitato Daron Acemoglu a pronunciare le “Federico Caffè Lectures” all’Università “La Sapienza”, uno degli eventi annuali più prestigiosi dell’ateneo , il 16 ed il 17 dicembre. Sala affollatissima di studenti e docenti.
Peccato che non c’era nessun esponente del partito dei magistrati che si oppone alla riforma dell’ordinamento giudiziario, alla separazione delle carriere tra pubblica accusa e giudici giudicanti ed alla fissazione di termini precisi per i processi. Avrebbero avuto molto da imparare dal buon Acemoglu e dalle “lectures” in onore di uno dei collaboratori più prestigiosi de Il Manifesto . La prima delle due lectures riguardava le prassi istituzionali, la seconda le oligarchie. Non si è parlato specificatamente del “caso giustizia” in Italia – troppo lontana dal M.I.T.. Ma di come cattive prassi giovano ad oligarchie e frenano la crescita economica.
Già nel lontano 1941, nel saggio Il nuovo processo civile e la scienza giuridica”, pubblicato nella Rivista di Diritto Processuale ,Piero Calamandrei (altra personalità che non può essere tacciato né di berlusconismo, se non altro per ragioni anagrafiche, né di vicinanza al centrodestra) aveva sottolineato come “l’eccessiva durata del processo” è “motivo di crisi” del sistema giudiziario e, quindi, delle libertà civili. Più di recente, il Premio Nobel per l’Economia Douglas North, nella sua opera principale molto diffusa in traduzione italiana (Istitutizioni, evoluzione istituzionale, andamento dell’economia) , ha sottolineato come l’aumento dei costi di transazione (derivante dalla durata eccessiva dei processi) sia un freno all’economia, pur se arricchisca alcuni (spesso membri dell’ordinamento giudiziario medesimo) tramite concordati extra-giudiziari.
Le citazioni potrebbe continuare. Sono note le continue severe critiche che ci vengono rivolte dalla Corte di Giustizia dei Diritti dell’Uomo di Strasburgo e dalla Corte di Giustizia Europea, nonché implicite nella analisi della Banca Mondiale e dell’Unctad (tutte organizzazioni distinte e distanti dalla nostre beghe) secondo cui la lunga durata dei procedimenti e la mancanza di chiara distinzione tra accusa e giudizi (tipica di tutti i Paesi civili) sono tra le determinanti principali dello scarso flusso d’investimenti privati dall’estero alla volta dell’Italia.
Ho difficoltà, da semplice economista, a comprendere perché molti magistrati si oppongono a proposta dirette a mettere l’Italia al passo con il resto dei Paesi Ocse. Ho , però una certezza: se ciò non avverrà resteremo al palo- lo stesso ufficio studi della Bce (altra organizzazione che poco ha a che fare con le nostre faccende) avverte che se non cambiamo il tasso di crescita massima del pil (nel dopo crisi) non potrà mai superare l’1,3% l’anno .
martedì 15 dicembre 2009
L’INFEZIONE MICROECONOMICA Il Tempo 15 dicembre
L’INFEZIONE MICROECONOMICA
Giuseppe Pennisi
Nel decennale della nascita dell’euro, c’è la minaccia dell’implosione dell’unione monetaria. Lo stock di debito e il deficit toccano il 135% ed al 13% del Pil per la Grecia, il 96% ed il 14% per l’Irlanda, il 75% e l’11% per la Spagna. In aggregato, lo stock debito pubblico per l’area dell’euro è il 90% del Pil . Siamo molto lontani dal patto di stabilità. I birilli deboli sono la Grecia (i cui titoli pubblici sono stati declassati) e la Spagna (il declassamento del cui indebitamento pare imminente), mentre l’Irlanda sta attuando una finanziaria severissima (riduzione degli stipendi pubblici, tagli alle indennità per politici, contributo di solidarietà per le pensioni). In un’unione monetaria, la caduta di un birillo ha effetti su tutti gli altri.
Occorre distinguere tra rischi macroeconomici e infezioni microeconomiche. Per Fmi e Ocse, per l’Italia i rischi macroeconomici sono quasi nulli, specialmente perché la barra della finanziaria è stata tenuta dritta e la ripresa in è destinata a rafforzarsi. Differente la situazione micro-economica. La Banca centrale greca e la Banca centrale europea stimano che € 5,3 miliardi di euro di titoli di Stato greci sono in Italia tramite fondi comuni, titoli strutturali e garanzie ad emissioni di obbligazioni. Alla Banca per i regolamenti internazionali, si parla di € 6,5 miliardi. Tali da appesantire alcuni acquirenti – si parla di Banca IMI, Unicredit, Banca Leonardo, Dexia e certe Regioni-. Infezioni curabilissime pur se potranno comportare dolori artritici. Bankitalia dovrà fare lo “scricchiaossa”.
Giuseppe Pennisi
Nel decennale della nascita dell’euro, c’è la minaccia dell’implosione dell’unione monetaria. Lo stock di debito e il deficit toccano il 135% ed al 13% del Pil per la Grecia, il 96% ed il 14% per l’Irlanda, il 75% e l’11% per la Spagna. In aggregato, lo stock debito pubblico per l’area dell’euro è il 90% del Pil . Siamo molto lontani dal patto di stabilità. I birilli deboli sono la Grecia (i cui titoli pubblici sono stati declassati) e la Spagna (il declassamento del cui indebitamento pare imminente), mentre l’Irlanda sta attuando una finanziaria severissima (riduzione degli stipendi pubblici, tagli alle indennità per politici, contributo di solidarietà per le pensioni). In un’unione monetaria, la caduta di un birillo ha effetti su tutti gli altri.
