Ad una prima veloce lettura on line, il “Libro Verde” sulla qualità della spesa pubblica presentato dal Ministro dell’Economia e delle Finanze , Tommaso Padoa Schioppa (TPS), può essere interpretato in due modi differenti: o come un alibi o come un primo importante passo per riqualificare quello che un tempo – la definizione la diede Franco Reviglio – veniva chiamato “il settore pubblico allargato”.
Sarebbe un alibi se “the quality of spending”, al pari del “the quality of mercy” della shakespeariana Porzia ne “Il Mercato di Venezia”, servisse principalmente a far sì che non si tagliasse, nella prossima finanziaria, quel “pound of flesh” – ma probabilmente se ne dovrebbero tagliare non una libbra ma tonnellate – di spese poco produttive, in fase di preparazione proprio in questi giorni. Si sposterebbe l’attenzione alla qualità della spesa e non si farebbe nulla per fare dimagrire la macchina pubblica.
Sarebbe, invece, un primo passo importante se fosse l’inizio di una procedura per vagliare la produttività sociale (ossia dal punto di vista dell’utilità collettiva della società) dei singoli comparti di spesa ed effettuare scelte pertinenti. Non sta a me dare suggerimenti a TPS. Può essere utile, però, ricordare che lasciai la Banca mondiale nel 1982 indotto dal Governo Spadolini a rientrare in Italia per creare e dirigere il Nucleo di valutazione degli investimenti pubblici: cominciando dalla spesa in conto capitale, il Nucleo avrebbe dovuto portare ad un miglioramento qualitativo anche della spesa corrente. Le vicende che portarono al sostanziale fallimento dell’esperienza sono narrate nel volume “Spesa pubblica e bisogno di inefficienza” pubblicato nel 1987 dal Mulino. All’inizio degli Anni 80, tentammo di introdurre strumentazioni quantitative – dall’analisi costi benefici all’utilizzazione di modelli computabili di equilibrio economico. Forse si era troppo ambiziosi alla luce delle capacità della pubblica amministrazione dell’epoca. Non andò molto meglio all’esperienza guidata da Luca Meldolesi (e narrata ancora una volta in un libro del Mulino) che si basava, invece, su analisi micro con un forte contenuto socio-organizzativo.
Da allora molte cose sono cambiate: la normativa di base sulla valutazione della spesa è stata rafforzata, nella amministrazioni sono entrati circa 300 giovani dirigenti, la Scuola superiore della pubblica amministrazione (Sspa) conduce corsi e percorsi formativi in analisi della spesa, è nata (dieci anni fa) un’Associazione italiana della valutazione che pubblica una rivista ormai accettata a livello internazionale, i Fondi strutturali europei hanno diffuso la cultura della valutazione al fine di individuare elementi di forza e di debolezza nell’azione e nella spesa pubblica. TPS, quindi, avrebbe modo di giocare bene questa partita con buone probabilità di ottenere successi.
Deve, però, in primo luogo specificare quali strumenti verranno utilizzati per vagliare la qualità della spesa. L’esempio dello Spending Review britanniche, tentato pure nella precedente legislatura, pare poco appropriato al nostro contesto (fortemente decentrato rispetto a quello del Regno Unito). Meglio seguire la strada del Programme de Rationalization des Choix Budgettaires adottato in Francia negli Anni 80 e 90 quando le singole amministrazioni confrontavano (con una varietà di metodi e procedure) le loro analisi: le analisi erano pubblicate in un periodico de La Documentation Française e messe a disposizione di tutti gli interessati (altre amministrazioni, Regioni, studiosi, parti in causa, semplici curiosi). E’ stato un approccio molto utile – e soprattutto molto trasparente – che ha consentito, nel tempo, un effettivo miglioramento della qualità della spesa.
E’ un modo spedito ed efficace per passare dalle parole ai fatti. E di non farsi accusare di strumentalizzare “the quality of spending” per togliere il grasso che c’è nella macchina pubblica. Il fatto che proprio mentre TPS predica “the quality of spending” si vogliano chiudere i corsi della Sspa diretti a questo scopo non indica particolarmente bene. Rafforza quel dubbio che – mi diceva Altiero Spinelli nelle lunghe serate che passavamo insieme a Washington - è sempre l’essenza dei veri liberali.
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