All’apertura del Festival di Salisburgo 2007, il Sovrintendente Jűrgen Flimm, ha rilasciato un’intervista per sostenere che una delle ragioni della crisi dell’opera lirica nella cultura (quella italiana) che le è dato vita risiede nella povertà di idee dei nostri registi . Quindi, mi sono recato a Salisburgo per constatare di persona. Questa nota riassume un’analisi più ampia disponibile sul nostro sito. I teatri austriaci e tedeschi sono “di repertorio” (ossia lo stesso spettacolo viene replicato cinque-dieci volte l’anno anche per lustri), si prestano allestimenti e non dispongono sovente di palcoscenici tecnologici come quelli della Scala, del Carlo Felice, dell’Opéra Bastille o del Metropolitan. Il pubblico non è più uso a scene dipinte ed a quinte . Le scene costruite mal si adattano al “repertorio” (che spesso comporta rappresentare sette opere la settimana, di cui due la domenica). Le ristrettezze costringono ad aguzzare l’ingegno: quindi attualizzazione degli spettacoli (in abiti moderni si risparmia sui costumi) e grande impiego di proiezioni digitali high tech. Molti registi vengono dal cinema ed hanno dimestichezza con gli “effetti speciali”. Ho visto quattro delle sei opere in programma.
Ne “Il Franco Tiratore” di Carl Maria von Weber, opera “nazionale” tedesca per eccellenza, l’allestimento di Falk Richter segue una traccia ben precisa: la vicenda è trasportata ai nostri giorni, in guerre balcaniche, ed è letta come un “romanzo di iniziazione” del protagonista Max che, da adolescente, diventa adulto. Le parti parlate vengono ampliate (e vengono anche aggiunti personaggio recitanti). L’eros è presente (anzi amplificato: il mondo del demonio è bisessuale e nella tana del lupo si svolge una vera e propria orgia). Il demoniaco è presentissimo: vampate di fuoco avvolgono la fine del secondo atto e odore di zolfo resta in sala durante l’intervallo. Sparisce, però, il paesaggio (anche se il mormorio della foresta rientra dalla buca d’orchestra) ed il sacro viene ridotto alla distribuzione di catenine ed all’apparizione della croce nel finale. La scena unica viene integrata da proiezioni digitali. Il protagonista (Peter Seiffert, ottimo tenore wagneriano), però, è poco credibile, con la sua stazza, i suoi baffi e la sua età, come giovane, ancora vergine e condannato ad un anno ulteriore di castità per espiare il patto con il diavolo.
“Le Nozze di Figaro” di Wolfgan A. Mozart viene letto da Claus Guth (regia) come una “commedia per adulti” in cui si scava in quattro coppie in crisi. Si trasporta l’azione all’inizio del Novecento, quasi in parallelo con la nascita della psicoanalisi. Guth fa riferimento a Ibsen e a Strinberg . A mio avviso, riferimenti più appropriati sarebbero “Sorrisi di una notte d’estate” di Ignmar Bergman e “Candida” di Gorge Bernard Shaw, Nel pudibondo palazzo vittoriano, l’eros è la molla della “folle giornata”. E’ tanto intenso quanto inappagato (sino alla scena finale): tra le varie coppie cominciano più volte giochi sessuali che, nella “folle giornata”, restano incompleti. Questi aspetti sono trattati con eleganza. Il gioco funziona perché i cantanti hanno tutti “le physique du rôle” e (frutto di mesi di prove) recitano con maestria.
L’allestimento di “Eugenio Oneghin” (di Peter I. Ciajkovskij) curato da Andrea Breth (regia), Martin Zehetgruber (scene) , Slike Willert e Marc Weeger (costumi) trasferisce la vicenda dal 1820-1830 agli ultimi anni del regime comunista . La scelta è intelligente in quanto giustappone ancora di più le due giovani coppie, ed i loro fermenti di liberazione (da un ambiente oppressivo, la provincia russa, ed ipocrita, San Pietroburgo) con elementi contadini della Russia di sempre e con un mondo di gerarchi di partito e ufficiali porcelloni (c’è una buona dose di sesso delle salette accanto ai due saloni da festa del secondo e del terzo atto), mentre si annusa la presenza del Kgb. Tutti i cantanti hanno le “physique du rôle” e recitano molto bene. Buona anche la dizione, grazie alla presenza di cantanti russi e di cantanti europei e nord-americani specializzati nel repertorio russo.
Affidato ad un regista di cinema e televisione (Philippe Stőlzl), noto soprattutto per i video-clips di Madonna e di Mick Jagger, “Benevenuto Cellini” di Hector Berlioz si svolge in una Roma rinascimentale che assomiglia alla “Metropolis” di Fritz Lang ed al mondo disneyano di “Biancavene”. Cellini viaggia in elicottero ed il Papa in coupé d’epoca viola; il Colosseo è un enorme fucina prototecnologica. Sono rimasto perplesso anche in quanto i cantanti (tra le migliori voci su piazza ma in gran misura del mondo tedesco o dell’Europa orientale) hanno serie difficoltà a fare comprendere il loro francese (essenziale per un opéra comique) Questa edizione andrà a San Pietroburgo e Parigi; quindi, sarebbe bene pensare a qualche correzione di tiro.
Tiriamo le somme. Indubbiamente, l’attualizzazione delle azioni sceniche, l’impiego della tecnologia digitale, la ricerca di cantanti con il “physique du rôle”, l’attenzione alla recitazione contribuiscono a rendere maggiormente accessibile la musa bizzarra ed altera al pubblico nuovo, specialmente a quello giovane. Sempre che non si cada in eccessi e che non si pensi che basti svecchiare le regie per risolvere un che ha radici socio-economiche e culturali molto più profonde.
Iscriviti a:
Commenti sul post (Atom)
Nessun commento:
Posta un commento