Occorre distinguere tra rischi macroeconomici e infezioni microeconomiche. Per Fmi e Ocse, per l’Italia i rischi macroeconomici sono quasi nulli, specialmente perché la barra della finanziaria è stata tenuta dritta e la ripresa in è destinata a rafforzarsi. Differente la situazione micro-economica. La Banca centrale greca e la Banca centrale europea stimano che € 5,3 miliardi di euro di titoli di Stato greci sono in Italia tramite fondi comuni, titoli strutturali e garanzie ad emissioni di obbligazioni. Alla Banca per i regolamenti internazionali, si parla di € 6,5 miliardi. Tali da appesantire alcuni acquirenti – si parla di Banca IMI, Unicredit, Banca Leonardo, Dexia e certe Regioni-. Infezioni curabilissime pur se potranno comportare dolori artritici. Bankitalia dovrà fare lo “scricchiaossa”.
lunedì 14 dicembre 2009
NEUROEUROPA: LE TRE POSSIBILI VIE D’USCITA DAGLI SMOTTAMENTI ECONOMICI NELL’UNIONE EUROPEA, Il Foglio15 dicembre
NEUROEUROPA: LE TRE POSSIBILI VIE D’USCITA DAGLI SMOTTAMENTI ECONOMICI NELL’UNIONE EUROPEA
Giuseppe Pennisi
Nel decennale della nascita dell’euro, non è il caso di stappare champagne poiché si è alle prese con la minaccia dell’implosione dell’unione monetaria. Più preoccupanti delle voci degli economisti che si ascoltano in questi giorni, sono quelle di alti funzionari dei Ministeri economici e della Banche centrali. Nelle prime due settimane di dicembre, si sono seduti (riservatamente) al capezzale dell’euro quelli di Eurolandia, Regno Unito, Svizzera, Usa, Canada ed anche Australia e Nuova Zelanda. La settimana iniziata il 14 dicembre, sarà la volta di incontri tra esponenti dell’area dell’euro, della Federal Reserve, del Giappone, della Norvegia e della Svezia.
Cosa è alla base delle preoccupazioni nonostante la forte valorizzazione dell’euro sui mercati internazionali. Da un canto, i “parametri” del Trattato di Maastricht e del “patto di stabilità” (un tetto del 3% del Pil all’indebitamento netto ed un andamento tendenziale verso uno stock del debito pubblico non superiore al 60% del Pil) non vengono rispettati da quasi nessuno; alcuni (Germania, Francia, Italia) per ragioni di breve periodo derivanti dalla recessione in atto, altri per determinanti più profonde attinenti alle strutture ed al funzionamento delle loro economie. In aggregato, lo stock debito pubblico per l’area dell’euro è al 90% del Pil. Siamo molto lontani dal protocollo del marzo 2005 con il quale sono stati ammorbiditi i vincoli del patto di stabilità in caso di recessione. Gli spreads (ossia il differenziale dei rendimenti nominali sui titoli di Stati emessi dai vari Paesi dell’area dell’euro) sono aumentati rapidamente. Le agenzie di rating hanno declassato i titoli in euro emessi dalla Grecia (e la Bce ha minacciato di non comprarne più) e starebbe per prendere misure analoghe nei confronti della Spagna. Mentre l’Irlanda sta adottando una cura da cavallo (riduzione degli stipendi nel pubblico impiego, tagli ancora maggiori alle indennità per cariche politiche, contributi di solidarietà per le pensioni, riassetto degli ammortizzatori), Grecia e Spagna possono diventare i birilli deboli dell’euro: se cadono, possono mettere a repentaglio la fiducia nei confronti dell’intera costruzione. Una prospettiva che fa paura anche a chi non è parte della moneta unica: ciò spiega la presenza di Usa, Canada, Regno Unito, Svizzera, Giappone, Svezia e Norvegia negli incontri di questi giorni ed anche perché la Federal Reserve sarà probabilmente accanto alla Bce (ed a Francia e Germania) in un piano d’emergenza per tenere a galla la Grecia, sempre che Atene dimostri di essere in grado di risanare i propri conti nei prossimi 12 mesi.
Non basta, però, uscire dall’emergenza immediata. La crisi mette a nudo quanto negli Anni Novanta hanno sostenuto economisti come Alberto Alesina e Martin Feldstein) : quella dell’euro non ha le caratteristiche di un’area valutaria ottimale in termini di strutture delle economie dei Paesi membri e di flessibilità dei prezzi dei fattori di produzioni e delle merci e servizi con il risultato che senza riforme profonde, al primo scossone internazionale, si hanno conseguenze gravi, ed asimmetriche, sui vari Paesi.
Come uscirne allora? C’è chi vagheggia un balzo verso una struttura federale con un trasferimenti di entrate e di competenze di spesa a autorità europee in modo da poter disporre di uno strumento di politica di bilancio che possa integrare la politica monetaria della Bce. Lo propongono due economisti in auge tra quelli della giovane generazione, Stephanie A. Kelton e L. Randall Wray, nel Public Policy Brief n. 106 del Levy Economic Institute del Bard College, in uscita in questi giorni. Tesi analogh sono state sostenute spesso anche da politici, per lo più francesi ma anche italiani. Si tratta, però, di un’ipotesi non realistica in quanto comporta una vera e propria cessione di sovranità dalle autorità nazionali a quelle dell’Eurogruppo –passo che nessun Governo dell’area pare pronto a pure solo congetturare. Altra ipotesi estrema viene delineata in documento interni dei servizi della Commissione Europea e della Bce: tamponata la crisi, sarebbe sufficiente una nuova ondata di liberalizzazioni (dove meno ci si è mossi, ossia i servizi). Non solo si tratta di materie di competenza non degli Stati dell’area dell’euro ma degli enti locali (in gran misura i comuni) ma sarebbe un po’ come proporre l’aspirina invece di chiamare uno specialista. Analogamente poco ci si può aspettare dalle nuove authority europee di regolazione e vigilanza dei mercati finanziari dato che anche il funzionamento di quelle nazionali , pur con decenni d’esperienza, lascia a desiderare.
Verosimilmente, si potrebbe aspirare ad andare verso una politica di bilancio comune come prodotto tangibile dei “parlatori” mensili all’interno dell’Eurogruppo. Non sarebbe un passo risolutivo, ma ci si porrebbe sul sentiero corretto.
Giuseppe Pennisi
Nel decennale della nascita dell’euro, non è il caso di stappare champagne poiché si è alle prese con la minaccia dell’implosione dell’unione monetaria. Più preoccupanti delle voci degli economisti che si ascoltano in questi giorni, sono quelle di alti funzionari dei Ministeri economici e della Banche centrali. Nelle prime due settimane di dicembre, si sono seduti (riservatamente) al capezzale dell’euro quelli di Eurolandia, Regno Unito, Svizzera, Usa, Canada ed anche Australia e Nuova Zelanda. La settimana iniziata il 14 dicembre, sarà la volta di incontri tra esponenti dell’area dell’euro, della Federal Reserve, del Giappone, della Norvegia e della Svezia.
