Nel tardo pomeriggio di oggi 18 settembre, tenendo conto delle differenze di fuso orario, sapremo se e di quanto il Comitato per le Operazioni sul Mercato Aperto della Federal Reserve ha ritoccato all’ingiù l’interbancario – il tasso direttore del mercato americano, dove invece il discount rate è il saggio applicato dalla Riserva Federale al numero limitato di banche direttamente assicurato con la Fed. La riunione della Fed inizia tradizionalmente alle 10 del mattino (ora di Washington D.C); raramente il comunicato viene diramato prima delle 13 (ora Costa Orientale Usa). Spesso si aspetta di pubblicarlo a mercati chiusi (cioè quando da noi è notte alta). A questa prassi, però, non mancano eccezioni – quando i componenti del Comitato sono concordi (e c’è di fatto un accordo precostituito).
Ci sono le condizioni che dovrebbero indurre ad un ribasso. Non tanto la crisi dei Cdo (Colleteral debt obligations con un’elevata componente di mutui subprime) od il panico scatenatosi Oltre Manica (che potrebbe ripetersi Oltre Oceano) per il timore di una crisi di liquidità di un istituto di credito (la Northern Rock) che riempito questi ultimi giorni i quotidiani britannici (e non solo) di foto di lunghe file allo sportello di clienti intenzionati a ritirare depositi e chiudere conti. Due indicatori eloquenti (lo spread dei tassi tra interbancario e buoni del Tesoro a due anni – in termini tecnici la curva dei rendimenti “rovesciata”- e l’andamento dell’occupazione) sembrano indicare che gli Usa sono sulla soglia di una brusca frenata che potrebbe diventare una recessione. Attenzione, le stime del consensus ( quelle dei 20 istituti di analisi econometrica su cui si basano anche quelle del nostro Dpef, relativi aggiornamenti e relazione alla finanziaria in fase di stesura) affermano ancora che nel 2008 il pil Usa crescerebbe del 2,8% (trainando l’economia atlantica), ma le simulazioni effettuate a Constitution Ave. N.W. di Washington D.C. (l’edificio in stile tardo fascista dove ha sede la Fed) la sera del 14 settembre (e continuate durante il fine settimana) mostrano invece che l’economia sta scivolando verso crescita zero, ove non verso uno od anche due trimestri di crescita negativa.
Gli Statuti della Fed (a differenza di quelli della Bce) non chiedono alle autorità monetarie di vigilare soltanto sui prezzi ma anche di assicurare la crescita, purché non inflazionistica. Ciò significa (argomento frequente delle conversazioni di questi giorni al Cosmos Club, il circolo della capitale Usa più frequentato da Ben Bernanke) prevenire una recessione, od anche solamente una stagnazione. Di fronte al timore che la frenata porti alla prima od anche solamente alla seconda, stanno aumentando le pressioni perché l’interbancario venga ridotto almeno dal 5,35% al 4,75% od anche al 4,50%. Ciò renderebbe senza dubbio più appetitose altre attività finanziarie, ridurrebbe l’avversione al rischio e rilancerebbe i mercati.
Da sola, però, la Fed non riuscirà a porre l’economia su un sentiero di crescita sostenibile di lunga durata il cui segnale principale sarebbe la contrazione del disavanzo delle partite correnti della bilancia dei pagamenti (ed una risalita del valore del dollaro sui mercati internazionali). Si devono attivare le altre leve della politica economica, specialmente della politica di bilancio. Con una campagna elettorale e azioni militari in corso, ciò non è affatto semplice.
Il Governo Prodi attende di sapere cosa farà la Fed e soprattutto se ed in che misura i segnali di un rallentamento dell’economia Usa incideranno sul ciclo italiano, in particolare sul 2008. Se, l’anno prossimo, il pil dell’Italia avrà un tasso di crescita inferiore all’1,5%, sarà difficile “fare la quadra”, anche nell’ipotesi che Ministri e Ministeri frenino le loro richieste.
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