giovedì 27 settembre 2007

I TAMUBIRI DI LATTA NON STONANO

”Teneke” è il nome dei tamburi di latta con cui i contadini della Anatolia rurale accompagnano i loro canti. Lieti e tristi. E’ anche il titolo di un romanzo (del 1955) dello scrittore Yasar Kemal da cui Franco Marcoaldi ha tratto un dramma in musica composto da Fabio Vacchi (uno dei musicisti italiani più eseguito e più rappresentato all’estero) che, il 22 settembre, ha debuttato alla Scala (dove è in scena sino al 4 ottobre) con la regia di Ermanno Olmi e le scene di Arnaldo Pomodoro. Il successo è stato enorme, con lunghi applausi alla “prima” ed indicazioni di riprese pure all’estero.
“Teneke” è un lavoro accattivante: coniuga un forte senso del teatro con una scrittura musicale ed orchestrale rivolta più al “Novecento Storico” (in particolare agli Anni ‘50) che alla contemporaneità più sfrenata. E’, in parte per questa ragione, che piace al pubblico. In 20 rapide scene presenta il dramma della lotta sociale dei contadini della povera Anatolia degli Anni ‘50 contro i latifondisti, nell’ambito di un programma di trasformazione agricola la cui rendita è destinata ai proprietari, ma il villaggio dei contadini viene allagato prima ancora che possano trovare riparo altrove, le culture tradizionali vengono distrutte e l’acqua stagnante causa la diffusione della malaria. Un giovane prefetto di prima nomina cerca di opporsi, ma viene calunniato e successivamente richiamato nella sede centrale del Ministero a Ankara. Nonostante la sconfitta, si avverte il riscatto sociale in un futuro non lontano nel suono dei teneke (nella parte più alta del palcoscenico) e (in buca) nelle percussion, nei fiati e negli ottoni del breve poema sinfonico che con grande impatto stereofonico conclude l’opera.
Sotto il profilo drammaturgico (Vacchi ha grande dimestichezza di musica per film ed Olmi è regista cinematografico) le due parti (divise da un breve intervallo) sono incalzanti come i film di Franco Rosi e di Luchino Visconti su tematiche analoghe. Molto efficace la scenografia: un’Anatolia arsa dal sole e della polvere nella prima parte (che si chiude con una spettacolare inondazione) ed una montagna di fango nero, intramezzata da acquitrini, nella seconda.
La scrittura musicale fonde un sinfonismo continuo per vasto organico mahleriano con distillati di musica etnica e cadenze solistiche per violino e violoncello. Roberto Abbado guida con perizia l’orchestra della Scala in un percorso non facile per i musicisti pur di agevole ascolto per il pubblico. Interessante la scrittura vocale: il declamato ai margini dello sprechensang ed il melologo (si comprende ogni parola) si sciolgono in insieme a cappella, ariosi ed anche arie di coloratura sempre contrappuntate dal coro. Il declamato ha chiari radici nel “Novecento storico” mentre il melologo è un tributo addirittura all’Ottocento della “giovane scuola” di allora.
. Roberto Abbado guida con perizia l’orchestra della Scala. Interessante la scrittura vocale: il declamato ai margini dello sprechensang ed il melologo si sciolgono in insieme a cappella, ariosi ed anche arie di coloratura sempre contrappuntanti dal coro.
Guidato da Mauro Casoni, il coro è il protagonista sia dell’azione scenica sia della parte musicale. Dei numerosi solisti occorre ricordare Steve Davislim (un tenero leggero nel ruolo del giovane prefetto), Rachel Harnisch (un soprano da coloratura in quello della sua fidanzata), Anna Smirnova (un mezzo soprano verdiano a capo degli gli insorti) e Nicola Ulivieri (un baritono di agilità, alla guida dei latifondisti).
Predominano, anche nei ruoli vocali dei “cattivi”, le tonalità alte.

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