Cosa è alla base delle preoccupazioni nonostante la forte valorizzazione dell’euro sui mercati internazionali. Da un canto, i “parametri” del Trattato di Maastricht e del “patto di stabilità” (un tetto del 3% del Pil all’indebitamento netto ed un andamento tendenziale verso uno stock del debito pubblico non superiore al 60% del Pil) non vengono rispettati da quasi nessuno; alcuni (Germania, Francia, Italia) per ragioni di breve periodo derivanti dalla recessione in atto, altri per determinanti più profonde attinenti alle strutture ed al funzionamento delle loro economie. In aggregato, lo stock debito pubblico per l’area dell’euro è al 90% del Pil. Siamo molto lontani dal protocollo del marzo 2005 con il quale sono stati ammorbiditi i vincoli del patto di stabilità in caso di recessione. Gli spreads (ossia il differenziale dei rendimenti nominali sui titoli di Stati emessi dai vari Paesi dell’area dell’euro) sono aumentati rapidamente. Le agenzie di rating hanno declassato i titoli in euro emessi dalla Grecia (e la Bce ha minacciato di non comprarne più) e starebbe per prendere misure analoghe nei confronti della Spagna. Mentre l’Irlanda sta adottando una cura da cavallo (riduzione degli stipendi nel pubblico impiego, tagli ancora maggiori alle indennità per cariche politiche, contributi di solidarietà per le pensioni, riassetto degli ammortizzatori), Grecia e Spagna possono diventare i birilli deboli dell’euro: se cadono, possono mettere a repentaglio la fiducia nei confronti dell’intera costruzione. Una prospettiva che fa paura anche a chi non è parte della moneta unica: ciò spiega la presenza di Usa, Canada, Regno Unito, Svizzera, Giappone, Svezia e Norvegia negli incontri di questi giorni ed anche perché la Federal Reserve sarà probabilmente accanto alla Bce (ed a Francia e Germania) in un piano d’emergenza per tenere a galla la Grecia, sempre che Atene dimostri di essere in grado di risanare i propri conti nei prossimi 12 mesi.
Non basta, però, uscire dall’emergenza immediata. La crisi mette a nudo quanto negli Anni Novanta hanno sostenuto economisti come Alberto Alesina e Martin Feldstein) : quella dell’euro non ha le caratteristiche di un’area valutaria ottimale in termini di strutture delle economie dei Paesi membri e di flessibilità dei prezzi dei fattori di produzioni e delle merci e servizi con il risultato che senza riforme profonde, al primo scossone internazionale, si hanno conseguenze gravi, ed asimmetriche, sui vari Paesi.
Come uscirne allora? C’è chi vagheggia un balzo verso una struttura federale con un trasferimenti di entrate e di competenze di spesa a autorità europee in modo da poter disporre di uno strumento di politica di bilancio che possa integrare la politica monetaria della Bce. Lo propongono due economisti in auge tra quelli della giovane generazione, Stephanie A. Kelton e L. Randall Wray, nel Public Policy Brief n. 106 del Levy Economic Institute del Bard College, in uscita in questi giorni. Tesi analogh sono state sostenute spesso anche da politici, per lo più francesi ma anche italiani. Si tratta, però, di un’ipotesi non realistica in quanto comporta una vera e propria cessione di sovranità dalle autorità nazionali a quelle dell’Eurogruppo –passo che nessun Governo dell’area pare pronto a pure solo congetturare. Altra ipotesi estrema viene delineata in documento interni dei servizi della Commissione Europea e della Bce: tamponata la crisi, sarebbe sufficiente una nuova ondata di liberalizzazioni (dove meno ci si è mossi, ossia i servizi). Non solo si tratta di materie di competenza non degli Stati dell’area dell’euro ma degli enti locali (in gran misura i comuni) ma sarebbe un po’ come proporre l’aspirina invece di chiamare uno specialista. Analogamente poco ci si può aspettare dalle nuove authority europee di regolazione e vigilanza dei mercati finanziari dato che anche il funzionamento di quelle nazionali , pur con decenni d’esperienza, lascia a desiderare.
Verosimilmente, si potrebbe aspirare ad andare verso una politica di bilancio comune come prodotto tangibile dei “parlatori” mensili all’interno dell’Eurogruppo. Non sarebbe un passo risolutivo, ma ci si porrebbe sul sentiero corretto.
Stessa crisi, risposte diverse Ffwebmagazine 14 dicembre
E l'Italia, nonostante i pessimisti, sta messa meglio di altri...
Irlanda, Spagna e Grecia.
Stessa crisi, risposte diverse
di Giuseppe Pennisi I mercati finanziari dell’area dell’euro tremano. La crisi che sta travagliando la Grecia, infatti, può diventare la miccia per l’implosione dell’unione monetaria europea. Crisi analoghe si stagliano per Irlanda e Spagna. Lo affermano numerosi osservatori – dagli americani del Levy Economic Institute del Bard al College alle analisi dei servizi interni della Commissione Europea.
Lo stock di debito e l’indebitamento netto della pubblica amministrazione – rispettivamente al 135% ed al 13% del Pil per la Repubblica Ellenica – toccano , nei preconsuntivi 2009, il 96% ed il 14% per l’Irlanda, il 75% e l’11% per la Spagna e il 91% e l’8% per il Portogallo. Previsioni ancora meno incoraggianti per l’anno prossimo : nel 2010, tenendo conto dei “piani di rientro” già annunciati, la Commissione europea prevede un indebitamento netto della pubblica amministrazione al 15% del Pil per l’Irlanda, al 12% per la Grecia, al 10% per la Spagna ed ancorato all’8% per il Portogallo. In aggregato, lo stock debito pubblico per l’area dell’euro sfiora il 90%, principalmente, però, a ragione non delle intemperanze del “club Med” (Grecia, Portogallo, Spagna) e dell’Irlanda, ma della forte espansione dei disavanzi di bilancio di Germania e Francia sia per salvataggi bancari (e industriali) sia per sostenere la domanda. Pure interpretando generosamente il protocollo del marzo 2005 con il quale sono stati ammorbiditi i vincoli in caso di recessione prolungata, queste cifre sono molto lontane dai parametri (un tetto del 3% del Pil all’indebitamento netto ed un andamento tendenziale verso uno stock del debito pubblico non superiore al 60% del Pil).
