Il Protocollo del 23 luglio 2007 differisce profondamente dal “patto sociale” del 23 luglio 1993 in quanto, mentre il secondo cercava di distribuire costi e benefici tra le varie categorie e classi di età, il primo ha aspetti fondanti che gravano principalmente sui giovani e sulle generazioni future. Lo ammettono gli stessi firmatari che, per attutirne gli squilibri, hanno posto la clausola di salvaguardia in base al quale la pensione non dovrebbe mai essere inferiore al 60% dell’ultimo stipendio. Tale clausola – come farà la Margherita e parte dei Ds ad approvarla ove mai diventasse parte di un disegno di legge? – equivale al “De Profundis” per la “riforma Dini” del 1995 che aggancia i trattamenti previdenziali ai contributi versati, ripropone la piaga delle “pensioni di annata”, azzera la normativa del 1989 con cui assistenza e previdenza venivano nettamente separate nei conti del maggior istituto previdenziale (l’Inps) ed in breve fa fare tre salti mortali all’indietro al nostro welfare, riportandolo all’inizio degli Anni 80. Lo riconosce la sinistra “di lotta e di governo” che – paradosso italiano di cui ride la stampa internazionale – ha tappezzato il Paese di manifesti contro le iniquità generazionali del Protocollo e continua ad avere suoi esponenti alla guida di importanti dicasteri.
Cosa fare? Sperare che il Protocollo divenga un documento platinico che non verrà mai utilizzato come base di una politica legislativa – ossia di concreti ddl da portare in Parlamento? Cercare di individuare quali sono i correttivi possibili all’interno del sistema?
La seconda strada sembra la più concreta e la più realistica, specialmente se non si ha presto una crisi di Governo con relative elezioni anticipate. Può anche diventare un percorso per un’opposizione che voglia e sappia essere propositiva per rispondere all’interesse del Paese.
Ciò comporta, in primo luogo, mettere a tutti nella testa che il vero “scalone” non è la modesta misura (interessa solo 180.000 italiani su tre anni, 60.000 l’anno) prevista dalla riforma Maroni del 2004 ma la “scalinata” di 18 anni, chiesta ed ottenuta dalla triplice sindacale nel 1995, per effettuare una transizione da sistema retributivo a sistema contributivo che altri Paesi hanno effettuato in tre anni. Tenendo conto delle pensioni di reversibilità, farà sì che, nel nostro Paese, sino al 2030 circa ci saranno pensionati con elevati trattamenti “retributivi” (o “misti”) e pensionati con bassi trattamenti “contributivi”. I secondi sono coloro che hanno cominciato a lavorare negli Anni 90 e le prospettive per i loro figli saranno ancora più nere se verrà dato corpo normativo al Protocollo. Occorre anche porre l’accento che le regole per la “totalizzazione” non consentono di contabilizzare periodi contributivi presso un istituto inferiori a sei anni; penalizzano gravemente giovani, donne e meridionali (caratterizzati da carriere frammentate). Non occorre avere un Premio Nobel in matematica attuariale per rendersi conto che ponendo fine subito alla costosa transizione ci sarebbero ampie risorse per modificare la totalizzazione evitando che giovani, donne e meridionali perdano letteralmente molti anni di contributi versati- diventino, nel gergo Inps, “silenti”, le cui pensioni future vengono fortemente decurtate quando non spariscono quasi del tutto.
Non è una proposta di destra o di sinistra. Ma soltanto di buon senso. Richiede , per essere affinata ed attuata prima che sia troppo tardi, un po’ di conteggi. Invece, delle sedute di parapsicologia praticate , con solerzia e con profitti, da qualche Rasputin di Provincia.
San Giacomo Apostolo (che ricorri il 23 luglio), ispirali Tu!
Iscriviti a:
Commenti sul post (Atom)
Nessun commento:
Posta un commento