Un grande sindacalista francese, Marc Blondel, amava ripetere che nell’era della globalizzazione “i Governi sono diventati i sub-appaltanti dei mercati internazionali”. Il columnist e saggista Usa Thomas Friedman afferma che, a ragione dell’integrazione economica internazionali, i Governi sono in una “camicia di forza tutta d’oro” tanto che a volte è difficile distinguere i programmi della maggioranza da quelli dell’opposizione. In altra sede, ho sottolineato come, per salvare l’unione monetaria, sono necessarie sia una risposta di breve periodo (basata sulla solidarietà inter-comunitaria) di breve periodo sia un assetto di medio e lungo periodo che dia un contrapposto “politico” – una politica di bilancio comune – alla Banca centrale europea (BCE).In questa , invito a riflettere su come i mercati (e la stampa) siano preoccupatissimi di Grecia e Spagna e meno inquieti a proposito dell’Irlanda (i cui dati 2009 e le sui stime 2010 non sembrano più incoraggianti di quelle dei due Paesi mediterranei). In effetti, i mercati temono che i Governi di sinistra al timone di Atene e di Madrid non siano in grado di affrontare la situazione, mentre la legge finanziaria bis presentata il 9 dicembre a Dublino dalla coalizione di liberal-democratici e verdi (il centro-destra della Repubblica) mostra che Esecutivo e Parlamento sanno prendere il toro per le corna con un severo programma di risanamento dei conti pubblici: riduzioni salariali del 5-8% nel pubblico, del 15% per le fasce alte (tra cui i ministri e i parlamentari); un contributo di solidarietà del 7% sulle pensioni; un riassetto degli ammortizzatori sociali; un rilancio temperato degli investimenti pubblici. Sino ad ora, le proteste dei sindacati (contigui ai laburisti) hanno riguardato principalmente il “contributo di solidarietà” per le pensioni. Ma non sono state minacciate azioni di piazza – come quelle che l’on. Antonio Di Pietro invoca quasi ogni giorno, a mo’ di ritornello, in Italia (dove non c’è alcun rischio di finire in situazioni analoghe a quelle di Grecia, Irlanda e Spagna).
14 dicembre 2009
Irlanda, Spagna e Grecia.
Stessa crisi, risposte diverse
di Giuseppe Pennisi I mercati finanziari dell’area dell’euro tremano. La crisi che sta travagliando la Grecia, infatti, può diventare la miccia per l’implosione dell’unione monetaria europea. Crisi analoghe si stagliano per Irlanda e Spagna. Lo affermano numerosi osservatori – dagli americani del Levy Economic Institute del Bard al College alle analisi dei servizi interni della Commissione Europea.
Lo stock di debito e l’indebitamento netto della pubblica amministrazione – rispettivamente al 135% ed al 13% del Pil per la Repubblica Ellenica – toccano , nei preconsuntivi 2009, il 96% ed il 14% per l’Irlanda, il 75% e l’11% per la Spagna e il 91% e l’8% per il Portogallo. Previsioni ancora meno incoraggianti per l’anno prossimo : nel 2010, tenendo conto dei “piani di rientro” già annunciati, la Commissione europea prevede un indebitamento netto della pubblica amministrazione al 15% del Pil per l’Irlanda, al 12% per la Grecia, al 10% per la Spagna ed ancorato all’8% per il Portogallo. In aggregato, lo stock debito pubblico per l’area dell’euro sfiora il 90%, principalmente, però, a ragione non delle intemperanze del “club Med” (Grecia, Portogallo, Spagna) e dell’Irlanda, ma della forte espansione dei disavanzi di bilancio di Germania e Francia sia per salvataggi bancari (e industriali) sia per sostenere la domanda. Pure interpretando generosamente il protocollo del marzo 2005 con il quale sono stati ammorbiditi i vincoli in caso di recessione prolungata, queste cifre sono molto lontane dai parametri (un tetto del 3% del Pil all’indebitamento netto ed un andamento tendenziale verso uno stock del debito pubblico non superiore al 60% del Pil).
Un grande sindacalista francese, Marc Blondel, amava ripetere che nell’era della globalizzazione “i Governi sono diventati i sub-appaltanti dei mercati internazionali”. Il columnist e saggista Usa Thomas Friedman afferma che, a ragione dell’integrazione economica internazionali, i Governi sono in una “camicia di forza tutta d’oro” tanto che a volte è difficile distinguere i programmi della maggioranza da quelli dell’opposizione. In altra sede, ho sottolineato come, per salvare l’unione monetaria, sono necessarie sia una risposta di breve periodo (basata sulla solidarietà inter-comunitaria) di breve periodo sia un assetto di medio e lungo periodo che dia un contrapposto “politico” – una politica di bilancio comune – alla Banca centrale europea (BCE).In questa , invito a riflettere su come i mercati (e la stampa) siano preoccupatissimi di Grecia e Spagna e meno inquieti a proposito dell’Irlanda (i cui dati 2009 e le sui stime 2010 non sembrano più incoraggianti di quelle dei due Paesi mediterranei). In effetti, i mercati temono che i Governi di sinistra al timone di Atene e di Madrid non siano in grado di affrontare la situazione, mentre la legge finanziaria bis presentata il 9 dicembre a Dublino dalla coalizione di liberal-democratici e verdi (il centro-destra della Repubblica) mostra che Esecutivo e Parlamento sanno prendere il toro per le corna con un severo programma di risanamento dei conti pubblici: riduzioni salariali del 5-8% nel pubblico, del 15% per le fasce alte (tra cui i ministri e i parlamentari); un contributo di solidarietà del 7% sulle pensioni; un riassetto degli ammortizzatori sociali; un rilancio temperato degli investimenti pubblici. Sino ad ora, le proteste dei sindacati (contigui ai laburisti) hanno riguardato principalmente il “contributo di solidarietà” per le pensioni. Ma non sono state minacciate azioni di piazza – come quelle che l’on. Antonio Di Pietro invoca quasi ogni giorno, a mo’ di ritornello, in Italia (dove non c’è alcun rischio di finire in situazioni analoghe a quelle di Grecia, Irlanda e Spagna).
14 dicembre 2009
/ Nel 2010 il centenario de “La fanciulla del West” Il Velino 14 dicembre
CLT - Opera/ Nel 2010 il centenario de “La fanciulla del West”
Opera/ Nel 2010 il centenario de “La fanciulla del West”
Roma, 14 dic (Velino) - Solo due teatri italiani, nei loro cartelloni per la stagione appena iniziata, sembrano essersi ricordati che il 2010 è l’anno del centenario (New York, Metropolitan, 10 dicembre 1910) di una dei più importanti lavori del teatro in musica del Novecento: “La fanciulla del West” di Giacomo Puccini. Il Festival pucciniano di Torre del Lago la presenterà per inaugurare la manifestazione il 16 luglio e il “Massimo” di Palermo la porterà in scena il giorno del centenario, ossia il 10 dicembre. Si tratta di due produzioni internazionali che, si spera, viaggeranno in Italia e all’estero. In termini di frequenza di rappresentazioni, le opere di Puccini si dividono in tre categorie: due (“Edgard” e “Le Villi”) non vengono eseguite che raramente; cinque (“Manon Lescaut”, “Bohème”, “Tosca”, “Madama Butterfly”, “Turandot”) sono quasi sempre in cartellone in tutto il mondo; tre (“La fanciulla del West”, “La rondine” e “Il Trittico”) vengono messe in scena con minore frequenza, in particolar modo “La fanciulla del West” per alcune difficoltà specifiche che vale la pena esaminare al fine di valutare con equilibrio l’importanza del centenario.
A Roma, città pucciniana per eccellenza, “La fanciulla” è stata riproposta due anni fa dopo un’assenza durata venti anni. Nella stessa New York non si vede una nuova produzione da tre lustri. Le ragioni per la comparativamente scarsa presenza di questo lavoro dai palcoscenici, rispetto ad altre opere di Puccini, sono tre. In primo luogo, con buona pace dei maggiori studiosi pucciniani, la drammaturgia del lavoro teatrale di Belasco (da cui è tratto, con poche libertà, il libretto) stride, specialmente nel secondo atto, con la scrittura musicale, tanto vocale quanto orchestrale. Un saggio di Gina Guandalini, evidenzia che all’inizio del Novecento, David Belasco era il “re di Broadway”. Ricordiamoci che si trattava della Broadway puritana delle commedie musicali patriottico-moralistiche di George M. Cohen. Il dramma ha di conseguenza aspetti inverosimili: come si può pensare che Minnie (unica donna in un mondo di minatori e cow-boy) sia una locandiera vergine (quasi goldoniana), che non ha ancora dato “il primo bacio”, e che vada a dormire sul divano del soggiorno per non dividere il letto con l’uomo di cui è perdutamente innamorata? Ciò è perfettamente in linea con un’America che ancora negli anni Quaranta faceva morire di stenti uno dei maggiori compositori del secolo scorso, Alexander von Zemlisky, poiché considerava “indecente” il suo ultimo capolavoro. Ma cozza con la musica di un Puccini che 17 anni prima del debutto de “La fanciulla” aveva riportato prepotentemente, sulla scena lirica italiana, tramite “Manon Lescaut”, quell’eros che era stato messo alla porta dal melodramma verdiano. Nell’edizione vista e ascoltata a Torre del Lago nel 2005, sembrava che il “saloon” fosse un dopolavoro aziendale e l’intera vicenda uno spettacolo per educande.
In secondo luogo, proprio a ragione dell’eros (non dimentichiamo che in quel periodo Puccini stava vivendo una complicata vicenda sentimental-sessuale personale), “La fanciulla del West” è la partitura più wagneriana del compositore lucchese. Lo sottolineano Julien Budden e Michele Girardi ricordando, sia l’impiego dei leitmotiv, sia l’“accordo di Tristano” (il motivo di quattro note che domina l’intero finale del secondo atto) sia i (meno noti) nessi tra il breve arioso di Rance al primo atto e il monologo di Re Marco. Il richiamo a Wagner (più che a Strauss, Korngold e Debussy molto presenti nelle opere successive, specialmente in “La rondine” e in “Turandot”) dipende, a mio avviso dalla carica erotico-passionale, che Puccini ha dato a “La fanciulla”, specialmente nel secondo atto. Non dimentichiamo l’impatto che ebbe su Puccini il “Siegfried”- specialmente la seconda parte del terzo atto, la travolgente scena d’amore tra Brunhilde e il giovane protagonista in cui si intrecciano i leitmotiv dell’”estasi d’amore” del “rapimento d’amore”. Replicare una tensione analoga ne “La fanciulla” – come il compositore pare intendesse - comporta un’orchestrazione grandiosa e, al tempo stesso, raffinata. Non per nulla, l’opera è stata scritta avendo in mente l’orchestra del Metropolitan e la direzione musicale di Arturo Toscanini alla cui bacchetta venne affidata la “prima” a New York.
In terzo luogo, l’opera è stata concepita per due voci molto speciali: Emmy Destinn ed Enrico Caruso, nei ruoli di Minnie e Dick. Emmy Destinn era uno dei maggiori soprani wagneriani dell’epoca ma aveva un’estensione che le consentiva di giungere a ruoli da mezzosoprano come Carmen. Ebbe una carriera relativamente breve a ragione di complesse vicende politiche legate alla Prima guerra mondiale. Note le doti, pressoché uniche, di Caruso, seppure le case discografiche dell’epoca si siano lasciate sfuggire l’opportunità di fargli incidere le due arie più celebri de “La fanciulla”. Il ruolo di Jack venne scritto pensando a Pasquale Amato, baritono verista secondo tutti i canoni del caso ma, forse, non particolarmente eccezionale. In locandina ci sono altri 16 ruoli minori, ciascuno dei quali ben definito vocalmente e non tutti privi d’asperità. Ancora una volta un riferimento wagneriano, a un’opera colma di personaggi come “I maestri cantori”.
In questi giorni a Bruxelles sono stati presentati, per la prima volta in versione integrale, le proiezioni dei funerali solenni di Puccini che si svolsero nella capitale belga 1924 e del filmato inedito del 1910 che ritrae il maestro a New York in occasione del debutto de “La fanciulla del West. L’iniziativa è stata promossa dalla Fondazione Festival Pucciniano insieme alla Regione Toscana in occasione dell’85esimo anniversario della morte del grande compositore. Si tratta di pellicole rarissime recuperate dal professor De Santi, neo direttore artistico di Europa Cinema, nel corso delle sue accurate ricerche sulla filmografia pucciniana. Il presidente della Fondazione Festival di Torre del Lago, Massimiliano Simoni, ha presentato in anteprima l’allestimento de “La fanciulla del West” firmato dalla regista Kirsten Harms e dallo scultore Franco Adami, fiore all’occhiello del programma delle celebrazioni per il centenario dell’opera, insieme alla rassegna cinematografica dedicata al titolo pucciniano.
(Hans Sachs) 14 dic 200
Opera/ Nel 2010 il centenario de “La fanciulla del West”
Roma, 14 dic (Velino) - Solo due teatri italiani, nei loro cartelloni per la stagione appena iniziata, sembrano essersi ricordati che il 2010 è l’anno del centenario (New York, Metropolitan, 10 dicembre 1910) di una dei più importanti lavori del teatro in musica del Novecento: “La fanciulla del West” di Giacomo Puccini. Il Festival pucciniano di Torre del Lago la presenterà per inaugurare la manifestazione il 16 luglio e il “Massimo” di Palermo la porterà in scena il giorno del centenario, ossia il 10 dicembre. Si tratta di due produzioni internazionali che, si spera, viaggeranno in Italia e all’estero. In termini di frequenza di rappresentazioni, le opere di Puccini si dividono in tre categorie: due (“Edgard” e “Le Villi”) non vengono eseguite che raramente; cinque (“Manon Lescaut”, “Bohème”, “Tosca”, “Madama Butterfly”, “Turandot”) sono quasi sempre in cartellone in tutto il mondo; tre (“La fanciulla del West”, “La rondine” e “Il Trittico”) vengono messe in scena con minore frequenza, in particolar modo “La fanciulla del West” per alcune difficoltà specifiche che vale la pena esaminare al fine di valutare con equilibrio l’importanza del centenario.
A Roma, città pucciniana per eccellenza, “La fanciulla” è stata riproposta due anni fa dopo un’assenza durata venti anni. Nella stessa New York non si vede una nuova produzione da tre lustri. Le ragioni per la comparativamente scarsa presenza di questo lavoro dai palcoscenici, rispetto ad altre opere di Puccini, sono tre. In primo luogo, con buona pace dei maggiori studiosi pucciniani, la drammaturgia del lavoro teatrale di Belasco (da cui è tratto, con poche libertà, il libretto) stride, specialmente nel secondo atto, con la scrittura musicale, tanto vocale quanto orchestrale. Un saggio di Gina Guandalini, evidenzia che all’inizio del Novecento, David Belasco era il “re di Broadway”. Ricordiamoci che si trattava della Broadway puritana delle commedie musicali patriottico-moralistiche di George M. Cohen. Il dramma ha di conseguenza aspetti inverosimili: come si può pensare che Minnie (unica donna in un mondo di minatori e cow-boy) sia una locandiera vergine (quasi goldoniana), che non ha ancora dato “il primo bacio”, e che vada a dormire sul divano del soggiorno per non dividere il letto con l’uomo di cui è perdutamente innamorata? Ciò è perfettamente in linea con un’America che ancora negli anni Quaranta faceva morire di stenti uno dei maggiori compositori del secolo scorso, Alexander von Zemlisky, poiché considerava “indecente” il suo ultimo capolavoro. Ma cozza con la musica di un Puccini che 17 anni prima del debutto de “La fanciulla” aveva riportato prepotentemente, sulla scena lirica italiana, tramite “Manon Lescaut”, quell’eros che era stato messo alla porta dal melodramma verdiano. Nell’edizione vista e ascoltata a Torre del Lago nel 2005, sembrava che il “saloon” fosse un dopolavoro aziendale e l’intera vicenda uno spettacolo per educande.
In secondo luogo, proprio a ragione dell’eros (non dimentichiamo che in quel periodo Puccini stava vivendo una complicata vicenda sentimental-sessuale personale), “La fanciulla del West” è la partitura più wagneriana del compositore lucchese. Lo sottolineano Julien Budden e Michele Girardi ricordando, sia l’impiego dei leitmotiv, sia l’“accordo di Tristano” (il motivo di quattro note che domina l’intero finale del secondo atto) sia i (meno noti) nessi tra il breve arioso di Rance al primo atto e il monologo di Re Marco. Il richiamo a Wagner (più che a Strauss, Korngold e Debussy molto presenti nelle opere successive, specialmente in “La rondine” e in “Turandot”) dipende, a mio avviso dalla carica erotico-passionale, che Puccini ha dato a “La fanciulla”, specialmente nel secondo atto. Non dimentichiamo l’impatto che ebbe su Puccini il “Siegfried”- specialmente la seconda parte del terzo atto, la travolgente scena d’amore tra Brunhilde e il giovane protagonista in cui si intrecciano i leitmotiv dell’”estasi d’amore” del “rapimento d’amore”. Replicare una tensione analoga ne “La fanciulla” – come il compositore pare intendesse - comporta un’orchestrazione grandiosa e, al tempo stesso, raffinata. Non per nulla, l’opera è stata scritta avendo in mente l’orchestra del Metropolitan e la direzione musicale di Arturo Toscanini alla cui bacchetta venne affidata la “prima” a New York.
In terzo luogo, l’opera è stata concepita per due voci molto speciali: Emmy Destinn ed Enrico Caruso, nei ruoli di Minnie e Dick. Emmy Destinn era uno dei maggiori soprani wagneriani dell’epoca ma aveva un’estensione che le consentiva di giungere a ruoli da mezzosoprano come Carmen. Ebbe una carriera relativamente breve a ragione di complesse vicende politiche legate alla Prima guerra mondiale. Note le doti, pressoché uniche, di Caruso, seppure le case discografiche dell’epoca si siano lasciate sfuggire l’opportunità di fargli incidere le due arie più celebri de “La fanciulla”. Il ruolo di Jack venne scritto pensando a Pasquale Amato, baritono verista secondo tutti i canoni del caso ma, forse, non particolarmente eccezionale. In locandina ci sono altri 16 ruoli minori, ciascuno dei quali ben definito vocalmente e non tutti privi d’asperità. Ancora una volta un riferimento wagneriano, a un’opera colma di personaggi come “I maestri cantori”.
In questi giorni a Bruxelles sono stati presentati, per la prima volta in versione integrale, le proiezioni dei funerali solenni di Puccini che si svolsero nella capitale belga 1924 e del filmato inedito del 1910 che ritrae il maestro a New York in occasione del debutto de “La fanciulla del West. L’iniziativa è stata promossa dalla Fondazione Festival Pucciniano insieme alla Regione Toscana in occasione dell’85esimo anniversario della morte del grande compositore. Si tratta di pellicole rarissime recuperate dal professor De Santi, neo direttore artistico di Europa Cinema, nel corso delle sue accurate ricerche sulla filmografia pucciniana. Il presidente della Fondazione Festival di Torre del Lago, Massimiliano Simoni, ha presentato in anteprima l’allestimento de “La fanciulla del West” firmato dalla regista Kirsten Harms e dallo scultore Franco Adami, fiore all’occhiello del programma delle celebrazioni per il centenario dell’opera, insieme alla rassegna cinematografica dedicata al titolo pucciniano.
(Hans Sachs) 14 dic 200
venerdì 11 dicembre 2009
Four North Americans in Two Acts La Scena Musicale 12 dicembre
Rome: Four North Americans in Two Acts
By Giuseppe Pennisi
This article does do not deal with a Roman revival of Four Saints in Three Acts, the late 1920’s marvelous jewel by Virgil Thompson on a Gertrude Stein libretto. Neither does it review a two-act opera in any conventional sense. This December, four North American composers – three in their 70s and the “kid” about 55 – delighted Roman audiences with two different world premières: a 100-minute one-act children's opera by Philip Glass and a 60-minute tone poem by the MEV (Musica Elettronica Viva ensemble of live electronics, started in 1966 by Frederic Rzweski, Richard Teitelbaum and others – now including also Alvin Curran). The Glass opera is titled Le Streghe di Venezia (The Witches of Venice) and will be a central feature of the Ravenna Festival next Summer; the opera may also travel to the US. The MEV tone poem is called Grande Raccordo Anulare (The Beltway) and will have concert performances in North America. The link between the opera and the tone poem is that they both mirror visions of Italy (as it was) by contemporary American composers.
Le Streghe di Venezia is bas ed on a short novel by Beni Montresor, for several years a key figure of the New York City Opera. An opera-ballet version was presented at La Scala in December 1995, but the original composition was largely modified and not in line with Glass’ intentions. The Roman version is produced by Musica per Roma in the Parco della Musica and mirrors very closely what Glass wanted. The text can be read in several ways: an initiation process of two children to end up on Venice’s throne (e.g. a modern Mozart’s Magic Flute), a Christmas tale (such as Menotti’s Ahmal and the Night Visitors), the fatigue of an old king in a rapidly changing world (like in Berio’s Un Re in Ascolto), the intrigues of both the political and the performing arts’ environment (as in Strauss’ Capriccio). The final aria, by the chamber maid, is sad (La vita è difficile) but with glimmers of hope (un pò di vino rosso fa cantar): in short, life is difficult but a little red wine makes you sing happily. Le Streghe is quite interesting musically: Glass’ minimalism includes also quotations from Mozart and Rossini as well as a bit of live electronics.
The Roman produ ction is also a joy for the eyes: in a small theatre for 700 seats, computerized projections, mimes, acrobats and glittering, colourful costumes make the audience feel that a feast is going on. The stage direction (Giorgio Barberio Corsetti) is fast: although the performance starts at 9 p.m. and ends at nearly 11 p.m., the many children in the audience followed the plot with interest and enjoyed the show. Among the voices, worth mentioning are Carmen Romeu, Anna Goryacheva and two children: Matteo Graziani and Francesco Passaretti alternate in the role of the boy and Maria Luisa Paglione and Daniela Sbrigoli in that of the girl. The Contemporanea Ensemble del Parco della Musica is of high quality.
MEV has a long history: the ensem ble was begun one evening in the spring of 1966 by Alan Bryant, Alvin Curran, Jon Phetteplace, Carol Plantamura, Frederic Rzweski (pictured here), Richard Teitelbaum and Ivan Vandor in a room in Rome overlooking the Pantheon. At that time, the Italian capital was a major center for American musicians abroad – more important than Paris and London. To fully grasp the spirit of the time, it is useful to read Marjorie Whright's The Rise and Fall of a La Scala Diva (Janus Publishing Company Ltd, London 2007).
In 1971, when Frederic Rzweski moved into an apartment in New York, a box containing the MEV files was mistaken for trash and thrown into the incinerator chute. Though the group would never be able to play in this remarkable domed temple with a hole in its top, MEV's music right from the start was also totally open, allowing all and everything to come in and seek in every way to get out beyond the heartless conventions of contemporary music. Taking cue from Tudor and Cage, MEV began sticking contact mics to anything that sounded and amplified their raw sounds: bed springs, sheets of glass, tin cans, rubber bands, toy pianos, sex vibrators, and assorted metal junk; a crushed old trumpet, cello and tenor sax kept us within musical credibility, while a home-made synthesizer of some 48 oscillators along with the first Moog synthesizer in Europe gave our otherwise neo-primitive sound an inimitable edge. By 1969, MEV was known everywhere in the world's undergrounds and above ground, too. They had played hundreds of concerts in Europe, made two LPs and had collaborated with Jean-Jacques Lebel, The Living Theater, Pierre Clementi, Michelangelo Pistoletto, Gianni Kounnelis, Simone Forti, members of the Chicago Art Ensembl e, Cornelius Cardew's AMM group, the Scratch Orchestra, Nuova Consonanza, Vittorio Gelmetti, Giuseppe Chiari, Kosugi, Ashley, Behrman, Mumma and Lucier. MEV resists retirement and greatly enjoys its one gig a year. Its founding members have each gone on to develop very different but compatible music which in the anarchic MEV tradition stand in strong opposition to the aggressive demands of today's media and marketing moguls.
The initiators of MEV returned to Rome with this brand new Grande Raccordo Anulare – a live electronics tone poem full of nostalgia for Rome in the 60s, a heartfelt homage to the city where they started their unique adventure. It's generous and moving at the same time. It was performed in the auditorium of the Università “La Sapienza” to the enjoyment of young and not-so-young live electronics.
THE PLAY BILL of Le Streghe di Venezia
C. Romeo, A. Goraycheva, G. Bocchino, S. Alberti, M. Graziani, F. Passaretti, M.L. Paglione, D. Sbrigoli, Conductor Tonino Battista Parco della Musica Contemporanea Ensemble, Stage direction and sets Giorgio Barberio Corsetti, Costumes Marina Schindler, Lighting Gianluca Cappelletti, Choreography Julien Lambert, Video Angelo Longo Cantori del Coro Arcobaleno dell’Accademia Nazionale di Santa Cecilia Libretto Beni Montresor , Acrobats. J.Lambert, E. Bettin, D. Sorisi, L. Trefiletti
Labels: Austin Lyric Opera, MEV, Philip Glass, Rom
By Giuseppe Pennisi
This article does do not deal with a Roman revival of Four Saints in Three Acts, the late 1920’s marvelous jewel by Virgil Thompson on a Gertrude Stein libretto. Neither does it review a two-act opera in any conventional sense. This December, four North American composers – three in their 70s and the “kid” about 55 – delighted Roman audiences with two different world premières: a 100-minute one-act children's opera by Philip Glass and a 60-minute tone poem by the MEV (Musica Elettronica Viva ensemble of live electronics, started in 1966 by Frederic Rzweski, Richard Teitelbaum and others – now including also Alvin Curran). The Glass opera is titled Le Streghe di Venezia (The Witches of Venice) and will be a central feature of the Ravenna Festival next Summer; the opera may also travel to the US. The MEV tone poem is called Grande Raccordo Anulare (The Beltway) and will have concert performances in North America. The link between the opera and the tone poem is that they both mirror visions of Italy (as it was) by contemporary American composers.
Le Streghe di Venezia is bas ed on a short novel by Beni Montresor, for several years a key figure of the New York City Opera. An opera-ballet version was presented at La Scala in December 1995, but the original composition was largely modified and not in line with Glass’ intentions. The Roman version is produced by Musica per Roma in the Parco della Musica and mirrors very closely what Glass wanted. The text can be read in several ways: an initiation process of two children to end up on Venice’s throne (e.g. a modern Mozart’s Magic Flute), a Christmas tale (such as Menotti’s Ahmal and the Night Visitors), the fatigue of an old king in a rapidly changing world (like in Berio’s Un Re in Ascolto), the intrigues of both the political and the performing arts’ environment (as in Strauss’ Capriccio). The final aria, by the chamber maid, is sad (La vita è difficile) but with glimmers of hope (un pò di vino rosso fa cantar): in short, life is difficult but a little red wine makes you sing happily. Le Streghe is quite interesting musically: Glass’ minimalism includes also quotations from Mozart and Rossini as well as a bit of live electronics.
The Roman produ ction is also a joy for the eyes: in a small theatre for 700 seats, computerized projections, mimes, acrobats and glittering, colourful costumes make the audience feel that a feast is going on. The stage direction (Giorgio Barberio Corsetti) is fast: although the performance starts at 9 p.m. and ends at nearly 11 p.m., the many children in the audience followed the plot with interest and enjoyed the show. Among the voices, worth mentioning are Carmen Romeu, Anna Goryacheva and two children: Matteo Graziani and Francesco Passaretti alternate in the role of the boy and Maria Luisa Paglione and Daniela Sbrigoli in that of the girl. The Contemporanea Ensemble del Parco della Musica is of high quality.
MEV has a long history: the ensem ble was begun one evening in the spring of 1966 by Alan Bryant, Alvin Curran, Jon Phetteplace, Carol Plantamura, Frederic Rzweski (pictured here), Richard Teitelbaum and Ivan Vandor in a room in Rome overlooking the Pantheon. At that time, the Italian capital was a major center for American musicians abroad – more important than Paris and London. To fully grasp the spirit of the time, it is useful to read Marjorie Whright's The Rise and Fall of a La Scala Diva (Janus Publishing Company Ltd, London 2007).
In 1971, when Frederic Rzweski moved into an apartment in New York, a box containing the MEV files was mistaken for trash and thrown into the incinerator chute. Though the group would never be able to play in this remarkable domed temple with a hole in its top, MEV's music right from the start was also totally open, allowing all and everything to come in and seek in every way to get out beyond the heartless conventions of contemporary music. Taking cue from Tudor and Cage, MEV began sticking contact mics to anything that sounded and amplified their raw sounds: bed springs, sheets of glass, tin cans, rubber bands, toy pianos, sex vibrators, and assorted metal junk; a crushed old trumpet, cello and tenor sax kept us within musical credibility, while a home-made synthesizer of some 48 oscillators along with the first Moog synthesizer in Europe gave our otherwise neo-primitive sound an inimitable edge. By 1969, MEV was known everywhere in the world's undergrounds and above ground, too. They had played hundreds of concerts in Europe, made two LPs and had collaborated with Jean-Jacques Lebel, The Living Theater, Pierre Clementi, Michelangelo Pistoletto, Gianni Kounnelis, Simone Forti, members of the Chicago Art Ensembl e, Cornelius Cardew's AMM group, the Scratch Orchestra, Nuova Consonanza, Vittorio Gelmetti, Giuseppe Chiari, Kosugi, Ashley, Behrman, Mumma and Lucier. MEV resists retirement and greatly enjoys its one gig a year. Its founding members have each gone on to develop very different but compatible music which in the anarchic MEV tradition stand in strong opposition to the aggressive demands of today's media and marketing moguls.
The initiators of MEV returned to Rome with this brand new Grande Raccordo Anulare – a live electronics tone poem full of nostalgia for Rome in the 60s, a heartfelt homage to the city where they started their unique adventure. It's generous and moving at the same time. It was performed in the auditorium of the Università “La Sapienza” to the enjoyment of young and not-so-young live electronics.
THE PLAY BILL of Le Streghe di Venezia
C. Romeo, A. Goraycheva, G. Bocchino, S. Alberti, M. Graziani, F. Passaretti, M.L. Paglione, D. Sbrigoli, Conductor Tonino Battista Parco della Musica Contemporanea Ensemble, Stage direction and sets Giorgio Barberio Corsetti, Costumes Marina Schindler, Lighting Gianluca Cappelletti, Choreography Julien Lambert, Video Angelo Longo Cantori del Coro Arcobaleno dell’Accademia Nazionale di Santa Cecilia Libretto Beni Montresor , Acrobats. J.Lambert, E. Bettin, D. Sorisi, L. Trefiletti
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